Le due amiche geniali
Lila, figlia di un calzolaio, ha i capelli neri, due occhi intelligenti e una forza interiore con cui sfida il mondo. Elena, detta Lenù, è una ragazzina bionda e timida che sa cogliere con il suo sguardo le piccole cose. Si conoscono in prima elementare. A scuola sono le più brave. L’una è la forza dell’altra, contro i soprusi, le ingiustizie dei grandi e le violenze dei maschi del quartiere. Inseparabili, insieme provano la prima fuga, tenendosi mano nella mano alla conquista del mare, simbolo di libertà. Sono in competizione, si cercano e si allontanano. L’una primeggia sull’altra. Diverse nei caratteri, ma unite da un coraggio che le porta a sfidare l’orco nero, Don Achille, il boss temuto da tutto il rione. Consapevoli di poter cambiare i loro destini attraverso lo studio e la conoscenza. Le due amiche geniali cercano di farsi valere in un mondo adulto, «plebeo» e arretrato, dove le donne devono «faticare» e non studiare. Elena potrà farlo e continuare ad andare a scuola, Lila no. Le lasciamo così, nei primi due episodi che hanno conquistato 7 milioni di telespettatori. Cerchiamo allora di scoprire alcune curiosità del due giovani interpreti – entrambe dodicenni – che per volontà di Elena Ferrante sono attrici non professioniste, scelte provinando 8000 bambini nelle scuole di Napoli e dintorni. Elisa è di Napoli ma ha origini norvegesi, mentre Ludovica è di Pozzuoli, come il suo idolo Sophia Loren. Insieme, l’una accanto all’altra, Elisa e Ludovica erano la copia perfetta per interpretare: la timida diligente Lenù e l’impavida Lila. «Non ci siamo preparate, siamo andate sul set con il nostro… essere noi», ha dichiarato con piglio Ludovica. E dopo questa avventura? Sognano di fare le attrici. Ovviamente le “facce da cinema” non mancano!
Dal Web
Un plauso all’Amministrazione di Tropea
Un plauso all’Amministrazione di Tropea!
La giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne nasce dall’assunto che tale forma di violenza configura una grave violazione dei diritti umani. I più recenti studi sbomberano il campo dal luogo comune della psicopatoligia e della marginalità sociale come condizioni esplicative della violenza maschile, anche di quella contro i bambini e gli adolescenti.
Hannah Arendt ci ricorda che la “Banalità del male” sottende la trasversalità dei profili degli uomini violenti, che sono “uomini qualsiasi” ben oltre e indipendentemente dalle categorie tradizionali della psichiatria e della criminologia.
La violenza di genere colpisce donne che, nella maggioranza dei casi sono anche madri, in tutte queste situazioni ad ogni donna vittima di violenza corrispondono dei figli che assistono indifesi.
Il Cismai definisce la violenza assistita il fare esperienza da parte del bambino di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Il bambino può fare quest’esperienza direttamente ma anche indirettamente quando ne è a conoscenza o ne percepisce gli effetti.
La violenza assistita emerge come un fenomeno dolorosamente complesso e richiede risposte adeguate ed articolate che non possono esulare da una presa di posizione e da un’assunzione diffusa di responsabilità.
Aspiriamo dunque ad avere sempre più Istituzioni che, capaci di superare le logiche puramente partitiche, si pongano in condizione di ascolto rispetto a coloro che sono impegnati sul fronte della prevenzione e del contrasto della violenza ai danni di donne e minori, Istituzioni pronte ad ascoltare le donne che sono vittime; Istituzioni impegnate a comprendere come tutelare i minori presenti sui territori, Istituzioni coraggiose e capaci di assumere posizioni chiare contro la violenza di genere attivandosi concretamente a tutela delle vittime dirette ed indirette della violenza.
In tale ottica un plauso all’Amministrazione di Tropea che quest’anno ha scelto di schierarsi pubblicamente contro il fenomeno della violenza ai danni di donne e minori, aprendo il dialogo con tutte quelle realtà che operano in questo settore ma anche con tutti coloro che a vario titolo intervengono a tutela delle donne e dei bambini. L’auspicio è che la cultura della non violenza, la cultura del rispetto tra i generi diventi patrimonio comune, contaminando positivamente tutti. Perché il fenomeno della violenza sulle donne ed i bambini è qualcosa che riguarda tutte e tutti noi.
Luigia Barone
Giulia
Immaginate un padre che vieta alla moglie di allattare il figlio e magari ne chiude un altro a chiave perchè vuole attenzioni dalla mamma. Il bimbo strilla disperato, la mamma ha fatto un cesareo e non ce la fa a camminare.
Non so se l’immaginazione serva ma la mia storia é proprio questa.
Mi sono laureata in scienze motorie a 25 anni, avevo una vita attiva e tanti amici. Quando lo conosco in palestra lui ne ha 38 ed é bello.
Stiamo insieme da 15 giorni ma lui vuole subito darmi la chiavi di casa, regalarmi una macchina e aprirmi un conto.
Resto incinta perchè lo volevamo e ci sposiamo. A casa sua, però, manca tutto, pure le porte, e anche se la famiglia, oltre alle nozze paga l’arredo, scelto da me, io sto male lì.
Lui non c’è mai, nel quartiere non c’è nulla, pranzo da mia madre per non impazzire e lui mi chiama anche lì. Lo fa dalla mattina alla sera, é ossessionato che lo tradisca, mi alza le mani quando vede un emoticon sotto una foto sui social e poi spacca il primo di tanti miei cellulari.
Mi aggredisce se spendo soldi per comprare la pasta perché a lui non piace. Per fortuna mi ammalo durante la gravidanza e mi ricoverano: in ospedale mi sento protetta.
Quando nasce Nadia viene a vederla la sera tardi
Un medico dell’ospedale San Giovanni Battista mi mette in contatto con lo Spazio Donna di San Basilio: mi aiutano ad andare via. Mi ascoltano, mi trovano un lavoro.
La strada è lunga. Non riesco a guardarmi allo specchio, non mi riconosco
Il fatto é che quando la violenza è tanta resta il freddo e la paura. A volte, però, anche la speranza ed é come respirare.
Giulia (nome di fantasia) 27 anni , Roma, Prenestino
#nonénormalechesianormale
A lanciare la campagna Mara Carfagna, vicepresidente della Camera.
Le leggi ci sono ma il fenomeno non si riduce perché manca consapevolezza in tante donne, che credono sia normale prendere qualche sberla e sopportare, e in tanti maschi che sono abituati a risolvere molte cose con gli schiaffi e anche peggio, un’aberrazione culturale presente anche nei giovani.
Sono stati diffusi in rete, per il 25 Novembre, video realizzati da artisti di varia allocazione: dal giornalismo alla musica, teatro, moda, sport…
Il messaggio fondamentale :” Crediamo che le donne vittime di abusi debbano chiedere aiuto ma che agli uomini spetti sostenere questa battaglia”
Marica
Tu ci puoi vivere nell’inferno. Anzi per mia mamma dovevo restarci, finché almeno le bimbe crescevano. Poi invece un giorno accade qualcosa e l’inferno non ha più un posto per te.
Nel mio c’era di tutto: gelosia folle, lividi sulle braccia perchè tanto d’inverno non le vede nessuno, sedie prese a calci, sguardi di terrore, suoceri contro la mia “lingua lunga”, soldi usati per bere e giocare.
C’era pure Giada, la nostra prima figlia appena nata, mio marito perde le staffe per nulla, mi stringe il collo e mi trascina sul balcone per buttarmi giù.
Dopo qualche anno arrivano Esther e le nuove minacce: guarda che te le tolgo, te le uccido nel sonno. Così la notte mi chiudo a chiave nella stanza da letto con le bimbe e l’inferno non conosce sosta neanche nel sonno.
Una sera però ho un pensiero lucido: se non le salvo ora queste bambine non le salvo più. Esco le lascio dai miei, mostro i lividi alla Guardia Medica e lo denuncio: avrò sbagliato qualcosa quella sera se ancora oggi, dopo quattro anni, ho ottenuto solo la separazione provvisoria e lui é stato assolto dalla condanna.
Nel frattempo il mio ex dice in giro che sono una pazza che picchiava le figlie ma io vado avanti, ho una casa mia e sto facendo un tirocinio. Ho anche un sogno, ma appartiene alle bimbe: si chiama serenitá.
Marica (nome di fantasia, 35 anni Palermo
La Vergine dall’occhio nero
Di Massimo Negro
Non penso che quello che andrò a scrivere per introdurre la nota possa far piacere alla Madonna, ma d’altronde è ciò che è accaduto. Né spero di meritare per questo lo stesso castigo che capitò al Ciuccoli.
La prima volta che ho visitato il Santuario della Madonna delle Grazie è stato un bel po’ di tempo fa. All’epoca, ancora adolescente, frequentavo l’Azione Cattolica del paese in cui sono cresciuto e mi sono formato, Tuglie. Era una domenica, una bella giornata, e si era deciso di trascorrerla in questo splendido luogo alla periferia di Galatone. Il pomeriggio, dopo aver pranzato a sacco, entrammo in chiesa per le ore dedicate al ritiro spirituale.
Ma ahimè quel giorno un altro evento importante stava accadendo. Era la penultima di campionato di serie A, quando ancora le partite venivano giocate tutte nel pomeriggio della domenica e la trasmissione radiofonica “Tutto il calcio minuto per minuto” ci teneva incollati alla radio per conoscere l’andamento delle partite. Un campionato combattuto, Juventus e Roma si stavano giocando al fotofinish la vittoria del campionato. Quel giorno la Roma giocava in casa contro il Lecce, alla sua prima stagione nel massimo campionato e ormai da tempo matematicamente retrocesso.
Quel pomeriggio mi misi in fondo alla chiesa con radio e cuffiette per ascoltare quello che Ameri e Ciotti raccontavano nei loro microfoni. Delle preghiere ricordo poco, ma ascoltai una splendida radiocronaca al termine della quale il Lecce batté la Roma 3-2. Prima ed unica vittoria fuori casa del Lecce in quel campionato misero in quanto a soddisfazioni calcistiche.
Ci sono tornato altre volte ma, ancora oggi, non appena rimetto piede nel Santuario è quel ricordo giovanile che mi torna subito in mente. Chiedo perdono!
Ma veniamo al Ciuccoli. Chi era costui e perché spero di non meritare lo stesso suo castigo? Siamo nella Galatone di un anno imprecisato del 1500. Un ubriacone e giocatore di carte o, per meglio dire, uno che a carte, tra un bicchiere di vino e l’altro, di soldi sul tavolo ne metteva e, tranne qualche rara eccezione, li perdeva anche.
Forse a causa della stanchezza e del peso dell’abbondante vino in corpo, una sera trovò rifugio in una piccola cappella dedicata alla Madonna sita a poche decine di metri da dove ora sorge il Santuario. L’uomo era intenzionato a non proseguire oltre e a farsi in quel posto una bella dormita. Ma una lampada votiva accesa all’interno gli impediva di prendere sonno. Con la vista alterata dal rimarchevole grado alcolico ingurgitato, anche una piccola luce può dar fastidio. Così tra imprecazioni e ubriachi ondeggiamenti prese una pietra e con animo irato la scagliò contro colei che pareva guardarlo con disapprovazione. Il racconto popolare ci tramanda che la pietra ebbe a colpire in pieno il viso della Vergine, l’occhio destro in particolare, creando una strana ombreggiatura su di esso; a tutti gli effetti pareva (e sembra ancora) un grosso livido, di quelli che si rimediano dopo una qualche sonora scazzottata.
Il Ciuccoli ubriaco ma non stupido, si rese conto di averla fatta grossa e così scappò via.
Il giorno dopo e nei giorni successivi la popolazione del luogo si accorse di quella strana colorazione dell’intonaco dell’affresco e, non potendola spiegare in alcun modo (non so tra l’altro se qualcuno poi in quest’opera si sia mai cimentato) iniziò a gridare all’evento divino ed iniziarono le solite pratiche devozionali che solitamente ancora oggi accompagnano le madonne o i santi piangenti.
Il Ciuccoli convinto di averla fatta franca continuò tranquillo nella sua solita vita, tra un bicchiere di vino e un mazzo di carte da tagliare, mantenendosi lontano da quel luogo. Finché una sera ci ricapitò, solo che ebbe meno fortuna della precedente perché inciampò nel corpo di un uomo morto. Sfortuna per lui volle che nei pressi stessero passando anche dei gendarmi che alla vista del Ciuccoli accanto al cadavere provvidero subito ad arrestarlo. La macchina della giustizia di allora si mise in moto in modo inesorabile e lo sfortunato ubriacone venne condannato a morte nonostante le sue dichiarazioni di innocenza. Ad aspettarlo vi era il patibolo erto in Piazza San Sebastiano.
Quando il confessore si avvicinò all’uomo per raccogliere la sua confessione e impartirgli l’assoluzione in articulo mortis, il Ciuccoli ebbe l’alzata d’ingegno di mettersi a gridare alla piazza dichiarano nuovamente la sua innocenza e, come prova della sua buona volontà e veridicità della sua affermazione, dichiarò che era stato lui a far l’occhio nero alla Madonna. La tradizione racconta che sino a quel momento la piazza stesse stancamente e silenziosamente seguendo la sua impiccagione ma, a sentire che era stato lui ad arrecar danno all’immagine della Vergine che nel frattempo aveva assunto il ruolo di icona miracolosa, iniziò a gridare furiosa a voce alta “Alla forca!” .
Così il Ciuccoli destinato a morire per un fatto di sangue, venne messo a morte per quel suo atto sacrilego.
L’attuale santuario venne ultimato nel 1597 e al suo interno venne posta l’icona miracolosa della Madonna delle Grazie. Considerando che l’inizio dei lavori di costruzione dell’edificio sacro iniziarono nel 1586, è probabile che il fatto del Ciuccoli sia accaduto intorno a quella data.
Il racconto riportato è ormai parte integrante della tradizione popolare e religiosa galatonese e dell’intero Salento. La devozione, rinnovata ogni anno nei primi giorni di settembre con una bella festa molto partecipata, ebbe a nascere sì in modo particolare e, per il Ciuccoli, tragico ma si radicò subito nelle pratiche religiose della popolazione del luogo e dei centri limitrofi.
Ancora oggi il sentimento di amore verso la Madonna è particolarmente sentito ed evidente. La sera della processione ho parlato con delle persone i cui occhi luccicavano per la commozione ogni qual volta si rivolgevano alla Vergine. Mi è stato anche raccontato di un presunto miracolo accaduto di recente ad una signora di Desenzano sul Garda particolarmente ammalata che, dopo una visita al Santuario, pare che sia stata, passato qualche giorno dopo il rientro nel suo paese, inspiegabilmente guarita. Pare che si stia raccogliendo la documentazione medica per capire meglio cosa sia accaduto.
Il via vai di fedeli all’interno della chiesa è incessante. Donne, uomini, bambini salutano prima la statua della Madonna e poi si recano sull’altare ove di lato è posta l’icona miracolosa per toccarla e sostare per qualche breve momento di preghiera.
Ma questa festa ha anche un’altra particolarità legata ad un antica tradizione, sorta praticamente insieme all’edificio sacro, questa volta non di natura religiosa. La processione non si svolge la vigilia del giorno di festa ma il giorno antecedente la vigilia. Infatti il 7 settembre tradizione vuole che la gente che si recava in visita presso il Santuario sostasse la sera all’esterno con i familiari e gli amici consumando un pasto frugale consistente in due fette di pane condite con sardine sotto sale e accompagnate da un bicchiere di vino.
Considerando che questa tradizione è ancora seguita dagli abitanti di Galatone, si preferisce far procedere la processione il giorno prima della vigilia, quindi il 6 settembre, e così lasciare il 7 settembre, giorno della vigilia, a quella che ai giorni nostri è diventata la “Festa della Pagnotta e del Vino”.
Il giorno della festa, l’8 settembre, la gente si affolla intorno al Santuario per ascoltare la santa messa, aggirarsi tra le baracche e, comunque, recarsi in chiesa per un saluto alla Madonna.
Celimene
Il Misantropo, Molière (Atto III, scena IV)
Signora, devo davvero ringraziarvi. Vi sono obbligata per il consiglio che mi avete dato, e lungi dall’offendermene voglio subito ricambiare il favore, dandovi anch’io un consiglio che può giovare alla vostra reputazione; e visto che mi avete dato prova della vostra amicizia riferendomi le voci che corrono sul mio conto, voglio anch’io seguire un così bell’esempio riferendovi quel che si dice su di voi. L’altro giorno, in una casa in cui m’ero recata in visita, ho incontrato alcune persone di assai rare virtù, che parlando di quelle che dovrebbero essere le vere cure di un’anima che intenda viver bene, hanno fatto cadere il discorso su di voi, signora. E lì, il vostro rigoroso pudore e le vostre grandi dimostrazioni di zelo, sono state citate tutt’altro che a buon esempio; questa ostentazione di severità, il vostro continuo parlare di onestà e di saggezza, le vostre smorfie e i vostri gridolini a ogni minima parola ambigua, come se foste l’innocenza stessa che si scandalizza, l’alta considerazione che nutrite di voi stessa, e gli sguardi di commiserazione che gettate al vostro prossimo, le vostre continue lezioni e le continue censure delle cose più semplici e innocenti, tutto questo, signora, se posso essere sincera, è stato oggetto di critiche unanimi e convinte. A che serve – dicevano – quest’aria pudica e saggia che tutto il resto smentisce? Ha un bel recitare le sue preghiere a puntino; ma poi picchia i suoi servi, e neanche li paga. Non vi è luogo sacro nel quale non ostenti un grande zelo; ma poi si copre di cipria per sembrare più bella. Fa nascondere le nudità dei quadri; ma poi le piacciono molto le cose nude e spinte. Quanto a me, ho preso le vostre difese contro tutti, assicurando che era tutto e soltanto maldicenza; ma ho trovato la mia opinione avversata da tutte le altre, e la conclusione comune fu che voi fareste bene a darvi meno pensiero di quel che fanno gli altri, e a darvene un po’ di più di quel che fate voi; che si deve guardare molto bene in se stessi, prima di poter pensare a condannare gli altri; e che se si vogliono correggere i difetti altrui bisogna farlo con l’autorità di una vita esemplare, ma che comunque – se è il caso – è sempre meglio rimettersi a coloro ai quali il Cielo ha affidato questo compito. Signora, so che anche voi siete troppo intelligente per non prendere in giusta parte il mio consiglio, e per non capire che esso nasce dalle intime pene della premura ch’io ho per il vostro bene.
Da “Il Misantropo” Molière
Tropea Città contro la violenza sulle Donne
Da qualche giorno sono apparsi per le vie cittadine, manifesti colore del sangue e in tanti si incantano a guardarli.
Qualcuno non capisce con immediatezza perché non conosce il significato del 25 Novembre, altri si stupiscono: è la prima volta che un Governo cittadino prende una posizione così ferma e palese.
In tanti, però, ammirano, apprezzano e condividono.
Il tragico fenomeno della violenza contro le Donne esiste anche nella splendida “Perla del Tirreno”?
Sembrerebbe impossibile consideratane l’impareghiabile bellezza che dovrebbe fungere da antidoto ad ogni espressione del male.
Purtroppo, però, la realtà grida l’incontrorio perché il dolore della Donna violata, abusata, mortificata, beffeggiata e uccisa non si arresta di fronte a nulla.
Grazie allora a Te, mia splendida Cittá e a Chi ti governa col coraggio di schierarsi dalla parte del rispetto e della valorizzazione della Donna.
Dire a qualcuno il mio dolore
“Oh dire, dire a qualcuno il mio dolore, la mia miseria, dirlo a me stessa, in una forma nuova, decisa, che mi rivelasse qualche angolo ancora oscuro del mio destino!”
Da “Una Donna” di Sibila Aleramo
Una donna è un romanzo di Sibilla Aleramo composto tra il 1901 e il 1904 che ebbe immediata fortuna soprattutto per il tema affrontato. Si tratta infatti di uno dei primi libri femministi apparsi in Italia.
Nelle prime pagine emerge la figura paterna e l’autrice rievoca il suo rapporto con il padre che ha per lei una grande preferenza e che le trasmette gli ideali di forza e indipendenza nei quali egli crede. Il contatto con la madre appare invece più sbiadito perché con lei la fanciulla non riesce ad entrare pienamente in contatto e ne giudica il carattere debole e sottomesso.
Quando Sibilla ha circa otto anni, il padre, che è ingegnere, decide di lasciare Milano per andare a dirigere una fabbrica di bottiglie nelle Marche, sulla costa adriatica, a Portocivitanova – ora Civitanova Marche – e così tutta la famiglia si trasferisce. Sibilla è felice e con tutto l’entusiasmo e la curiosità dei suoi dodici anni collabora in modo attivo alla fabbrica come segretaria suscitando nella gente del paese meraviglia e critiche per il suo atteggiamento anticonvenzionale e sprezzante tra gli operai.
Tra il padre e la madre della protagonista intanto si accumulano le tensioni già esistenti nel periodo milanese che sfociano in un tentato suicidio della madre, la quale sopravvive, ma rimane vittima di una demenza progressiva che la porterà ad essere ricoverata nel manicomio di Macerata, dove vivrà fino alla morte, abbandonata da tutta la sua famiglia. La ragazza scopre poi che il padre ha una relazione extraconiugale e da quel momento prende verso di lui una posizione aperta e giudicante che causerà la rottura del rapporto affettivo con lui.
Questa brusca realtà e l’inizio di una storia amorosa con un giovane impiegato della fabbrica e la violenza sessuale della quale è vittima, fanno entrare con durezza la protagonista nel mondo adulto. Costretta al matrimonio, che accetta senza gioia, vive l’esperienza come un’ulteriore perdita di libertà anche perché il marito si dimostra ben presto una persona meschina e molto lontana dai suoi interessi. Nascerà un bambino che non servirà a modificare la situazione tra i coniugi.
Per aver risposto alle attenzioni di un uomo, il marito la maltratta brutalmente e la chiude in casa per un certo periodo durante il quale lei si rende conto che il suo vero ed unico affetto è il bambino, ma la depressione aumenta e, in un momento di sconforto, tenta il suicidio. A causa di un dissapore con il suocero, il marito decide di lasciare la fabbrica e di trasferirsi a Roma con la moglie e il figlioletto.
L’avvio di una collaborazione giornalistica con una rivista femminile rende maggiormente cosciente la protagonista che una donna deve poter esprimere anche al di fuori della famiglia la sua identità e conquistarsi una vita indipendente. Il pensiero della madre, che ha sacrificato ai figli e ad un uomo-padrone la sua esistenza infelice, l’aiuta a ripercorrere un cammino difficile ma necessario di rigenerazione.
Conosce un uomo che ha intrapreso un cammino di ricerca spirituale e trova conforto nella conversazione con lui, ma il marito, sospettoso di quella relazione, la maltratta nuovamente e l’unico motivo che la trattiene dal lasciare il tetto coniugale è il timore di non riuscire a portare con sé il bambino. Il marito la minaccia, se vuole andarsene non avrà mai il bambino. Una notte lei lo sente invocare il nome di una sua amica e capisce che quell’ometto ignorante si era innamorato della sua collega della rivista. Decide di lasciarlo per non ripetere una via di secolare soggezione e per dignità verso sé stessa. Dopo un doloroso percorso interiore, decide quindi di abbandonare la casa e il bambino al quale è dedicato il libro nella speranza che possa comprendere la tormentata strada che l’autrice-protagonista ha sentito di dover percorrere.
Il romanzo rappresenta molto fedelmente la vita dell’autrice, che si firma per la prima volta con il nome di Sibilla Aleramo, ma pur essendo una autobiografia è strutturato con un impianto letterario tale da poter essere considerato, come dice Maria Corti, un vero romanzo.
La storia di Sara
Tra le donne che hanno sopportato per decenni c’è Sara, romana, 50 anni. «I primi tempi prendevo le botte come un gesto d’affetto: sono cresciuta con una padre violento, credevo che anche il mio ex lo facesse perché mi amava». La reazione di Sara è stata una profonda depressione, che l’ha portata a un ricovero e poi alla psicoterapia. Finita il giorno in cui il marito l’ha seguita, è entrato nello studio della psicologa e ha spaccato tutto. La dottoressa lo ha denunciato, poi ha telefonato a Sara e le ha detto che non poteva più seguirla. Sono iniziati anni di sevizie, minacce di morte o di suicidio (da parte di lui), referti in ospedale, denunce poi ritirate. «I carabinieri mi mandavano a chiamare e chiedevano: cosa vuole fare, proseguire o mettersi d’accordo? E io ritiravo», dice Sara. Anche questo succede spesso: «Senza una formazione specifica, le forze dell’ordine tendono a trattare le violenze come un fatto privato, che i coniugi devono risolvere da soli. Alcuni assistenti sociali li chiamano “conflitti”, invece che reati», spiega Anna Costanza Baldry, psicologa e criminologa.
Solo nel 2005, dopo quasi dieci anni di sevizie, Sara ha trovato la forza di chiedere di nuovo aiuto e si è rivolta al Centro antiviolenza della Provincia di Roma. Lì ha incontrato l’avvocatessa Teresa Manente, che un anno dopo ha portato il caso a processo. Sembrava fatta. Invece la mattina dell’udienza Sara ha mandato un fax in tribunale, per ritirare il mandato e la richiesta di costituirsi parte civile. «Ero in preda al panico: mio marito aveva bruciato il negozio di mia mamma». È il terrore, non il dolore, il nucleo delle violenze domestiche: le donne vivono nella paura costante, pensano soltanto a sopravvivere, tornano sui loro passi. Così danno forza ai persecutori. Sara ha vissuto in una bolla per anni. Finché un’amica le ha detto: «Tu hai paura di morire, ma sei già morta». Qualcosa è scattato: Sara ha cambiato la serratura di casa e ha scritto su tutti i muri, con il pennarello rosso: «Sono uscita dal cancro». A fine 2010 ha convinto l’avvocatessa Manente a riprendere il suo caso. Nel frattempo l’uomo è stato condannato per maltrattamenti a un anno (con l’indulto non farà carcere); è in corso un processo per stalking e gli è stato notificato il divieto di dimora nel Lazio. Sara non ha più paura: «Se la legge funziona, se non sei sola, puoi provare a rinascere a una vita (davvero) normale»
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