Archivio mensile 31st Luglio 2018

Tina Modotti

1924 – Ritratto di Tina Modotti eseguito da Edward Weston
Fotografa, ma anche attrice protagonista di alcuni film muti dei primi anni Venti del secolo scorso, Tina Modotti rientra perfettamente in quella ristretta cerchia di Artisti (sì, con la maiuscola) dell’obiettivo.
La sua fotografia, infatti, è a pieno titolo una delle più importanti testimonianze dell’inizio del secolo scorso.
Ogni volta che si usano le parole “arte” o “artista” in relazione ai miei lavori fotografici, avverto una sensazione sgradevole dovuta senza dubbio al cattivo impiego che si fa di tali termini. Mi considero una fotografa, e niente altro.
Ennesima citazione che prova l’attendibilità un luogo comune che mi piace riportare prima di iniziare a parlare della vita di Tina Modotti: è proprio vero che il vero genio spesso non sa di esserlo.
Tacciati di essere convenzionali e sensazionalisti, tuttavia i luoghi comuni spesso ci azzeccano. E in questo caso, più che in ogni altro.
Tina Modotti: tra Udine e la California
Nata a Udine il 17 agosto 1896, Tina Modotti trascorre i suoi primi mesi di vita nel quartiere di Borgo Pracchiuso dove vive la sua famiglia operaia aderente al Socialismo.
Sua madre era una casalinga che sporadicamente si dedicava al cucito, il padre era un meccanico e carpentiere. La casa in cui viveva la famiglia di Giuseppe Modotti era molto più che spartana, praticamente fatiscente. E in effetti, quando Tina ha solo due anni, tutta la famiglia si trasferisce in Austria per cercare condizioni economiche più favorevoli.
In Austria nascono altri quattro fratelli nel periodo che intercorre fino al 1905, quando la famiglia Modotti fa ritorno a Udine: Tina frequenta con ottimi risultati le scuole elementari nel capoluogo friulano.
Nel 1908 inizia a lavorare in una fabbrica tessile della città, ma è in questo periodo che Tina Modotti ha il suo primo approccio con la fotografia, grazie allo zio paterno, proprietario di uno studio fotografico. E mentre apprende i primi rudimenti su quella che sarà la sua professione da adulta, il padre emigra in America in cerca di un lavoro.
Su esempio preso dal padre, nel 1913 Tina Modotti lascia l’Italia per raggiungere San Francisco dove trova impiego in un’azienda del settore tessile
Il suo primo approccio con l’arte non è subito fotografico, infatti in questo periodo si avvicina al teatro amatoriale recitando in alcune opere di Pirandello e D’Annunzio, gli autori più noti della scena italiana di primo Novecento.
La svolta professionale di Tina Modotti arriva però nel 1918, in seguito al matrimonio con il pittore Roubaix de l’Abrie Richey, anche noto con il soprannome “Robo”. La coppia lascia San Francisco per giungere a Los Angeles. Per Tina è l’occasione giusta per avvicinarsi a una carriera nel cinema.
Tina Modotti a Hollywood
Il primo film a cui partecipa ha per titolo The Tiger’s Coat, in italiano Pelle di tigre. La pellicola, che la vede protagonista accanto a Lawson Butt, è un discreto successo e soprattutto lancia il nome dell’attrice italiana nello stardom hollywodiano.
Percepita come un talento sensuale ed esotico e forte di una recitazione meno convenzionale rispetto alle classiche attrici del periodo, Tina Modotti sembra distinguersi per queste caratteristiche nel cinema del periodo.

Al primo film seguono altri due titoli che non hanno la stessa risonanza di Tiger’s Coat, Riding with Death e I Can Explain. Per Tina Modotti il cinema si trasforma in una vera e propria delusione, anche se rappresenta un’occasione per farsi conoscere negli Stati Uniti. E infatti per la sua bellezza viene immortalata da fotografi come Joahn Hagemayer, Jane Reece e da Edward Weston, con il quale intreccerà una relazione sentimentale.
Nel 1922 muore il marito, durante un viaggio in Messico. Tina Modotti si reca nel paese per i funerali di “Robo” e scopre una nazione che negli anni successivi sarà al centro della sua vita.
Tina Modotti tra San Francisco e il Messico
Nell’estate del 1923 Tina Modotti torna in Messico con il nuovo compagno Edward Weston, con il quale si stabilisce nella capitale. La coppia vive attivamente il clima politico post-rivoluzionario ed entra in contatto con il partito comunista messicano e con diversi artisti del periodo, primi tra tutti i muralisti David Alfaro Siquieros, Clemente Orozco e Diego Rivera.
L’impegno politico coincide con l’avvicinamento all’arte e, grazie alla relazione con Weston, Tina Modotti si avvicina alla fotografia sviluppando prestissimo una propria cifra stilistica.
Il 1924 è un anno fondamentale nella biografia di Tina Modotti: la sua prima esposizione fotogafica, insieme a Edward Weston, è inaugurata nel Palacio de Minerìa, in presenza del capo dello stato. Subito dopo la coppia fa ritorno a San Francisco: giusto il tempo per conoscere la fotografa Dorothea Lange e acquistare una camera Graflex.
Ritornata in Messico, Tina intraprende un viaggio con il suo compagno nelle regioni centrali del paese. È un esperienza di vita e d’arte fondamentale per la sua carriera: tre mesi che porteranno alle immagini per il libro Idols Behind Altars dell’antropologa Anita Brenner.
Da questo punto della sua vita, Tina Modotti è a tutti gli effetti una fotografa professionista con un nome prestigioso, e riesce a vivere con la sua arte. Entra a far parte del partito comunista e ha una relazione con il pittore militante Xavier Guerrero. Tra gli altri suoi impegni, spicca l’impegno per il movimento sandinista nel comitato “Manos fuera de Nicaragua” e si prodiga per la liberazione di Sacco e Vanzetti.
La passione politica
È in questa fase, la seconda metà degli anni Venti, che la fotografia di Tina Modotti cambia radicalmente: il suo obiettivo si sposta dalla natura verso la denuncia sociale. La sua fotografia si fa strumento di indagine. Il lavoro è esaltato in tutte le sue forme, così come le manifestazioni politiche, il ruolo dei sindacati, l’iconografia del comunismo.
Le riviste più importanti del paese si contendono i suoi scatti, mentre la frequentazione della scena intellettuale messicana la porta a conoscere la pittrice Frida Kahlo (con la quale probabilmente ebbe una relazione sentimentale) e lo scrittore John Dos Passos.

Frida e Tina
Dall’estate del 1928 Tina Modotti stringe una relazione con il giovane rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella. La sua fotografia è ancora più vicina alla militanza politica, ma la relazione con Mella dura poco perché Julio Antonio è ucciso nel gennaio dal 1929 da alcuni sicari di Gerardo Machado, dittatore di Cuba.

1929 – Uno dei più celebri scatti di Tina Modotti, “Le mani del burattinaio”. Senso estetico simbolista e denuncia politica si fondono in una immagine simbolo della sua fotografia.
Con una sua mostra definita “la prima mostra fotografica rivoluzionaria in Messico”, la carriera di fotografa di Tina Modotti è al suo apice nel dicembre del 1929.
Qualche mese dopo, infatti, è costretta a lasciare la nazione perché accusata ingiustamente di aver partecipato a un attentato contro Pasqual Ortiz Rubio, il nuovo capo di stato. Arrestata ed espulsa dal Messico, Tina fa ritorno in Europa.
Gli ultimi anni di Tina
In Europa Tina Modotti mette da parte la macchina fotografica e si dedica completamente alla politica.
Prima in Russia, dove si unì alla polizia segreta sovietica, poi in Spagna per la Guerra Civile, accanto al politico italiano Antonio Vidali, il suo nuovo compagno fin dagli ultimi giorni in Messico.
In Spagna fino al 1939, rientra in Messico con Vidali sotto falso nome, per morire in circostanze sospette il 5 gennaio del 1942, ufficialmente vittima di un infarto.
Secondo il muralista Diego Rivera, invece, sarebbe stato il suo stesso compagno a ucciderla, in quanto troppo pericolosa per l’attività rivoluzionaria di Vidali.
Ad aumentare il mistero legato alla morte di Tina Modotti, alcuni storici hanno anche parlato di un suo coinvolgimento – insieme ad Antonio Vidali – nell’assassinio del politico russo Lev Trotsky, avvenuto proprio a Città del Messico.
Tina Modotti: lo stile e la tecnica
Come per un’altra grande fotografa italiana, Letizia Battaglia, lo stile della Modotti, specie quello della maturità artistica, è legato a doppio filo all’esperienza personale della società in cui viveva. Alla sua attività politica e rivoluzionaria.

1929 – Donna di Tehuantepec, Messico

Contadini in sciopero, Messico
Come già detto, nell’esperienza di Tina Modotti, il dato biografico e l’aspetto artistico sono praticamente la stessa cosa.
Ma nella sua breve ma intensa attività di fotografa ha lasciato un segno indelebile, mostrando di avere un’innata passione per quella che negli anni sarebbe diventata la “street photography”.
Uno stile fotografico, il suo, non attento ai soli aspetti estetici, ma in primis ai contenuti sociali.
La fotografia, proprio perché può essere prodotta solo nel presente e perché si basa su ciò che esiste oggettivamente davanti alla macchina fotografica, rappresenta il medium più soddisfacente per registrare con obiettività la vita in tutti i suoi aspetti ed è da questo che deriva il suo valore di documento. Se a questo si aggiungono sensibilità e intelligenza e, soprattutto, un’idea chiara sul ruolo che dovrebbe avere nel campo dello sviluppo storico, credo che il risultato sia qualcosa che merita un posto nella produzione sociale, a cui tutti noi dovremmo contribuire.

Luisa Casati Stampa: la donna che spezzò il cuore a D’Annunzio

Molti anni dopo Gabriele d’Annunzio si ricordava ancora di quel mattino lontano, alla vigilia della partenza della marchesa Luisa Casati Stampa per Saint-Moritz. «Facevo colazione da solo con lei. Credo che l’amassi già, senza dubbio la desideravo come sempre». Le aveva portato un singolare dono, una lunga spazzola da bagno inglese. «Era un modo per toccarla da lontano, con delle dita magiche». Quando il marito entrò e guardò incuriosito l’oggetto, lo scrittore arrossì.
Non era passato troppo tempo da quando, nel 1903, l’aveva notata, a una battura di caccia. C’era qualcosa di strano in «quell’amazzone sottile» di ventidue anni che spingeva ostinatamente il cavallo verso i salti più rischiosi. Una sera se l’era trovata vicina a tavola, avvolta in un abito grigio con perle nere. «Io ero seduto, gli occhi all’altezza della sua coscia… ero turbato fin nel profondo», ma aveva ideato una serie di stratagemmi per sfiorarla.
D’Annunzio aveva una ventina d’anni più di quella ragazza alta e molto avvenente. Era calvo e tarchiato, ma era vestito con un’eleganza sofisticata e soprattutto aureolato dalla gloria delle sue innumerevoli conquiste. Per una volta corteggiò lentamente la sua preda.
Luisa Amman era nata a Milano nel 1881 da una ricca famiglia di industriali tessili. Sposare il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino era stato per lei essenziale e irrilevante come per un attore salire sul palcoscenico su cui potrà recitare.La relazione presto universalmente nota con D’Annunzio le diede la spinta necessaria per iniziare a essere se stessa. «Voglio essere un’opera d’arte vivente» aveva dichiarato. E ci riuscì. Il suo corpo diventò una statua. Il suo viso un quadro. La sua conversazione una recitazione. Non ebbe abiti, ma costumi.
Luisa si concesse a D’Annunzio, ma non ne fu mai succube, piuttosto una collega nell’arte di affascinare la propria epoca. Fu la sola di cui lo scrittore parlava con un riguardo pieno di meraviglia: era «l’unica donna che mi ha sbalordito». Come sempre coniò per lei dei soprannomi; fu Monna Lisa, Domina, poi per sempre Coré, la dea degli inferi. Lui per lei rimase Ariel, lo spiritello insolente della Tempesta di Shakespeare. Diventare un’opera d’arte per lei non era stato facile, ma con tenacia la marchesa adattò al suo obiettivo il corpo ossuto, un viso asimmetrico, i folti capelli indomabili. Soltanto i larghi occhi verdi erano quasi all’altezza del compito, ma non abbastanza. Lei li aureolò di bistro e li dilatò con gocce di belladonna. Si imbiancò il viso, tinse i capelli di un rosso sulfureo e sottolineò la bellezza delle mani con giganteschi anelli.

Quell’irresistibile Medusa non faceva visite o passeggiate, ma apparizioni. Alternava periodi di castità a periodi di dissipazione. La sua relazione con D’Annunzio non si interruppe mai, ma si diradò negli anni e convisse con altri capricciosi incontri. Lo scrittore assisteva soddisfatto all’ascesa della «piccola amica dorata», pienamente riuscita nell’intento di abbagliare i contemporanei. Tutti, da Boldini a Van Dongen, da Bakst a Man Ray, da Cocteau e Beaton, si inchinavano a quell’opera d’arte capace di usare un boa come sciarpa o di stare nuda in giardino, replicando ai detrattori: «La verità è nuda!».

Nel 1910 D’Annunzio modellò su di lei un personaggio del romanzo Forse che sì forse che no. Isabella Inghirami era «avvolta in una di quelle lunghissime sciarpe di garze orientali… tinte di strani sogni» di Fortuny. «Le sue vesti vivevano con la sua carne come le ceneri vivono con la bragia». Ogni suo minimo gesto restava inimitabile, dal «togliersi la lunga calza di seta stando accosciata sul letto», al «togliersi dal cappello gli spilli sollevando le braccia in arco e lasciando scorrere la manica sino al poco oro crespo dell’ascella».
Con la «distruttrice della mediocrità» Gabriele condivideva il gusto della «mattonella di Persia», come chiamava la cocaina che illuminava i loro incontri. Il seduttore non si separava mai dalla scatolina d’oro «dove brilla la polvere» che esaltava la sua sensualità regalandogli un’effimera gioventù. Nel 1913 la marchesa e l’autore vissero un’estate intensa, siglata dal commento scritto da D’Annunzio dietro una fotografia dell’amata scattata da de Meyer: «La carne non è se non uno spirito promesso alla Morte». Il 9 agosto scrisse: «A Parigi la Sua vita era sparsa da per tutto. Bastava l’odore della pioggia per creare in me il Suo viso di bambina dispotica… Bastava un motivo di danza per gettare contro di me il Suo corpo pieghevole o per abbassare tutti i miei pensieri sotto il Suo piede arcuato.
Ma bastava un nulla per allontanare quei due grandi egocentrici. Allora la marchesa tempestava da Parigi l’amante in ritiro ad Arcachon. «Coré piange. Non si deve mai tormentare Coré. Le parole sono lontane. Venga se l’ama». E lui replicava: «Come Coré è lontana! Per due o tre giorni m’è parso di sentirla vicina; poi è ridiventata distante… Ora, per giungere fino al suo cuore, bisogna traversare molti cerchi di vanità umana».
Nel confronto infinito tra gli amanti, nel 1917, il Vate pensava di farle visita quando aveva saputo che la marchesa era in albergo da tre giorni, ma solo allora lo aveva invitato nella sua stanza. «La tentazione di vederla nella notte. Poi la rinunzia, malgrado l’assedio dei ricordi». Ad attrarlo non c’era solo il fascino indubitabile della donna. La Casati infatti si dedicava a pratiche di magia nera e a sedute spiritiche che da sempre incuriosivano D’Annunzio. Una notte animata da un temporale gli amanti si dedicarono, sulla via Appia, al rito stregonesco dell’involtura, in cui viene battezzata la figura di cera di un nemico, prima di trafiggerla. Tuttavia quella cerimonia intima era un’eccezione. Le messe nere che la marchesa organizzava erano soprattutto spettacoli e i lacchè neri solo comparse nell’incessante spettacolo della sua vita.

Scortata dagli animali, dal tranquillo ghepardo al pitone, dal pappagallo nero al levriero verniciato di blu in pendant col cappello della padrona, Luisa Casati interpretò magistralmente la femme fatale, ma non rovinò nessuno. A parte quello mai concluso con il Vate, i suoi amori rimasero al margine della sua eccezionale esistenza.
«Ella possedeva un dono e una sapienza onnipotente sul cuore maschile: sapeva essere o parere inverosimile», essere accessibile o lontana, come quando resistette a lungo al bombardamento di inviti al Vittoriale. Si fece precedere da un dono insolito, una gigantesca tartaruga che dopo una morte per indigestione sarebbe stata trasformata in scultura e ancora oggi trionfa in bella mostra. «È arrivata la tartaruga superando nella velocità Coré che forse arriverà l’anno prossimo» replicò lui imbronciato. Nell’attesa si abbandonava al flusso della memoria, aiutato dalla muta presenza della statua di cera della marchesa dotata di un sontuoso guardaroba di Poiret. Nel 1924 finalmente lei cedette alle richieste dell’anziano amante e soggiornò per un mese al Vittoriale. «Coré torna verso di me, dopo tanto».
Gli ultimi vent’anni della vita della Casati si svolsero sotto il segno della rovina fisica e finanziaria. Morì povera nel 1957, dopo avere coscienziosamente sperperato il denaro che tanto disprezzava. Cecil Beaton colse, con un trabocchetto, le ultime patetiche immagini della primadonna ormai vecchia e segnata, sotto la spessa veletta e la pelliccia di leopardo tarlata. «O Coré» aveva scritto D’Annunzio «inafferrabile come un’ombra dell’Ade».                                                      

Di Giuseppe Scaraffia

Non é vero che le STEM non sono per le ragazze!

Ce lo dice Selena Sironi!

 Le STEM sono le discipline scientifiche verso cui, ancor oggi, sopravvive il pregiuduzio di genere che le considera adatte solo ai maschi

Selena, Ingegnere Chimico, si occupa di controllo degli odori ed é arrivata a loro per caso, anni fa, quando c’era l’emergenza rifiuti nel Comune di Milano.

” Non ascoltate chi dice che le STEM non sono da ragazze, non é vero. Ho avuto due figli , uno durante il dottorato e l’altro da precaria durante il post doc. Oggi non posso pensare alla mia vita né senza il lavoro né senza la mia famiglia”

Ho sempre amato la matematica!

A dirlo é Camilla Colombo , professore associato in Meccanica del Volo Soaziale.

Si occupa di Meccanuca Orbitale cioé studia e disegna le orbite dei satelliti artificiali. Si interessa anche al problema dei satelliti a ” fina vita” 

” Lavoro in un ambiente maschile” dichiara Camilla” ma non credo nelle quote risa, non voglio essere protetta”

Libera Ahed Tamimi

Ahed Tamimi, la ragazza di 17 anni diventata il simbolo della resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana, è stata rilasciata oggi, 29 luglio 2018, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa palestinese Maan.
L’attivista palestinese ha scontato 8 mesi di detenzione dopo che un tribunale militare l’aveva condannata per aver schiaffeggiato nel dicembre del 2017 due militari israeliani nel villaggio di Nebi Saleh, in Cisgiordania.

Uso le tecnologie per salvare vite

Si chiama Paola Saccomandi ed é professore associato in Misure eStrumentazione  industriale.

É rientrata in Italia da pochi mesi per guidare il progetto europeo Laser Optical, finanziato dall’ European Research Council con l’obiettivo di sviluppare una piattaforma terapeutica per il trattamento laser del tumore al pancreas.

” Ho scelto fin da bambina di fare la scienziata forse per l’esempio  dimia madre   che era biologa”

La scienza é creativitá

A dirlo é Margherita Maiuei, laurea in ingegneria fisica, una delle vincitrici italiane del Premio L’Oreal-UNESCO  Pwr le Dinbe e la scienza 2018.

Margherita si occupa di Spettroscopia laser ultra veloce per riprodurre la fotosintesi a vantaggio del settore fotovoltaico.

” La fisica é maschilista? Io non mi sono mai sentita discriminata”

Brava soprattutto per aver sconfitto i pregiudizi e gli stereotipi  che considerano le discipline scientifiche fredde,maschili …non é così!

“Lui” è il valore aggiunto!

Cristina Scocchi é una delle manager più giovani e importanti del nostro Paese ed é una mamma.” Lui” ci dice riferendosi al figlio” é il valore aggiunto della mia vita, non della carriera…La questione non é chiedere alle mamme un impegno minore in azienda ma adottare strumenti che favoriscano la conciliazione fra famiglia e carriera…per tutti, uomini e donne, perché l’impegno della cura non riguarda solo la donna ma entrambi i genitori!”

Dagli albori dell’umanità: DONNA!

Dagli albori dell’umanitá l’essere femminile é stato venerato e invocato come divinitá …

Penso all’adorazione della Grande Madre e all’archetipo femmineo dello psicologo Neumann con la formula: donna=corpo=vaso=mondo.

Penso anche all’amore speciale che lega ogni umano alla propria mamma come pure all’abitudine di tutti di invocarla nei momenti speciali, belli o brutti che siano.

Tutto ciò premesso mi chiedo come si spieghi l’involuzione che porta ancor oggi all’emarginazione della donna,con esiti disastrosi in termini di civiltà, in alcuni contesti.

Effettivamente il contributo dei talenti femminili é impareggiabile per cui auguro all’umanitá intera di saperli adeguatamente valorizzare …lo spreco di risorse vitali sarebbe altrimenti imperdonabile.

Le 11 Streghe

In oltre 70 anni di storia, il Premio Strega ha avuto solo 11 donne vincitrici, l’ultima delle quali Helena Janeczek che con La ragazza con la Leica, ha trionfato nell’edizione 2018. Erano quindici anni che una donna non vinceva il premio fondato da Maria Bellonci e Guido Alberti, dopo Melania Mazzucco vincitrice nel lontano 2003. Da allora, per ben quattordici edizioni, solo vincitori uomini, nonostante diverse scrittrici arrivate nella rosa dei cinque finalisti. Sembra che il riconoscimento letterario più ambito d’Italia sia prerogativa esclusivamente maschile (cosa peraltro riscontrabile anche in altri titoli, dal Nobel al Pulitzer) tant’è che escludendo periodi precisi (pensiamo agli anni Sessanta, ad esempio, decennio che ha visto il trionfo di tre scrittrici italiane: Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese e Lalla Romano) di donne vincitrici il Premio Strega ne ha avute ben poche, con un ‘record’ particolare tra il 2003 ed oggi. La LXXII edizione, invece, è stata vinta dalla scrittrice tedesca, ma italiana d’adozione, Helena Janeczek, che col suo romanzo dedicato a Gerda Taro ha raccolto il favore della giuria ma anche del pubblico e della critica. Ma quali sono, del Premio Strega, le donne vincitrici? Eccole, dalla prima edizione, nel 1947, ad oggi.
ELSA MORANTE (1953)
Elsa Morante è stata la prima, tra le scrittrici italiane, ad aggiudicarsi il premio istituito da Maria Bellonci e Guido Alberti: fu nel 1957 col romanzo dal titolo L’isola di Arturo, la storia di un ragazzino, Arturo Gerace, cresciuto da solo (la madre è morta dandolo alla luce mentre il padre è continuamente in giro per il mondo) sull’isola di Procida. Quando il giovane conoscerà l’amore, e il padre sposerà un’altra donna, le sue certezze (e il suo mondo, racchiuso nell’amata isola) crolleranno inesorabilmente.

NATALIA GINZBURG (1963)
Come Elsa Morante, anche Natalia Ginzburg è stata una delle prime scrittrici italiane ad aggiudicarsi il Premio Strega. Il romanzo, che le valse il riconoscimento nel 1963, è il celeberrimo Lessico famigliare, un libro autobiografico in cui descrive la vita quotidiana della sua famiglia d’origine, i Levi, focalizzando l’attenzione sulla comunicazione linguistica. Il romanzo, in cui la scrittrice di origine ebrea racconta, con affettuosa ironia, le vicende della sua famiglia da metà anni Venti fino agli anni Cinquanta, svela eventi legati al Fascismo e alla Seconda Guerra Mondiale evocando, tra l’altro, l’uccisione (per attività antifasciste) del marito Leone Ginzburg e il suicidio di Cesare Pavese, con cui, alla fine della guerra, la Ginzburg iniziò a lavorare.

ANNA MARIA ORTESE (1967)
Oltre ad essere una delle scrittrici italiane più famose del Novecento, Anna Maria Ortese è anche tra le donne vincitrici del prestigioso Premio Strega. Col romanzo Poveri ma semplici, infatti, l’autrice partenopea (famosa, tra l’altro, per la raccolta di novelle Il mare bagna Napoli, con cui vinse il Premio speciale per la narrativa al Premio Viareggio 1953) si aggiudicò l’edizione del 1967 del premio istituito dai Bellonci-Alberti con un libro che la stessa Maria Bellonci descrisse così: ‘esile, forse semplice ma non povero; un piccolo poema di una purezza inquietante come sul punto di frantumarsi, una memoria del tempo perduto e ritrovato nelle sillabe sguarnite’.
LALLA ROMANO (1969)
Lalla Romano, invece, vinse il Premio Strega 1969 con un romanzo, Le parole tra noi leggere, ambientato all’epoca delle rivolte giovanili di fine anni Sessanta e incentrato sul rapporto, conflittuale, tra una madre e il figlio adolescente. Oltre che dalla critica il libro fu molto apprezzato anche da Eugenio Montale: il titolo del romanzo, infatti, riprende alla lettera i versi di Due nel crepuscolo, famoso componimento del poeta genovese.

FAUSTA CIALENTE (1976)
Nata a Cagliari nel 1898, Fausta Cialente è stata una delle figure più importanti del femminismo moderno italiano. Scrittrice, traduttrice e giornalista, visse parte della sua giovinezza a Trieste, città d’origine della madre, dove si formò culturalmente coltivando la passione per la scrittura. Le quattro ragazze Wieselberger, infatti, con cui la Cialente vinse il Premio Strega 1976, rievoca, sotto forma di autobiografia, le atmosfere triestine della sua giovinezza.

MARIA BELLONCI (1986)

Maria Bellonci e Guido Alberti con Primo Levi / Ansa

Tra le donne vincitrici del Premio Strega figura anche Maria Bellonci, scrittrice e traduttrice italiana nonché ideatrice, insieme all’amico Guido Alberti, del famoso riconoscimento. Il titolo le fu assegnato nel 1986 per il romanzo, per molti il suo capolavoro, dal titolo Rinascimento privato, una biografia immaginaria di Isabella d’Este scritta, però, sotto forma di romanzo autobiografico. Sullo sfondo, i momenti cruciali del Rinascimento italiano.

MARIATERESA DI LASCIA (1995)
Mariateresa Di Lascia morì a soli quarant’anni, poco prima di aggiudicarsi il Premio Strega 1995: il romanzo, pubblicato da Feltrinelli, è Passaggio in ombra, la storia di una donna di mezza età, Chiara D’Auria, che sentendosi vicina alla morte comincia a rievocare i fatti della sua vita.

DACIA MARAINI (1999)
Considerata una delle scrittrici contemporanee più illustri della narrativa italiana, Dacia Maraini è una delle poche donne vincitrici del Premio Strega. L’opera, con cui nel 1999 si aggiudicò il titolo, è uno dei suoi libri più belli, Buio, una raccolta di 12 racconti ispirati a fatti realmente accaduti: una serie di delitti che il commissario Adele Sòfia deve risolvere, ricorrendo al suo intuito ed alla sua profonda umanità.

MARGARET MAZZANTINI (2002)
Il Premio Strega annovera, tra le donne vincitrici, anche Margaret Mazzantini, scrittrice e drammaturga italiana, nata a Dublino nel 1961. I suoi romanzi, molti dei quali diventati anche film, hanno ricevuto diversi riconoscimento tra cui, con Non ti muovere, anche il Premio Strega 2002. Il libro, il cui filo conduttore è la paura della morte, è la storia di un uomo, Timoteo, che si racconta alla figlia in coma dopo un terribile incidente: la giovane, in gravissime condizioni, viene trasportata nell’ospedale dove il padre lavora come medico…

MELANIA GAIA MAZZUCCO (2003)
Melania Mazzucco si è aggiudicata il titolo nel 2003 con un romanzo, Vita, che ha avuto molto successo sia in Italia che all’estero. La storia, a tratti fantastica e picaresca, ripercorre l’emigrazione (reale) del nonno paterno che, con alcuni amici, parte per New York. Il romanzo, oltre al Premio Strega, ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra i quali il Premio internazionale Arcebispo Juan de San Clemente di Santiago de Compostela, come miglior romanzo straniero.

HELENA JANECZEK (2018)
A quindici anni dalla vittoria della Mazzucco, nel 2018 il Premio Strega è tornato ad una donna: si tratta di Helena Janeczek, nata 54 anni fa a Monaco di Baviera, ma residente in Italia dal 1983. Il suo romanzo, La ragazza con la Leica, è ambientato nella Spagna degli anni Trenta e racconta, attraverso i ricordi di chi l’ha conosciuta, la straordinaria seppur brevissima vita della fotografa Gerda Taro. ‘Ho scelto di raccontare la vita di Gerda perché è il simbolo di una donna libera e indipendente, ha spiegato la scrittrice, una donna che ha creduto nelle sue convinzioni’ morendo, da eroina, durante la Guerra Civile spagnola.

Da Caterina Padula