La ballata delle donne
Quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia.
Quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace.
Quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire.
Perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente.
Femmina penso, se penso l’umano
la mia compagna, ti prendo per mano.
La ballata delle donne
Edoardo Sanguineti
Donne e manicomio
Venivano rinchiuse nei manicomi perché erano troppo emancipate, eccentriche, amanti del sesso o semplicemente perché avevano “osato” denunciare le percosse subite da mariti e parenti all’interno delle mura domestiche: è la storia delle tante donne che a partire dalla seconda metà del 1800 vennero rinchiuse nei manicomi e sottoposte ad atroci trattamenti che pian piano le portarono alla morte.
Affette da patologie psichiatriche che il più delle volte erano frutto di vere e proprie invenzioni, umiliate sia fisicamente che moralmente: i volti, le voci e le storie di queste donne, una volta varcata la soglia del cancello che le avrebbe condotte verso l’internamento permanente, sono andate pian piano perse.
Nessuno si è più ricordato di loro per molto tempo né ha pensato di riesumare quegli archivi zeppi di cartelle cliniche che il più delle volte nascondevano dietro diagnosi come: “pazzia degenerativa”, “pazzia morale” o “madri snaturate” motivazioni ben più inquietanti.
Spesso, infatti, erano i mariti che, volendosi rifare una nuova vita, in un periodo in cui il divorzio era socialmente, moralmente e giuridicamente inaccettabile, sfruttavano le debolezze di quelle donne che gli erano state accanto per decenni bollandole, senza giri di parole, come pazze e non adatte alla vita sociale.
La psichiatria, poi, non essendo, all’epoca, una scienza medica ben conosciuta fece la sua parte. E il risultato di quanto fatto a centinaia di donne lo si può constatare, in modo netto, analizzando le cartelle cliniche contenute negli archivi dell’Ospedale Sant’Antonio Abate di Teramo, un vero e proprio scrigno degli errori al cui interno sono custodite le storie di tutte quelle donne condannate a morte solo perché non rispettavano il canone femminile all’epoca socialmente accettato.
E’ il caso di Adelaide D. la cui patologia psichiatrica si sarebbe sviluppata subito dopo il morso di un gatto o di Antonia, la prima donna ad essere internata nel manicomio di Sant’Antonio Abate perché affetta da “idiozia”.
La giovane varcò il cancello della struttura psichiatrica nel 1881, quando aveva solo 26 anni, e ne uscì morta 14 anni dopo, senza avere più avuto la possibilità di rivedere i suoi cari.
La morte verrà attribuita a un’infezione acuta della pella ma è cosa ben nota che nei manicomi dell’epoca più che dispensare cure, il personale medico era dedito a vere e proprie pratiche di tortura.
Lobotomia, doccia fredda ed elettroshock sono solo alcune delle crudeli pratiche a cui i pazienti venivano sottoposti.
Anche le gabbie di legno all’interno delle quali erano rinchiusi quanti non potevano permettersi di pagare un’”adeguata” retta , erano strutture che di frequente, nei manicomi, venivano adibite a stanza.
In molte di queste, infatti, vennero ritrovati dei giacigli di paglia sui quali le pazienti erano costrette a dormire per anni, per non parlare del bagno improvvisato, vera e propria latrina presente sempre all’interno della gabbia e che veniva pulito molto di rado.
Anche durante i regimi totalitari che hanno caratterizzato la storia del ‘900, le dissidenti politiche, le donne lesbiche, le testimoni di Geova e coloro che dimostravano di non rispettare quanto imposto dai rispettivi governi venivano rinchiuse in strutture d’igiene mentale dalle quali, nella maggior parte dei casi, non riusciranno più ad uscire.
Molto spesso, ad essere internate erano anche tutte quelle donne che, non avendo potuto concepire, venivano prima bollate come “malate” dai rispettivi mariti e successivamente accusate di non essere state in grado di assolvere all’unico, importane compito che spettava loro: generare prole.
Con diagnosi borderline, sempre al confine tra il socialmente accettabile e il patologico, queste donne venivano dapprima umiliate e poi segregate all’interno di ospedali psichiatrici fatiscenti dai quali imploravano, invano, di avere una seconda chance.
Dal Web
Omaggio a Tina Costa
All’epoca si ragionava in termini di «noi», mentre oggi, e da diversi decenni ormai, sembra ci si sia rassegnati a pensare solo come un «io», ciascuno per proprio conto, chiuso nella sua dimensione individuale, come se insieme non si potesse più fare niente. Eppure, se in quegli anni avessimo ragionato così, non avremmo potuto fare nulla, non avremmo potuto cambiare in alcun modo il corso delle cose. «Io», da sola, non potevo fare niente, ma «noi», insieme, abbiamo fatto tanto e non credo sia superfluo ricordarlo a settant’anni dal 25 aprile. Personalmente credo di aver fatto anche tanti errori durante la mia vita, ma rifarei tutto quello che ho fatto, passo dopo passo. Forse, anzi, senza forse, compresi gli errori.
Tina Costa
Cento in Antartide
Sì, proprio 100 donne!
Provengono da 33 Paesi e sono esperte in 25 discipline. La spedizione, guidata dalla biologa Maria Gual Soler, è all’interno di un progetto di sensibilizzazione sui cambiamenti climatici.
Il valore dell’essere femminile
Carissimi Socie e Soci di sos KORAI, ora che il Natale è vicino vengo a Voi con i miei auguri di bene. Il nostro cammino associativo raggiunge il suo terzo Natale con la consapevolezza di aver tenuto fede all’impegno preso. Abbiamo realizzato attività significative e tante altre porteremo a termine per avanzare sempre più verso la meta prescelta. Un traguardo di civiltà imperniato sul rispetto della Persona. Abbiamo in mente la tutela della donna perché ancor oggi la subcultura maschilista è forte ed è il genere femminile quello più a rischio di offese, mortificazioni e violenze. La donna è persona così come l’uomo che pure va protetto laddove e allorquando la sua dignità è minacciata. Sono felice che il nostro sodalizio includa anche uomini proprio per questo, proprio perché il nostro impegno va nella direzione della salvaguardia dei diritti umani che sono prerogativa di entrambi i generi. Il Natale del Signore porta con sè un grande messaggio d’amore per l’Umanità e di particolare stima per la Donna, scelta come madre dell’Eterno. Questo privilegio riscatta la mentalità misogina dei tempi di Gesù e induce a riflettere sul grande valore dell’essere femminile. La strada verso la Parità di Genere è ancora in salita e questo rende significativa e cogente l’opera di sos KORAI. Ora che il Bambino nasce sforziamoci di accantonare le incombenze sempre più pressanti che tendono ad assorbirci totalmente allontanandoci dalla riflessione e dal colloquio con noi stessi. La società di oggi è sempre più problematica e per essere vivibile è indispensabile dare un senso al nostro progetto esistenziale. Diamolo allora questo significato, che nobilita il nostro stare nel mondo, operando per il fine di pregnante valenza sociale che ci contraddistingue, solo così ci valorizzeremo come umanità. Il Bambinello ci addita l’importanza della Famiglia e della Comunità e noi onoriamola la sua indicazione e ci sentiremo felici. Che il Santo Natale dia gioia al nostro cuore e fiducia in un nuovo anno sereno e fruttuoso. Auguri carissime e carissimi Amici, che il Vostro cuore sia appagato da tutti i doni desiderati!
Con affetto e stima.
Tropea 18 dicembre 2019
La Presidente di sos KORAI
Beatrice Lento
Simone
«Ho seriamente pensato alla morte, a causa delle mie mediocri facoltà naturali. Le doti straordinarie di mio fratello […] mi obbligavano a rendermene conto. Non invidiavo i suoi successi esteriori, ma il non poter sperare di entrare in quel regno trascendente dove entrano solamente gli uomini di autentico valore, e dove abita la verità. Preferivo morire piuttosto che vivere senza di essa. Dopo mesi di tenebre interiori, ebbi d’improvviso e per sempre la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressoché nulle, penetra in questo regno della verità riservato al genio, purché desideri la verità e faccia un continuo sforzo d’attenzione per raggiungerla.”
Simone Weil
Marie
Marie sotto shock, è costretta a ripetere il racconto all’infinito, prima a un poliziotto, poi a un ispettore, poi in centrale. Nessuna attenzione per il suo stato psichico del momento, per la ovvia confusione mentale che può derivare dall’aver subito per ore una violenza sessuale in casa propria. Dal sentirsi terrorizzata, sola impaurita. “Meno male – dice a un certo punto uno degli ispettori – stavolta è durata poco, ha ammesso subito di essersi inventata tutto” e alzando le spalle cita due o tre casi di donne che hanno “inventato” storie di abusi per poi ritirare le denunce.
I dati e le testimonianze mostrano che gli iter giudiziari lunghi e complessi, le difficoltà che le donne si trovano ad affrontare nel momento in cui decidono di denunciare, la scarsa preparazione dei magistrati (in Italia solo il 13% ha una formazione specifica per trattare i casi di violenza di genere) portano a un gran numero di denunce ritirate, donne che non riescono a portare a fondo l’iter processuale, complice anche un contesto sociale e familiare che spesso non sostiene e aiuta il percorso di uscita da situazioni di violenza, soprattutto se domestiche.
Dal Web
Una donna direttrice creativa di Chanel
Virginie Viard é la nuova direttrice artistica di Chanel dove operava da tempo come assistente di Karl Lagerfeld.
Effettivamente il genere femminile ha finalmente preso le redini delle grandi case di modo: Sarah Burton da Alexander McQueen, Claire Waight Keller da Givenchy e Maria Grazia Chiuri da Dior.
Paradossalmente in passato erano uomini a decidere i codici dell’abbigliamento femminile, oggi si é conquistata l’inversione di rotta e il pensiero femminile é rivoluzionario.
Ne vedremo di belle!
Donna? Anche tu puoi essere atleta professionista!
Finalmente le atlete diventano sportive professioniste, anche dal punto di vista contrattuale.
La commissione Bilancio del Senato ha approvato un emendamento alla manovra presentato dal Pd che equipara le donne ai colleghi maschi, estendendo le tutele previste dalla legge sulle prestazioni di lavoro sportivo, e per promuovere il professionismo nello sport femminile introduce un esonero contributivo al 100% per tre anni per le società sportive femminili che stipulano con le altete contratti di lavoro sportivo.
I capelli al vento
“ESSERE donna in Iran è una battaglia continua. Devi lottare ogni giorno per affermare diritti basilari”. E lei, Masih Alinejad lo sa bene. Attivista iraniana, 38 anni, vive in esilio fra Londra e New York. Appena premiata a Ginevra con il Women’s Right Award, il premio per i diritti delle donne assegnato dal Summit for Human Rights and Democracy, ricorda bene quando, giornalista in patria, alle sue domande scomode i politici di Teheran rispondevano aggredendo la sua femminilità. “Zitta tu. Prima di parlare sistemati i capelli”. Quei capelli folti e ricci che sono sempre stati il suo tormento e il suo orgoglio. Al punto da trasformarli in bandiera: capelli al vento contro il regime di Teheran. Eccola la blogger che ha, letteralmente, svelato le donne iraniane: invitandole a mostrarsi a capo scoperto sul sito My Stealthy Freedom. Una sfida. Di più: per l’Iran, un crimine.
Come ha fatto?
“Da quando ho lasciato l’Iran nel 2009, costretta a fuggire per le mie inchieste sulle brutalità del regime, sono sempre stata molto attiva in rete. Faccio da megafono a quelli che sono rimasti in patria. Ma la mia pagina Facebook era un cimitero: postavo solo esecuzioni, torture, arresti. Così un giorno postai una mia foto a capo scoperto: per cambiare atmosfera. Ebbi centinaia di commenti: “Facile per te. Sei all’estero, puoi permettertelo”. Ma non era quello il punto. Il giorno dopo postai una foto di me a capo scoperto scattata in Iran qualche anno prima. Una bravata, un attimo di libertà rubata. Con la scritta: “Andiamo, chi di voi non ha una foto così scattata in Iran?”. La risposta ha sorpreso anche me: sono stata bombardata di foto. Centinaia di migliaia: così tante da spingermi a creare una pagina dove le donne possono esprimere se stesse e mostrare il vero volto dell’Iran”.
Di cosa hanno paura?
“In Iran quando ti vogliono zittire non attaccano mai le tue opinioni. Puntano sempre alla tua sessualità. Ti chiamano brutta perché pensano sia un modo di spezzarti. Ti chiamano prostituta. Io sono stata diffamata in ogni modo.”
È stata costretta a lasciare l’Iran, riceve minacce continuamente. Ne è valsa la pena?
“È vero, ho perso tutto. La mia famiglia, gli amici, la mia casa, i miei libri, le mie memorie. È rimasto tutto lì. Sono partita senza nulla perché non potevo restare in silenzio. Ma in esilio ho costruito una famiglia più grande …”.
Le donne che postano le loro foto svelate cosa rischiano?
“Farsi fotografare a capo scoperto è pericoloso. Rischiano il carcere e anche peggio. Ma è un rischio che prendono per essere se stesse. Essere donna in Iran è pericoloso comunque. Con le foto hanno trovato un modo per unirsi e farsi sentire”.
Di Anna Lombardi