“Chicchi” è un nome che suggerisce giochi infantili, coccole materne, un fumetto per bambine: evoca tutto fuorché la guerra. Invece questo è stato il nome di battaglia di Teresa Mattei, “capitana di compagnia” nella Resistenza eletta all’Assemblea Costituente, che le cronache tramandano come la “cocchetta” di Terracini, la “signorina tanto perbene” che sembrava una democristiana, la “ragazzina di Montecitorio” che fece contento Togliatti perché la prima segretaria d’aula era una comunista. Quando si è saputo della sua scomparsa, il 12 marzo 2013, la stampa ha rievocato quasi solo la sua invenzione della mimosa come simbolo per la festa delle donne…In realtà fu una donna determinata, sempre in conflitto con le istituzioni, forse anche con se stessa, e si spese per dare senso a politiche che valorizzassero la soggettività della vita quotidiana anche nelle istituzioni.
Chicchi era stata una “dura”: educata all’antifascismo, già al Liceo si fece conoscere per aver protestato contro l’insegnante che aveva elogiato le leggi razziali. Ancora adolescente, andò a Nizza per portare a casa Rosselli un contributo degli amici fiorentini. A Mantova, dove si era recata per incontrare don Mazzolari, venne arrestata: in cella, a contatto con le prostitute, scoprì la piaga sociale che Lina Merlin avrebbe affrontato nel nuovo Parlamento.
“Ardita come un uomo”, divenne insieme comunista e partigiana. Ardita come una donna, dopo la morte del fratello (suicida in carcere per non tradire sotto tortura), a Perugia fu imprigionata dai nazisti e subì le violenze che i guerrieri impongono alle donne. Quando Firenze fu liberata raccontò di essere stata lei a indicare ai gappisti la figura del filosofo – e suo professore – Giovanni Gentile: la violenza del fascismo aveva insegnato la crudeltà della logica amico/nemico ad una donna conosciuta non solo per il rigore dei principi, ma per la dolcezza degli affetti.
Da “costituente” imparò che anche per i compagni le donne “stanno al loro posto”. Non fu una femminista ante litteram: per la sua generazione la lotta di liberazione (“nessuna Resistenza sarebbe potuta essere senza le donne”) era stato il trampolino per una parità rimasta incompiuta. Le donne non erano ancora cittadine, perché non potevano “acquisire una parte di quella sovranità che spettava a tutti”: anche se “in guerra avevano guidato treni, fatto le postine, finita la guerra erano state rimandate a casa”. Divenne scomoda al suo stesso partito per essersi rifiutata di adeguare la propria vita di donna agli ordini di un Pci moralista e bigotto: nell’inverno del 1947 era rimasta incinta dalla relazione con un uomo sposato e Togliatti aveva deciso che l’impudente doveva abortire (e non fu la sola donna a cui impose quella scelta). Teresa reagì: «le ragazze madri in Parlamento non sono rappresentate, dunque le rappresento io». La situazione fu poi regolarizzata all’estero con un espediente, ma Teresa non perdonò.
La “maledetta anarchica” (come la chiamava Togliatti) ubbidì, ma non accettò passivamente l’imposizione del voto a favore dell’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione (art. 7); per questo rifiutò di candidarsi alle elezioni del 18 aprile 1948. Per Teresa era diventato impossibile mantenere la fiducia nel comunismo sovietico soltanto perché i compagni italiani erano fedeli alla democrazia. Che Stalin fosse un dittatore lo pensavano in molti; ma «sono stata io una delle prima dall’interno del Pci a denunciarne le degenerazioni». Così venne poi anche l’espulsione dal Pci e la più giovane delle “madri della Costituzione” scomparve dall’ufficialità della scena politica italiana. La sua vita è stata sempre quella, libera, dalla coscienza, che l’ha accompagnata, dalla politica istituzionale all’attenzione per i problemi dell’infanzia, nel convincimento che già ai piccoli si debba insegnare come «cercare insieme le vie giuste e capire gli altri».
Restata vedova si risposò ed ebbe altri figli. Visse con discrezione la sua vita privata, naturalmente ma con riserbo, anche quando affrontò gravi lutti familiari.
Attenta all’impatto dei linguaggi audiovisivi sulle giovani generazioni, si impegnò in progetti che mettevano insieme cinema e scuola, attività visuali (anche con Bruno Munari) e una idea ampia di comunicazione culturale, dando vita al progetto “Radio Bambina”.
Continuò l’impegno politico come “indipendente” per le donne, a difesa della Costituzione (propose di integrare l’art. 3 con la “pari dignità di tutti, bimbi compresi”). La sua attenzione ai bambini – e a quelli che restano bambini nello spirito – per quella tensione utopistica che i suoi compagni non riuscivano a sentire come componente determinante del futuro. “Fare politica”, infatti, significa anche affidarla alla generazione che cresce, portatrice delle potenzialità umane che non abbiamo quasi mai il coraggio di far sviluppare
La donna etrusca: esempio di emancipazione
Quando pensiamo allo stato della donna nelle civiltà antiche, nel nostro immaginario si profila la figura di una donna subalterna rispetto all’uomo, e il cui compito è soprattutto quello di curare le attività domestiche, o comunque di attendere a occupazioni tipicamente femminili. Non era così, invece, per la donna etrusca: nessun altra donna come quella etrusca godette di un grado tanto altodi emancipazione, libertà e autonomia. “Le donne etrusche”, ha scritto l’insigne studioso Jean-Paul Thuillier, “sapevano essere custodi del focolare”, ma allo stesso tempo erano in grado di “tenere a bada la folla di servi e domestici. Semplicemente, a differenza di Penelope e Andromaca, esse non si accontentavano di attendere pazientemente a casa il ritorno degli sposi, ma prendevano legittimamente parte a tutti i piaceri della vita”. L’alto livello di benessere economico della società etrusca fece sì che, già in età arcaica (dal sesto secolo avanti Cristo), il ruolo della donna avesse iniziato a subire delle modifiche: se prima le donne erano essenzialmente madri dedite alla cura della famiglia, a partire da quest’epoca cominciarono a “uscire” dalle mura domestiche per partecipare in maniera sempre più attiva alla vita pubblica. Ciò vale soprattutto per l’area dell’Etruriapropriamente detta (Toscana, alto Lazio e Umbria), mentre nelle altre zone d’Italia occupate dagli etruschi questo processo di emancipazione assunse contorni decisamente più lenti: per tal ragione occorre evidenziare che è improprio parlare di donna etrusca tout-court.
Un primo aspetto importante delle donne etruscheconsiste nel fatto che, come attestano numerose iscrizioni, erano dotate di nome proprio: al contrario, a Roma le donne venivano identificate esclusivamente con il nome della gens, ovvero della famiglia, alla quale appartenevano (Tullia, Iulia, Cornelia, e così via: nel caso in cui ci fossero due donne nella stessa famiglia, venivano indicate coi numerali, come prima, secunda, tertia, oppure con gli aggettivi maior e minor se erano due). Solo a partire dalla tarda età repubblicana le donne romane avrebbero iniziato a far uso del cognomen(una sorta di soprannome). Sono sopravvissute molte attestazioni di nomi propri femminili delle donne etrusche: Velelia, Anthaia, Thania, Larthia, Tita, Nuzinai, Ramutha, Velthura, Thesathei. E sono proprio le iscrizioni rinvenute sugli oggetti a dirci molto sullo status della donna etrusca. Sappiamo dunque che le donne possedevano oggetti, sappiamo che erano in grado di leggere (su alcuni strumenti di uso quotidiano compaiono infatti indicazioni esplicative, magari per illustrare una scena decorativa, oppure dediche), e probabilmente in certi casi potevano anche essere titolari di attività commerciali. Un paio esempi: al Museo Gregoriano Etrusco, nei Musei Vaticani, è conservata un’olletta in bucchero (ovvero un piccolo recipiente che serviva per contenere alimenti) dove si legge la scritta “mi ramuthas kansinaia”, ovvero “io sono di Ramutha Kansinai”, dove il proprietario del vaso, una donna, è identificata con nome e cognome. E al Louvre si trova invece una pisside, databile al 630 avanti Cristo circa, sulla quale è apposta l’iscrizione “Kusnailise”, che potrebbe essere tradotta con “nella bottega di Kusnai”, dove Kusnai (un nome da donna) è presumibilmente la proprietaria dell’attività commerciale.
corredi funerari delle donne etrusche includono diversi oggetti che ci raccontano molto delle loro attività: sono stati ritrovati strumenti per la tessitura e la filatura (hobby che venivano praticati anche dalle donne dell’alta società, supportate dalle loro ancelle), e poi specchi, gioielli, ornamenti di vario tipo e unguentari, segno che le donne etrusche dovevano passare molto tempo a farsi belle, e ancora morsi di cavallo che potrebbero suggerire il fatto che, nell’antica Etruria, le donne si muovessero e viaggiassero in autonomia, senza un padre o un marito che le accompagnasse. Le statue e i ritratti testimoniano inoltre una grandissima varietà di pettinature che le donne etrusche amavano provare, anche se ce ne sono alcune ricorrenti: in antico (nel sesto secolo avanti Cristo) andava di moda l’acconciatura con lunghe trecce che pendevano sul seno (potevano essere due, ma anche di più), oppure con i capelli lunghi portati all’indietro in modo che ricadessero dietro le spalle. In epoche più recenti si diffuse invece la moda dei capelli corti, oppure raccolti: venivano tenuti fermi con una reticella, come nel caso della sopraccitata Velia, oppure erano pettinati “a melone”, ovvero raccolti in ciocche spesse e tirati all’indietro. Donne belle, donne raffinate, spose di principi ma anche di ricchi possidenti, di magistrati, di politici, di commercianti, che non conducevano una vita chiusa tra le pareti di casa, ma trascorrevano molto tempo in società, partecipavano a eventi mondani, uscivano spesso per assistere a gare sportive e spettacoli. In altre parole, come ha scritto lo studioso Jean-Marc Irollo, le signore etrusche “non permettevano ai loro uomini di esercitare il monopolio sul lusso e sulla gioia di vivere”.
La dimensione della donna etrusca era infatti molto meno “domestica” rispetto a quella della donna greca o della donna romana: al contrario di queste ultime, la donna etrusca prendeva abitualmente parte alla vita pubblica, come attestano le fonti letterarie latine e come possiamo agevolmente evincere anche dalle opere d’arte. Negli affreschi della tomba delle Bighe (si veda l’articolo sugli etruschi e lo sport) vediamo, in una delle tribune dalle quali gli spettatori assistono alle gare sportive, oltre a diverse donne d’ogni età, anche una coppia, con la donna che abbraccia l’uomo. Questo gesto, con la donna a prendere l’iniziativa, è stato interpretato dal succitato Thuillier come segno del fatto che tra uomini e donne vigesse una certa parità (anche perché, notava sempre lo studioso francese, nelle rappresentazioni in cui compare un pubblico, le donne hanno spesso posti nelle prime file): si tratta, per usare le parole del noto etruscologo, di un “gesto molto moderno”.
Se dunque la donna etrusca prendeva spesso parte a spettacoli, giochi o comunque a eventi pubblici, altrettanto di frequente partecipava ai banchetti. Si trattava di un’abitudine che, in Grecia e a Roma, destava scandalo, poiché fuori dall’Etruria, nella società greca e in quella romana, le uniche donneammesse ai banchetti erano quelle che esercitavano il meretricio: una donna di buona famiglia non poteva prender parte ai banchetti, dal momento che era ritenuto disdicevole. Di conseguenza, la costante presenza delle donne presso i banchetti etruschi alimentò le maldicenze degli scrittori greci e romani. Tra i passi più celebri sulle donne etrusche figura quello dello storico greco Teopompo, vissuto nella metà del quarto secolo avanti Cristo e autore di un giudizio molto severo sulle donne etrusche, anche se ormai bollato come menzognero da tutta la critica. Teopompo scriveva, in quello che è il più lungo brano antico sulle donne etrusche a noi noto, che “era costume presso gli etruschi che le donne fossero in comune: esse curano molto il loro corpo, facendo esercizi sportivi da sole o con gli uomini; non ritengono vergognoso comparire in pubblico nude; stanno a tavola non vicino al marito, ma vicino al primo venuto dei presenti e brindano alla salute di chi vogliono. Sono forti bevitrici e molto belle da vedere”. E ancora, sull’educazione dei figli: “i Tirreni allevano tutti i bambini ignorando chi sia il padre di ciascuno di essi; questi ragazzi vivono nello stesso modo di chi li mantiene, passando parte del tempo ubriacandosi e nel commercio con tutte le donne indistintamente”. Teopompo godeva della fama di maldicente anche in antico e, a parte l’affermazione sul fatto che le donne etrusche fossero “molto belle da vedere” (evidentissimo da sculture e affreschi), diverse delle sue asserzioni appaiono del tutto infondate: il passaggio sul fatto che condividessero la tavola non col marito, ma col primo che capitava, è smentito da Aristotele che assicura che “gli Etruschi mangiano insieme con le mogli giacendo sotto lo stesso manto”. Che le donne etrusche partecipassero ai banchetti insieme ai mariti è un fatto noto anche dalle testimonianze artistiche etrusche. Nella scena di banchetto della tomba degli Scudi a Tarquinia vediamo una coppia, marito e moglie, che stanno mangiando assieme sulla klíne, il tipico letto da banchetto, ma questo uso appare evidente anche dai sarcofagi che non di rado raffigurano coppie sdraiate come se stessero partecipando a una cena. In tal senso, l’opera più famosa è sicuramente il sarcofago degli sposi di Cerveteri, attualmente conservato presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma: i due sposi sono sdraiati su di una klíne e guardano davanti a loro, abbracciandosi teneramente. A un grado ben più elevato di realismo giunge poi la cosiddetta Urna degli Sposi conservata al Museo Guarnacci di Volterra: in questo caso, è possibile che le fattezze dei due protagonisti, una coppia d’età piuttosto avanzata, corrispondano a quelle reali e palesino l’intenzione dei due coniugi di mantenere vivo il loro ricordo anche dopo la scomparsa (i ritratti, infatti, venivano posti direttamente sopra al coperchio dei sarcofagi o delle urne).
Anche nell’arte gli etruschi avevano un approccio diverso nei confronti delle madri rispetto a quello dell’arte greca. I greci evitavano di raffigurare madri nell’atto di allattare i propri figli: “tale gesto”, spiega infatti l’etruscologa Larissa Bonfante, “faceva parte del mondo delle Furie, delle Eumenidi, del mondo del sangue, della natura quasi animale dell’uomo”, ragione per la quale i greci si rifiutavano di ammetterlo all’interno del loro repertorio figurativo riferito al “mondo normale”. Uno dei principali capolavori d’arte etruscaconservati presso il Museo Archeologico Nazionaledi Firenze è proprio una madre che allatta un bambino: si tratta della Mater Matuta, la dea italica del mattino e dell’aurora, e di conseguenza protettrice della fecondità, della maternità e della nascita. È stata ritrovata in una necropoli nei pressi di Chianciano Terme, e aveva la funzione di grande urna cineraria (la testa infatti è mobile): l’opera colpisce l’osservatore per la sua monumentalità che comunque non intacca il grado di realismo che lo scultore è riuscito a conferire alla Mater Matuta (si osservi la naturalezza del movimento delle mani che reggono il bambino, ma anche le pieghe dei panneggi). Nel territorio italiano anticamente era molto radicato il culto della dea madre, al contrario di quanto avveniva in Grecia, dove peraltro era anche molto meno diffusa la pratica di allattare i figli (le donne greche di elevata estrazione sociale affidavano il compito alle balie). Questo spiega anche perché ci sono giunte alcune raffigurazioni di madri con i figli nella scultura etrusca: ne sono interessanti esempi la cosiddetta kourotrophos(“colei che nutre il bambino”) proveniente da Veio, una statuetta votiva oggi conservata nei depositi della Soprintendenza per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale, oppure un bronzetto custodito al Louvre con una madre che tiene per mano il proprio figlio, o ancora la grande statua, anch’essa proveniente da Veio, di Latona, madre di Apollo, colta nell’atto di cullare il piccolo dio. Le statue votive potevano anche rappresentare neonati, e avevano lo scopo di ottenere, dalle divinità, protezione per i piccoli: ne sono interessanti esempi quelli conservati al Museo Nazionale Etrusco di Arezzo.
Per quanto fosse importante il ruolo della donna etrusca nel contesto familiare, è stata tuttavia smentita dagli studiosi l’ipotesi che la società etrusca avesse un impianto matriarcale. Secondo gli studi più recenti, le donne in Etruria non svolgevano un ruolo dominante all’interno della famiglia: il fatto che nelle iscrizioni prevalgano i nomi dei padri (anche se talvolta poteva comparire quello della madre) ha portato pressoché tutta la comunità scientifica a rifiutare l’ipotesi che spettasse alla donna la posizione principale. È però vero, come si diceva in apertura, che le donne etrusche godevano di una libertà che non era conosciuta in altre società antiche. Una libertà che, tuttavia, avrebbe conosciuto dei pesanti ridimensionamenti nel momento in cui gli etruschi entrarono in contatto con i romani. E che si perse quando la civiltà etrusca fu “inglobata” in quella romana.
Da FINESTRE SULL’ARTE
E lo Stato?
Negli ultimi tre anni il 25 per cento delle donne uccise aveva denunciato L’ uomo che le perseguitava.
Nel 2018 in Italia si sono registrati 108 femminicidi nel 2018
Teresa Mattei
Giancarla Codrignani
22 Aprile quarta giornata nazionale Salute Donna
Beatrice Lento
Primo incontro di formazione su:” ENDOMETRIOSI? …parliamone!
Beatrice Lento
Le calciatrici hanno il loro album
Finalmente anche le donne avranno il mitico album Panini.
La raccolta di 480 figurine é dedicata a Francia 2019, settima mondiale di calcio femminile che si terrá dal 7 giugno al 7 luglio.
É un evento!
Accanto all’ ENDOMETRIOSI c’è tanta sofferenza, facciamo la nostra parte
Cari Socie, Soci e Amici di sos KORAI Onlus, Vi ricordo che mercoledì 17 p.v., alle 17, ci incontreremo nell’ Aula Mnemosyne del Liceo Classico di Tropea per confrontarci sul Progetto “ENDOMETRIOSI?…parliamone!” e Vi prego caldamente di non mancare trattandosi di un momento propedeutico al nostro impegno successivo, saremo puntuali e sintetici.
Vi invito anche ad avanzare le proposte di intervento che Vi sembrano opportune. Ho stilato il percorso progettuale prevedendo queste azioni
– Incontri di sensibilizzazione, condivisione e informazione con i Soci, le Associazioni del territorio a noi affini per finalità e i Docenti della Scuola tropeana
– Confronto e dialogo con i Dirigenti e i Docenti dell’ Istituto Superiore e dell’ Istituto Comprensivo di Tropea
-Presentazione della problematica e diffusione di informazione e formazione agli studenti e alle famiglie
-Convegni dedicati alla Comunità con la presenza di esperti in campo medico e psicologico
-Diffusione di informazioni e promozione di conoscenza e di formazione attraverso il Blog soskorai.it, tutte le Agenzie dell’ Informazione e tutti i linguaggi che si riuscirà a coinvolgere
– Messaggi di Sensibilizzazione alle Istituzioni competenti
Cari Amici, accanto all’ Endometriosi
c’ é tanta sofferenza e credo che ognuno di noi debba e possa fare la sua parte.
Salutandovi affettuosamente, ancora una volta caldeggio la Vostra partecipazione.
La Presidente
Beatrice Lento
Tropea 15 Aprile 2019
Carmelea da GRETA secondo Quaderno dell’8 Marzo di sos KORAI
Sono nata dopo la guerra del 15/18 a Tropea e qui ho sempre vissuto e camminato. Mio padre si chiamava Michele ma è morto quando ero troppo piccola per ricordarlo, ricordo solo che morì all’ospedale vecchio. Con mia madre e mia sorella Vincenzina abitavamo vicino la Chiesa della Pietà.
Eravamo povere ma la gente ci voleva bene e ci aiutava. Dopo la guerra la fame “cantava cu l’angiuli” e in inverno il freddo ci faceva battere i denti fino a consumarli. Mia ma- dre diceva sempre che d’inverno “cu eppi focu campò, cu eppi pani moriu”.
Io non ho mai voluto sposarmi, marito e figli non mi sono mai passati per il cervello. Ho sempre camminato per le vie di Tropea per fare qualche lavoro, certe volte mi davano delle commissioni, altre volte andavo a portare del latte o della farina fuori Tropea. La gente si fidava di me e quando riportavo il resto me lo lasciava per mancia.
Mia sorella invece stava quasi sempre a casa, ma si sistemava come se dovesse uscire. Tutti i giorni si lavava alla fontana e si metteva il rossetto. Ogni tanto metteva al mondo un figlio, un figlio della Madonna, ma molti sono morti ancora piccoli. Chi riusciva a sopravvivere lo mandavamo all’asilo dei poveri, le suore gli davano l’olio di fegato di merluzzo, così i bambini non crescevano rachitici. Nelle vie di Tropea la miseria era ovunque. Nei bassi le persone vivevano insieme agli animali in stanzoni dalle pareti luride e il pavimento era di terra battuta. Mi ricordo ancora per le strade tutti quei bambini magri e pallidi che andavano in giro scalzi a mendicare.
Quando di notte certi uomini rientravano a casa ubriachi il giorno dopo si raccontavano fatti terribili. Noi vivevamo sempre in quella casa vicino la Chiesa della Pietà, quando una sera venne a bussare la sindachessa. Io me la ricordo sempre ben vestita con i capelli legati a trecce, ma quando aprimmo la porta lei ci apparve coi capelli lunghi e sciolti mentre si batteva il petto. Ci disse che volevano cacciarla, che volevano cacciare “la mamma nostra”, che il giorno dopo dovevamo votarla se volevamo bene alla nostra sindachessa.
Quando ci fu assegnata la casa popolare giù alla Marina per noi fu un sollievo. Finalmente avevamo l’acqua in casa e il bagno. Tutti i giorni mi alzavo presto e cominciavo a risalire la strada sotto il Vescovado. D’estate mi mettevo a raccogliere i capperi che crescono sulle mura a fianco la strada. Lo faccio anche adesso che sono vecchia, mi arrampico piano piano e riempio le buste che porto sempre con me. Prima da quella strada passavano solo muli e carretti, ma col trascorrere degli anni ho visto sempre più automobili e motorini. Prima mi facevano paura, rischiavo di essere investita, ma poi mi sono abituata e appena posso salgo prima dell’alba quando non si vede nessuno.
Sulla spiaggia davanti al Preventorio una volta i pescatori tenevano le barche all’asciutto e le loro lunghe reti stese sotto il sole. Prima del tramonto, dopo una faticosa giornata di cammino, me ne andavo in un angolo di quella spiaggia dove non c’era nessuno e là me ne stavo mezz’ora a fare il bagno, nel mare bello di Tropea. Poi quella spiaggia in estate si è riempita di persone, ogni anno sempre di più, non solo di tropeani, ma anche di forestieri.
Dopo hanno costruito il porto e quella spiaggia è sparita, molti di quei pescatori sono morti e i loro figli sono partiti lontano per cercare lavoro.
Mi ricordo alla Marina la casa per gli orfani e quel santo di Don Mottola, lui mi voleva bene, zoppicava e parlava a malapena, ma quando passavo da lì aveva sempre qualcosa da darmi e se non c’era lui veniva la signorina Irma. Quanto era bella la signorina Irma! Sorrideva sempre quando mi regalava qualcosa.
Oggi quando ritorno per le strade dove sono nata vicino la Chiesa della Pietà, vedo che in quei bassi, dove una volta vivevano le persone più povere, adesso ci sono negozi, ristoranti e bar. Prima passando da là coglievi solo fame e miseria, adesso puoi trovare di tutto. Quando vado a sedermi nei bar per riposare mi regalano dolci e bibite, all’alimentari mi danno il panino col prosciutto, alla Farmacia sul Corso non mi fanno pagare le medicine. Ma al Borgo non ci sono più quelle signore che mi regalavano i fichi secchi alla festa di “Tri da Cruci”, anche là al Borgo è pieno di negozi nuovi, non ci sono più i fabbri e i calzolai. A “Porta Nova” quando salivo dalla Marina una volta c’era il mercato, adesso lo hanno spostato sotto la Stazione.
Al Tondo, al Labirinto, al Piano Regolatore prima c’erano orti e giardini, oggi è tutto case e palazzi fino al Campo. Tropea è cresciuta, è diventata più grande, ma io continuo a camminare. Appena fermo qualcuno gli dico “gnuri meu” o “riggina mea” e mi regalano qualcosa. I tropeani mi vogliono bene e mi dicono sempre: “Carmelea sì tu a riggina i Trupea”.
Tanti forestieri quando mi vedono camminare mi fanno la fotografia, certi mi hanno pure fatto il ritratto. Oggi vedo che tutti stanno bene, i figli di quelle famiglie povere hanno fatto i soldi, c’è chi ha il ristorante, chi il negozio. Eccome li ricordo quando facevano la fila per la minestra al Convento della Sanità! Di Carmelea loro però non si sono dimenticati, mi vogliono bene e mi regalano sempre qualcosa. Io continuo a camminare, anche se sono zoppa e non ci vedo più molto bene, cammino piano piano come una “hialona”.
L’ ospedale l’hanno spostato al Campo e il Preventorio alla Marina lo hanno chiuso, ma a me sembra che le persone malate sono sempre di più. Per le strade fino alla Pineta trovo sempre siringhe buttate a terra… Anche se oggi tutti stanno bene, in questo tempo curioso vedo ovunque scandali e vrigognerie.
Adesso che sono vecchia mi aspetta il camposanto, ma prima voglio continuare a camminare per la mia Tropea. I bambini oggi stanno bene e vanno a scuola. Quando mi vedono per strada mi chiamano in coro: “Carmelea, Carmelea…”, e io gli rispondo: “A marina, a marina”.
Alle “Tre Fontane” mi riposo un pò e bevo l’acqua fresca, passo per i negozi e raccolgo qualcosa, i fotografi tengono la mia foto nella vetrina e in un bar hanno pure il mio ritratto, la gente continua a volermi bene.
Poi, prima di tornare a casa,vado in Cattedrale, prego la Madonna della Romania e penso ai figli di mia sorella, a quanti se n’è chiamati in Paradiso, adesso sono figli della Madonna e angeli innocenti che mi aspettano.
Si sta facendo sera, la luna è là che brilla sopra la Micalizia.
La scala del Vescovado è ancora lunga e la strada ancora di più, ma piano piano arriverò a casa mia. Domani se starò bene andrò alla spiaggia vicino la Rotonda e mi farò il bagno nel mare bello di Tropea per poi riprendere il mio cammino.
Oggi ho camminato molto e sono troppo stanca, il sole è tramontato davanti l’Isola e io pure come fa il sole ogni giorno me ne vado a riposare giù alla Marina.
Dario Godano