Caterina: la strega
1563: Carlo Borromeo è consacrato arcivescovo di Milano. Con lui l’Inquisizione si diffonde nelle Valli Alpine, dove le antiche tradizioni ancora sono molto diffuse. La sua attività è tristemente nota. Ma non riguarda la mia vicenda, non riguarda la mia vita.
Il padrone ha una relazione con l’altra domestica che lavora per lui, che si chiama come me, Caterina, ma per distinguerci lei la chiamano Caterinetta. È la figlia della cuoca. Il Vacallo è ossessionato dalla giovane, la cerca e la scaccia di continuo, sembra quasi … innamorato. Per un po’ ha pensato di sposarla. Ma come può un uomo del suo rango pensare con affetto a una donna tanto inferiore? Il Vacallo è certo di essere vittima di un sortilegio, fatto apposta per soggiogarlo da Caterinetta e da sua madre, con il mio aiuto ovviamente, che sono strega “formale”. Non ne faccio certo mistero.
Caterina da Siena
Oimè oimè padre mio dolcissimo perdonate alla mia presuntione di quel che v’ho detto e a dire costretta so’ dalla dolce Verità di dirlo. La Volontà sua è questa e vi dimanda che facciate giustizia dell’abondantia delle molte iniquità che si commettono nel giardino della Santa Chiesa…Voi avete preso l’autorità, dovete usare virtù e potentia vostra e non volendola usare meglio sarebbe a rifiutarla… Guardate quanto avete cara la vita che non commettiate negligentia né tenete a beffe le operazioni dello Spirito Santo che sono dimandate a voi…» (Lettera255).
Così scrive Caterina poco più che ventenne al pontefice Gregorio XI tornato (provvisoriamente) a Roma da Avignone nel 1367: con dolorosa e audace determinazione gli chiede di liberare la chiesa dalla corruzione rinnovando lo spirito del vangelo. E prima ancora lo aveva implorato ma anche minacciato: «Venite venite venite e non aspettate tempo ché il tempo non aspetta voi…»(lettera206).
Caterina era nata in una famiglia numerosissima e modesta ma non povera, da Lapa e da Giacomo Benincasa nell’attuale contrada dell’Oca. Proprio in quell’anno (1347) erano apparsi in Europa i primi orrendi segni della peste che farà più di venti milioni di vittime. In Italia anche le fiorenti città della Toscana come Siena erano state contagiate dai viaggiatori provenienti da Venezia dove attraccavano le navi partite dai porti dell’Asia.
Caterina fino all’adolescenza vive nel chiuso della casa di famiglia dove il suo comportamento caparbio e silenzioso preoccupa i genitori: mangia pochissimo, si dedica a dure pratiche ascetiche, si isola dalla vita familiare. A quindici anni si unisce al gruppo delle Mantellate, donne laiche e benestanti che sotto la guida dei domenicani, pur continuando a vivere in famiglia, praticavano un regime di vita religiosa e povera e prestavano quotidiana assistenza agli indigenti della città. Caterina adotta le loro regole con estremo fervore e senza nessuna prudenza: è giovanissima e bella e la sua dedizione totale alle opere di misericordia desta sospetti e maldicenze fra le compagne. Vive una duplice vita: nel chiuso delle mura domestiche gioisce delle visioni divine talvolta violente e sempre inebrianti per la presenza vivida di un Cristo uomo sofferente e amoroso; fuori nelle strade della città cura instancabilmente i derelitti e i malati, con quell’amore «che è uno e medesimo».
«In quanta eccelentia sta l’anima in me e io in lei …come il pesce sta nel mare e il mare nel pesce così io sto nell’anima, mare pacifico» (Dialogo, par. 111).
Altre donne di quei secoli – Margherita da Cortona, Umiliana de’ Cerchi, Angela da Foligno, tutte laiche come Caterina – avevano preannunciato Caterina nell’espressione di una spiritualità tutta nuova: come lei avevano voluto e vissuto durissime penitenze e digiuni, praticato soccorso materiale e affettivo verso i poveri e gli ammalati, goduto come lei visioni traboccanti felicità, rapimento e annullamento di sé nel divino. Caterina, come Francesco d’Assisi, conosce Dio anche attraverso i lebbrosi e la povertà: l’esperienza religiosa nel Duecento oramai lontana dalla solennità e dalla solitudine contemplativa del monastero altomedievale era divenuta convivenza attiva e condivisione delle miserie e difficoltà del popolo della città mentre il colloquio appassionato con il Cristo restava riservato a un tempo e a uno spazio personale e intimo.
Su questo aspetto lo storico cristiano Claudio Leonardi ha scritto parole decisive e, credo, amare: «Dopo Caterina lo spirituale dovrà sempre più rifugiarsi nel privato, apparire come un fatto che occorre velare perché straordinario e anche pericoloso per l’esperienza storica della Chiesa».
Quando nel 1370 Urbano lascia Roma per stabilirsi a Avignone, Caterina ha una visione che riassume e innalza il messaggio delle precedenti: Cristo le apre il petto e sostituisce il cuore della donna con il suo. È il segno di una trasformazione mistica che trasmette a Caterina una energia unica: guidata dal suo Dio interiore la giovane donna esce dalla sua città natale e affronta il mondo e i potenti della terra con un linguaggio, una sapienza e un coraggio che lei stessa riconosce come «cose nuove». In questi dieci anni, gli ultimi della sua breve vita, avviene qualcosa di prodigioso: Caterina è riconosciuta come profeta e guida del popolo cristiano in un passaggio difficile, al pari di Mosè che aveva traghettato la sua gente attraverso il Mar Rosso. Fino allora il suo compito era stato «convertire i cuori», ma nell’ultimo decennio della vita Caterina vuole convertire e riformare la stessa Chiesa di Avignone sottomessa non solo al potere dei re francesi ma anche segnata dalla «temporalità» e dalla lontananza dal vangelo. Il pensiero di Caterina è lucido e veloce, il suo stile singolare anzi unico, ma come tante altre donne del suo tempo la giovane donna non sa scrivere e detta ad alcuni fedeli litterati della sua comunità le lettere indirizzate ai potenti e agli amici, scritti piene di grida, ammonimenti e preghiere. Nel 1374 i domenicani le assegnano come confessore e segretario personale Raimondo da Capua, forse anche con l’intento di controllarla. Ma fatalmente Raimondo diventa presto un suo devoto, la segue con amicizia e fedeltà assoluta tanto che è Caterina a raccomandargli di esser più libero e staccarsi da tutti, anche da lei («anche da me»).
Caterina dunque scrive, predica, consiglia, viaggia in Italia, va fino ad Avignone e contribuisce a far nascere nel pontefice Gregorio XI la decisione di tornare a Roma. Ma due anni dopo, nel 1378 con l’avvento di un antipapa, l’unità della Chiesa si frantuma e Caterina assiste impotente e disperata alla rovina.
Quando muore a Roma il 27 aprile del 1380 le sue ultime parole sono «dolce Gesù» e «sangue sangue sangue».
Nelle lettere di Caterina dalla prima all’ultima avvertiamo una corrente impetuosa di affettività, un senso straordinario della corporeità e di quella «dolcezza del cuore» che arriva talvolta a sconvolgerla: quando il sangue del condannato da lei convertito all’amore divino e alla pace, durante l’esecuzione capitale le macchia la veste e le invade i sensi e l’anima, scrive: «Riposto che fu, l’anima mia riposò in pace in tanto odore di sangue… che mi era venuto addosso di lui. Non voglio dire di più… Non vi meravigliate figlioli miei dolcissimi se io non vi impongo altro se non di vedervi annegati nel sangue e nel fuoco che versa il costato del figliolo di Dio…Gesù dolce Gesù amore» (lettera 273).
Enigmatica e grandissima Caterina. Vista dall’esterno, fuori dall’aura della sua santità canonica e dell’alta posizione di patrona d’Italia e d’Europa, appare ai nostri occhi di moderni ricca di contrasti difficili da comporre, spesso incomprensibili: una giovane donna incredibilmente tenace e determinata nell’opera che svolge in ambito pubblico (oggi diremmo politico), lucida e forte nelle sua idea di riforma religiosa che riprende con nuova forza molti motivi del dissenso cristiano e delle eresie, appassionata e inquieta nei pensieri e nella immaginazione, sofferente nel suo giovane corpo volontariamente e ostinatamente stremato dal digiuno.
Maria Teresa Fumagalli
Cristina da Pizzano: la prima donna scrittrice
Suo padre fu Tommaso di Benvenuto da Pizzano, medico e astrologo all’università di Bologna; sua madre era la figlia di Tommaso Mondini, consigliere della Repubblica di Venezia. Il padre lasciò Bologna per Venezia nel 1357, e proprio nella città veneta nacque Christine nel 1365. Poco tempo dopo la sua nascita, Tommaso da Pizzano passò al servizio del re Carlo V, per questo, nel 1368, l’intera famiglia si trasferì a Parigi. Bologna e Parigi erano al tempo i due centri maggiori della cultura. Il padre ha goduto, per parecchi anni, di molta considerazione e di notevole benessere. Christine sposò a quindici anni il piccardo Etienne Castel, che le diede due figli maschi e una femmina. Morto il re Carlo V nel 1380, e poco dopo anche il padre, Christine rimase vedova nel 1390. Iniziò così per lei un periodo molto duro durante il quale dovette far fronte ad innumerevoli problemi per sovvenire alle necessità della sua famiglia. Iniziò così a guadagnare con la penna. A partire dai primissimi anni del Quattrocento si impegnò in tutte le lotte sociali e culturali del tempo. Non è chiaro il percorso educativo e culturale che Christine ha seguito; sappiamo però che la sua posizione sociale le ha permesso un eccezionale vicinanza con una delle maggiori biblioteche d’Europa: quella, appunto, di Carlo V. Sappiamo anche che essa fu seguita nell’educazione dal padre, contro il volere della madre, la quale avrebbe preferito che la figlia seguisse il percorso di vita già segnato per ogni femmina. Molti sono infatti gli accenni nelle opere di Christine a questo strano gioco delle parti fra un padre che, seppur maschio, desidera un’istruzione per la figlia, e una madre che la preferirebbe moglie e madre alla stregua delle sue contemporanee. Christine muore nel 1430. Tra il 1390-1410 si può individuare la parte essenziale della sua imponente produzione letteraria. La sua produzione poetica è di carattere lirico, morale e allegorico-didattico e comprende: le Cent ballades, i Virelais, le Ballades d’estrage façon, i Lais, Rondeaux, Jeux a vendre, le Autres ballades, le Complaintes amoureuses, l’Espistre au dieu d’amours (1399), il Dit de la Rose (1402), il Debat de deux amans (1400), il Livre de trois jugemens, il Livre du dit de Poissy (1400), il Dit de la pastoure (1403), l’Epistre a Eustache Morel (1404), le Oroysons a Nostre Dame ed a Nostre Seigneur, gli Enseignemens e Proverbes moraux, il Livre du duc des vrais amans (1405), le Cent ballades d’amant et de dame, Livre du chemin de long estude, il Livre de la mutation de Fortune. Uno dei motivi dominanti della sua opera poetica è la lamentazione per il suo stato vedovile accompagnato dal rimpianto per la felice gioventù. Le opere in prosa comprendono: le Epistres du Debat sur le Roman de la Rose, il Livre des fais et bonnes meurs du sage roy Charles V, il Livre de la Citè des dames, il Livre de trois Vertus, l’Avision Christine, Livre du corp de Policie. Strettamente legate alle vicissitudini del tempo la Lamentation , il Livre de Paix. La monumentalità della sua produzione, ci fa intuire che Christine riesce ad imporsi come un’importante figura del XV sec.; non bisogna però dimenticare che essa, a differenza di un qualsiasi scrittore uomo del suo tempo, ha dovuto, proprio tramite la scrittura, costruirsi un’identità di donna in un contesto sociale e culturale affatto pronto ad accoglierla. Essa fu la prima ad affermare solennemente l’ingresso nel campo delle lettere, osando ”un nuovo punto di vista dal quale scrivere, quello delle donne”. Un punto di vista e una voce che si sono fatti sentire in un’opera diversificata che, come abbiamo evidenziato poco sopra, va dagli scritti filosofici, a quelli politici, religiosi, senza contare la lirica. Christine de Pizan è una “donna virile” che non antepone a se stessa alcuna maschera, ma che, al contrario, fa della sua femminilità una causa da difendere. Accusa e tenta di correggere la fragilità delle donne ne Le livre des trois vertus (1405), all’interno del quale fa una vera e propria classificazione dei ruoli delle donne nella società contemporanea, assumendo quello di pedagoga nei confronti delle altre rappresentanti del suo sesso, le quali ancora devono prendere consapevolezza della loro condizione e della eventuale possibilità di modificarla. Si tratta forse della prima femminista della letteratura francese, visto anche il tentativo di conquistare lo spazio pubblico. All’interno del suo lavoro più celebre, Le livre de la Citè des Dames, troviamo, appunto, una “città in un libro” che contemporaneamente include e trascende le città storiche. Christine introduce le reali comunità femminili storiche nell’allegoria di una città immaginaria, intendendo così creare uno spazio di autonomia e libertà per donne virtuose; spazio che lei non riesce a trovare altrove, neppure fra le mura dei conventi; spazio, inoltre, all’interno del quale le donne saranno protette dalla misoginia. Dai dialoghi che Christine instaura con le tre Dame che incontra, Ragione, Rettitudine e Giustizia, si ricava sia il pensiero dell’autrice rispetto alla svilente condizione della donna, sia la sua profonda riflessione sulle posizioni che la scolastica assume riguardo all’unità della Creazione, alla natura della virtù, alla libertà. Esemplificativa di tutto questo è una delle prime domande che Christine rivolge a Ragione: “Dio ha concesso alle donne una grande intelligenza e un sapere profondo. Ma la loro mente ne è capace?” Domanda che deriva dalla consapevolezza che gli uomini non riconoscono alle donne che delle deboli capacità intellettuali; Christine, con la sua opera, intende dimostrare il contrario. L’autrice espone problemi che risuonano anche nelle pagine nei libri contemporanei: l’accesso all’educazione per le donne, il disappunto che talvolta provano le donne alla nascita di un figlio, l’idea che le donne possano essere carine e ben vestite senza venire meno al loro “voto di castità”, la violenza nel matriomonio. Christine cerca di esplorare i motivi dell’oppressione delle donne discutendo le ragioni della misoginia maschile con Dama Ragione. Quest’ultima intende mostrare che molte donne hanno portato importanti contributi alla civilizzazione e per farlo produce una lista di donne famose, mitologiche, donne dell’antichità e contemporanee, nei vari campi della giurisprudenza, della scienza e della filosofia. Nella seconda parte, con Dama Rettitudine, si fanno molti esempi di donne che hanno o hanno avuto un altissimo senso morale accompagnato da sentimenti di pietà, saggia devozione, integrità, generosità. Usando soltanto i migliori materiali da costruzione, Dama Rettitudine costruisce la città, le strade, i negozi, e tutti i luoghi pubblici e privati. Una volta completata l’opera, Dama Giustizia procede nel popolarla con le donne migliori, cominciando dalla Vergine Maria, con Maria Maddalena e una lunga lista di Sante e Martiri. E’ abbastanza evidente, in quest’opera, l’intento di Christine de Pizan di andare alla ricerca di una genealogia al femminile che unisca in un unico percorso il suo pensiero con quello delle donne del passato e ponga le basi per quelle del futuro. Christine de Pizan fu la prima scrittrice di professione nel senso moderno del termine, che visse del suo lavoro e scrisse per committenti, in un contesto sociale e politico molto preciso, al di fuori delle mura del convento. Forse proprio per questo la sua scrittura è fortemente segnata dal proprio vissuto personale, storico e reale. Se La Citè des Dames è il libro più noto, Christine, come abbiamo evidenziato poco sopra, ha anche al suo attivo molte opere politiche (il Livre du Corps de Policie, Le livre de la Paix, la Epistre à la Reine) tra le quali ricordiamo l’ultima Le Ditié de Jehanne d’Arc (si tratta di una breve poemetto in onore di Giovanna d’Arco). Quello che Christine sembra voler far risaltare in quest’opera ma anche all’interno dell’intera sua produzione letteraria, è il contrasto fra un femminile civilizzatore, proteso alla vita, e un maschile che nella dimensione mitica come in quella quotidiana predilige lo scontro, la distruzione, la morte. Tutto questo in opposizione alla sua reale esperienza personale: Christine ha imparato dal padre mentre la madre ha cercato di ostacolarla nell’acquisizione della strumentazione intellettuale. Scaturisce forse da qui il sentire di Christine come una donna e la consapevolezza di esserlo, mentre nelle sue mani è presente una cultura che è maschile e il cui portato ha bisogno di essere ribaltato.
Cinzia Pieraccini
Tropea Candidata a Capitale Italiana della Cultura 2022
Comunicato
Tropea candidata a Capitale della Cultura 2022
Il sindaco del comune di Tropea Giovanni Macrì, dopo gli importantissimi risultati amministrativi conseguiti, per valorizzare la città, anche tramite riconoscimenti di livello internazionale, è stato nominato Ambasciatore Nazionale per la crescita del territorio. Tra gli ultimi successi che ha incassato è riuscito a far ottenere a Tropea, per la prima volta nella sua storia, il titolo di Bandiera Blu assegnato dalla FEE (Fondazione per l’educazione ambientale) al mare e alla costa tropeana, questo riconoscimento assume valore aggiunto per la ripresa turistica di tutto il litorale vibonese. Altro obiettivo del sindaco è la valorizzare del patrimonio culturale di Tropea, perciò ha deciso di continuare il percorso di candidatura a Capitale Italiana della Cultura 2022, dopo che il DL di Rilancio del 19 maggio 2020, ha decretato che per il 2021 vi sarà la prosecuzione delle attività culturali di Parma eletta Capitale Italiana della Cultura 2020, scelta giusta e doverosa, che ha tutto l’incondizionato plauso, visto l’impossibilità per Parma di attuare, nell’anno in corso, il programma previsto a causa del lockdown dovuto al Covid-19.
La segreteria generale del MiBACT, ieri ha comunicato le modifiche dei termini, il dossier di candidatura dovrà essere presentato entro il prossimo 31 luglio 2020, una giuria di esperti di chiara fama internazionale selezionerà i 10 progetti finalisti entro il 12 ottobre 2020 ed entro il 12 novembre 2020 si conoscerà la Città vincitrice della selezione.
Tropea 2021 diventa Tropea 2022! Per la Calabria la candidatura di Tropea a capitale della cultura rappresenta un vero rilancio socio economico, facendo leva, sull’asserzione che lo sviluppo sostenibile passa inevitabilmente dalla valorizzazione del sistema culturale. Tropea affonda le sue radici nel mito e nella leggenda che la vuole fondata da Ercole di ritorno dalle colonne che segnavano la fine dell’antico mondo conosciuto, città natale del filosofo Pasquale Galluppi, dell’impressionista Albino Lorenzo, ricca di una architettura impregnata di storia e pregio, con i suoi numerosi palazzi nobiliari. Tropea è Storia Accoglienza Integrazione Cultura Turismo è il Brand di tutta la Calabria, che tutto il mondo ci invidia! La sua cultura culinaria è un patrimonio indiscusso, patria che dà il nome alla cipolla rossa, prodotto di questa terra inserito nella Dieta Mediterranea Patrimonio Mondiale dell’Unesco. Tropea è cultura cinematografica e scientifica, con grandi nomi come Raf Vallone, attore,componente dell’Accademy Award associazione che attribuisce i premi oscar, calciatore, giornalista e Renato Dulbecco, medico, biologo e premio Nobel nel 1975. Culla della Chiesa Cattolica in Calabria, con la sua meraviglia Cattedrale, la spettacolare Isola nella quale è situata la Chiesa un tempo eremitica di Santa Maria scrigno di tanti tesori. Tropea è carità sociale, espresse in opere di Santi e Beati come Santa Domenica, tra le prime martiri del cristianesimo, Don Francesco Mottola e Irma Scrugli. La coordinatrice Luisa Caronte, chiama a se tutte le forze sociali del territorio, il partenariato pubblico privato che compone il Comitato Promotore, il Comitato d’Onore, l’associazionismo, il mondo delle imprese turistiche e produttive, tutti gli esperti che compongono il gruppo di lavoro chiamato a redigere il dossier di candidatura e l’intera popolazione. E dopo la drammatica chiusura, dovuta al coronavirus, che ha messo in ginocchio l’economia del paese e rastrellato impietosamente il turismo, incita a riprendere con maggior forza ed entusiasmo da dove si era rimasti in quei terribili giorni di inizio marzo, convinta più che mai della grande opportunità di ripresa sociale e economica, che rappresenta vincere questa sfida. Con Tropea la Calabria riparte per progettare un’azione di sviluppo sostenibile dell’intera regione.
La Coordinatrice del Gruppo di Lavoro
Tropea2022
Dott.ssa Luisa Caronte
Tropea con Santa Rita
Margherita Lotti, chiamata da tutti Rita, era così soave che da bimba le api la nutrivano col loro dolce miele; andò sposa giovanissima, per volere dei genitori, a Paolo, uomo feroce, che, per amor suo, si trasformò radicalmente abbandonando ogni violenza.
Ebbe due gemelli e presto assisté all’uccisione del marito per mano dei suoi antichi compagni.
Rita fu così forte e determinata da evitare la vendetta al prezzo della morte dei figli che Lei insistentemente chiese al Signore pur di non vederli trasformati in assassini.
Donna coraggiosa e pronta al sacrificio del bene considerato più sacro per una donna, scongiurò una faida spietata e non rinunciò alla sua libertà nonostante i pesanti condizionamenti che all’epoca gravavano sul genere femminile.
Oggi é la Sua festa e a Lei, a Santa Rita, femminista medievale, rivolgo il mio pensiero ammirato e riconoscente unendomi a Tropea che ha l’onore di partecipare alla Celebrazione della sua festa a Roma offrendole cento rose, cento emozioni, cento preghiere, cento suppliche, cento sorrisi, cento palpiti del cuore.
Marinella Perroni: la teologa femminista
” Io sono diventata femminista all’interno del mio percorso di formazione come teologa!” dichiara Marinella e in tante lo hanno fatto tant’è che, nel 2003, é nato il coordinamento teologhe italiane.
I temi sul tavolo sono molti tra cui l’attacco alla struttura di potere che esclude le donne dal sacerdozio.
“In questa emergenza” sostiene la Perroni “abbiamo visto quante donne sono in prima fila come studiose, ricercatrici, operatrici sanitarie. Forse, prima o poi, la Chiesa Cattolica scoprirà che ,in prima fila, ci sono teologhe, docenti, operatrici pastorali, e si aprirà al futuro”
Un dato importante é l’incontro in programma il 19 settembre a Bologna su femminismo e fedi.
Vandana Shiva
Vandana Shiva, fisica quantistica ed economista militante ambientalista, è considerata la teorica più nota dell’ecologia sociale. È conosciuta grazie al successo di Monocolture della mente (1995), un best-seller in tutto il mondo, e in Italia anche grazie al documentario del 2009 di Ermanno Olmi, Terra Madre, che mostra la raccolta del riso, nei pressi della fattoria Navdanya nella valle del Doon, dove sono custoditi i semi delle varietà locali di riso, tramandati di generazione in generazione. Lei nasce non lontano da lì, in una città dell’Uttar Pradesh, nelll’India del Nord-est. La famiglia è “progressista”, impegnata nella lotta gandiana per il superamento delle caste nell’India; la cultura e l’attenzione per i diritti civili e sociali sono di casa.
Il padre è una guardia forestale e la madre una maestra di scuola diventata contadina dopo la sanguinosa guerra di partizione tra India e Pakistan nel 1947-1948. La casa dei genitori è frequentata da intellettuali e discepoli del Mahatma Gandhi. Vandana, quindi, sin da piccola disprezza il sistema delle caste e viene educata alla parità dei sessi.
L’infanzia di Vandana non è solo cultura, ma anche contatto diretto con la terra; trascorre la sua infanzia tra le foreste del Rajahstan e la fattoria gestita dalla madre, subendo fin da piccolissima il fascino e la maestosità della natura.
Sempre grazie alla famiglia, Vandana può frequentare la scuola e il collegio cattolico di Dehra Dun e, dopo il diploma in fisica, dal 1970 l’università di Guelph, in Canada, dove consegue la laurea in filosofia della scienza, e poi quella del Western Ontario per il dottorato sui concetti filosofici della meccanica quantistica nel 1979.
Vandana torna in patria, a Bangalore, come ricercatrice in politiche agricole ed ambientali all’Indian Institute of Sciences, e all’Indian Institute of Management.
Nel 1982 Vandana torna a Dehra Dun dove crea la Fondazione per la scienza, la tecnologia e l’ecologia, un istituto indipendente di ricerca, proprio mentre nella valle si diffonde il movimento Chipko, delle donne contro la distruzione delle foreste da cui traggono sostentamento. Nell’Uttar Pradesh, sono evidenti le conseguenze della “rivoluzione verde”, dei fertilizzanti e delle varietà selezionate di semi: la resa è aumentata insieme alle estensioni coltivate a monocoltura, al degrado del suolo e delle acque, alle espropriazioni “facili” (la riforma agraria promessa da Nehru nel giorno dell’Indipendenza non è ancora iniziata). Ne sono vittime prima di tutto le donne, senza diritti men che meno di proprietà, le cui antiche pratiche sono meno produttive ma più rispettose degli ecosistemi, scrive in Staying Alive (1988). È il primo di oltre venti saggi, seguito sullo stesso tema nel 1990 dal rapporto sulle contadine indiane per conto della FAO, e da Eco-feminismo con Maria Mies, in cui scrivono: «Le donne non riproducono solo se stesse, ma formano un sistema sociale e dalla loro creatività proviene quello che io chiamo eco femminismo. Le donne sono le depositarie di un sapere originario, derivato da secoli di familiarità con la terra, un sapere che la scienza moderna baconiana e maschilista ha condannato a morte».
Nel 1991 Vandan Shiva fonda Navdanya (in hindi “nove semi”), il movimento che con altri sorti in tutto il mondo è presente al vertice di Rio de Janeiro nel 1992 dal quale nascono i primi accordi internazionali per la protezione della biodiversità e per la repressione della biopirateria. Da quel momento la difesa dei semi autoctoni contro le multinazionali che cercano di rivendicare come loro “proprietà intellettuale” varietà agricole selezionate nei secoli da comunità locali, diventa il maggior impegno di Vandana Shiva.
Quei “nove semi” rappresentano le nove coltivazioni da cui dipendono la sicurezza e l’autonomia alimentare dell’India. Il nome, dice Vandana Shiva, le è venuto in mente osservando un contadino che in un unico pezzo di terreno aveva piantato nove tipi di semi diversi. Oggi Navdanya conta circa 70 mila membri, donne per lo più, che praticano l’agricoltura organica in 16 stati del paese, una rete di 65 “banche dei semi” che conservano circa 6.000 varietà autoctone, e la Bija Vidyapeeth o Scuola del Seme che insegna a “vivere in modo sostenibile”.
Durante le riprese del documentario Terra Madre sopra citato, Maurizio Zaccaro ha realizzato un film documentario dal titolo Nove semi dove la stessa Vandana Shiva racconta l’esperienza della sua fondazione.
Ma Navdanya non è l’unico impegno di Vandana, che interviene nelle conferenze internazionali, viaggia in Africa, in Europa, in America Latina e in altri paesi asiatici, e dal 1996 partecipa in tutto il mondo alle lotte contro gli organismi geneticamente modificati, la crescita ad ogni costo, l’ingiusta ripartizione delle risorse e altri mali della globalizzazione. «Il cosiddetto sviluppo economico – scrive – anziché risolvere i problemi, rispondendo ai bisogni essenziali del mondo e della popolazione, minaccia la sopravvivenza del pianeta e degli esseri viventi che lo abitano. Questa apparente crescita economica, infatti, non ha creato nient’altro che disastri ambientali ed ha provocato un forte indebitamento dei paesi in via di sviluppo che, per creare delle basi adeguate per la loro crescita, tolgono risorse alla scuola e alla salute pubblica».
Consulente per le politiche agricole di numerosi governi, in Asia e in Europa (anche della regione Toscana), membro di decine di direttivi in altrettanti organismi internazionali, premiata più volte all’anno dal 1993, vive in parte nell’ambiente cosmopolita delle Nazione Unite e in parte nel mondo rurale indiano al quale è ancorata da Navdanya,
Le battaglie più notevoli vinte da Vandana, sono state contro le multinazionali che avevano ottenuto i brevetti del neem, del riso Basmati e del frumento Hap Nal. Questi ultimi due sono anche prodotti d’esportazione e paradossalmente, se i brevetti non fossero stati revocati, gli agricoltori indiani avrebbero dovuto pagare royalties alle società americane RiceTec e Monsanto, su ogni partita venduta all’estero.
Per questo suo enorme impegno a favore della popolazione indiana e per la sua lotta a favore dell’ambiente, Vandana Shiva nel 1993 è stata premiata con il “Right Livehood Award”, detto il Nobel per la pace alternativo.
Le resta da vincere la lotta contro gli Ogm e più in generale contro le monoculture e i loro oligopoli:
«Oggi siamo testimoni di una concentrazione senza precedenti del controllo del sistema agroalimentare internazionale in cui convergono essenzialmente tre aspetti: il controllo dei semi, il controllo dell’industria chimica, il controllo delle innovazioni biotecnologiche attraverso il sistema dei brevetti. Il diritto al cibo, la libertà di disporre del cibo è una libertà per la quale la gente dovrà lottare come ha lottato per il diritto al voto. Solo che non vivi o muori sulla base del diritto al voto, ma vivi o muori sulla base del rifiuto del diritto di disporre di cibo».
Intanto, nel settembre 2011 l’India ha denunciato la Monsanto per bioterrorismo.
Naturalmente, le posizioni politiche di Vandana Shiva non trovano concorde la comunità scientifica ed ecologica. Inoltre molte ambientaliste indiane sono preoccupate dalle manifestazioni religiose induiste organizzate da Navdanya e dalla recente insistenza di Vandana Shiva sul ritorno alla tradizione vedica in un periodo di forti tensioni con la minoranza musulmana. Giovani agronome hanno lasciato Navdanya, spiegava Suman Sahal di Gene Campaign-India a WONBIT Conference Women in biotechnology: feminist and scientific approaches una conferenza di Donne e Scienza nel 2007, per raggiungere o fondare movimenti simili, ma non confessionali.
Attualmente Vandana è la vicepresidente di Slow Food e collabora con «La Nuova Ecologia», la rivista di Legambiente.
Irene Bertazzo
La Bandiera Blu: traguardo e partenza!
La storia della Sanità calabrese in un “ Fior di Donna” di Francesco Polopoli
«Essere un’infermiera significa nascondere le tue lacrime e iniziare a disegnare sorrisi sui volti delle persone» (Dana Basem): non trovo testo più consonante di questo per tratteggiare il profilo di una donna straordinaria del nostro lametino. Una rosa nel suo nome, con un prolungamento di colore floreale persino nel suo cognome: sto parlando di Rosa Rossetti (Nicastro 1923-Lamezia Terme 1978), il cui fulgore professionale si rammemora misurato con le spine sociali di una realtà meridiana non facilissima, poco dopo il primo sessennio della nostra nascente Repubblica. «Prima infermiera professionale, figura di donna arguta, preparata, umana e gene-Rosa, che seppe organizzare e indirizzare il lavoro dell’intero corpo paramedico trasmettendo il senso del dovere e della solidarietà verso i pazienti e i medici di famiglia»: amiamoripeterci con il prof. Vincenzo Zangari, ex Capo Sezione INAM, che la dice lunga, in ossequio alla verità, su un personaggio sui generis del nostro pianoro terineo. La massima nomen, omen («un nome ed un destino») pare spesso concentrata in una coincidentia oppositorum, che vale per la vita sponsale di tutti i giorni, sì, nel bene e nel male, finché morte non ce ne separi. Del resto, ogni nostra esperienza, ancorché da coniugati, è una storia nuziale: come non sottolinearlo vita natural durante!? Che dire, poi, di quel «russus, a, um» («rosso») che, a livello vezzeggiativo, dà l’idea tutta di un carattere sanguigno, speso per solidarietà nell’attenzione del prossimo, cui è etico approssimarsi? Insomma, la sua onomastica l’ha consegnata al mondo per DNA anagrafico: per la serie, quando firmiamo a mano quanto per noi è scritto da tempo.Non mi fa specie, ad eco di un impegno eccezionale quanto il suo, ritrovarla idealmente nel prato conclusivo de Il nome della rosa del Grande Eco: «stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus» («la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi»). Il fil rouge è il medesimo: l’idea, che ne consegue, difatti, è l’ipostasi di resistenza, anche quando l’esistenza viene meno. Cos’altro aggiungere se non che le memorie non spogliano, ma si moltiplicano per con-divisione: ed è su questo sentiero che mi permetto di gettare un seme piccino per ripercorrere la sua struggente biografia. Ci provo entrando in medias res durante il clima mussoliniano dell’epoca. Un periodo non semplice nel guazzabuglio vangoghiano di una politica che si sarebbe successivamente sfasciata; gli anni dellafascistizzazione, dei Figli della Lupa, dell’Opera Nazionale Balilla, dei Fasci giovanili e della Gioventù italiana del Littorio: come dimenticarseli!? Eppur si è mossa, sul motto di Galilei, per il meglio, in prima linea, da donna, per sperimentazione: in questo frontline fu propedeutico il diploma di infermiera professionale, conseguito presso il Convitto femminile Principessa Maria Cristina di Savoia a Cosenza. Questa struttura divenne, detto fatto, luogo di accoglienza e pronto soccorso improvvisato per molti militari feriti del secondo conflitto novecentesco.Fra i ricordi familiari dei suoi a spiccare è uno in particolare: il volto di un giovane friulano arruolato in quella guerra senza senso, Fulvio, un soldato qualunque. Lo scoppio di una mina lo avrebbe colpito a tal punto da riempirgli il viso e il corpo di schegge. Proprio a lei venne affidato in cura. Avendo bisogno di medicazioni continue -proseguono gli eredi del suo appassionato memoriale – gli si dedicò con particolare premura, estraendogli ogni giorno le centinaia di schegge che tormentavano il suo corpo. Fu questa la prima ed impegnativa prestazione dainfermiera diplomata. L’incontro con il dott. Peppino Petronio, attento e lucido interprete delle istanze del tempo in campo sanitario, fu nel prosieguo assai determinante: in discussione c’era la salute pubblica, impoverita da una carenza strutturale che urlava di disperazione. In quel frangente venne a concretizzarsi un primissimo ambulatorio a servizio dell’intera comunità, dei lavoratori e delle fasce più deboli della popolazione: a dire il vero, tutto in divenire, tra piccoli locali in uno dei palazzi che facevano da cornice a Piazza d’Armi. Lei presente, come sempre! Lì si eseguivano addirittura in condizioni d’urgenza piccoli interventi salvavita, anche senza anestesia: per salvaguardare l’incolumità tutto ciò si profilava come emergenzaobbligata senza se e senza ma. Tuttavia siamo ad un passo da un’importante svolta evolutiva: la neonata Cassa mutua o INAM (Istituto Nazionale Assicurazione Malattie) è di quegli anni, raccontano i cronisti. La sezione fu inaugurata il 9 luglio 1949: la Rossetti insieme a Petronio organizzava e coordinava gli ambulatori e tutta la gestione del nuovo ente, che si arricchiva man mano di nuovo personale medico, paramedico ed amministrativo. Un particolare a memento: ai nastri d’apertura era l’unica dipendente donna della nuova istituzione sanitaria del territorio, battezzata, nel gergo lametino, a’cassamuta, tuttora dialettalizzata nel nostro vernacolo. C’è da aggiungere che l’organico contava la prestazione di più mani: il dott. Cuiuli, il dott. La Scala, il dott. Scalise, il capo-sezione Di Fresco con funzioni amministrative. Nel 1953 fu affiancata da una collega che sarebbe diventata una grande amica, l’ostetrica Lina Sgromo: più tardi l’avrebbe affiancata Lina Jolanda Reillo, sotto la supervisione del laborioso Giovanni Saladino, che ricopriva mansioni di generico. Se pensiamo che non venivano riconosciuti alle madri lavoratrici gli stessi diritti che si sarebbero affermati qualche decennio dopo, possiamo inferire che fare la madre con professione, per giunta da Capo sala, all’acme della sua carriera, non sia stato del tutto maneggevole. Eppure riusciva ad armonizzare tutto: sul piano dell’esserci, c’era e per tutte le cose. Cosa rara, ecco perché Rosa fu cara! Insieme a tutto il suo staff: una per tutti, nella logica di squadra! Per costoro il panico non faceva parte del bagaglio formativo, assolutamente no! Per lei, ad onor del vero, valeva la considerazione privilegiata di persona paziente: di corsa in corsia è tuttora una dote singolare, ragion per cui è giusto ricordarla insieme ai suoi colleghi da qui a poco dalla Giornata internazionale della sua categoria, che ricorre giustapposta nel giorno apostolico di maggio, il dodici, quasi a farsi, questo dì, data eucaristica di ogni Cristo passionato incontrato per strada. Ai piedi della Croce le mani di una donna fanno la differenza nella sofferenza: «in forma dunque di candida rosa / mi si mostrava la milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa» (Par XXXI, vv. 1-3). Come chiosare il suo ritratto umano? La buona e santa sanità: satis est, accompagnato da un pensiero bruzio di bellezza per una delle tante perle che hanno costellato il nostro Mediterraneo cittadino: nel nome di una madre, ancora una volta!
Francesco Polopoli
Concorso fotografico SCATTI D’AUTORE PER TROPEA IN FIORE
2° Concorso Fotografico SCATTI D’AUTORE PER TROPEA IN FIORE abbinato al Concorso “Finestre Balconi Vicoli Fioriti ANNA MARIA PICCIONI Città di Tropea”
Art 1. Puó partecipare chiunque ami la fotografia e Tropea, adulti e giovani, inclusi gli studenti.
Art 2. La foto che ritrae Tropea, con sviluppo in orizzontale e niente trucchi, di buona qualità tecnica per consentire l’ingrandimento, ha come tema “TROPEA RINASCE“
Art 3. Lo scatto può essere inoltrato da subito, e fino al 30 Giugno 2020, alle Coordinatrici del Concorso “Finestre Balconi Vicoli Fioriti Anna Maria Piccioni Cittá di Tropea” Beatrice Lento e Mariantonietta Pugliese, attraverso le loro mail beatricelento@gmail.com mariantonietta_pugliese@yahoo.it
La foto, valutata migliore dalla Giuria del Concorso “Finestre Balconi Vicoli Fioriti Anna Maria Piccioni Città di Tropea”, sará riprodotta nella gigantografia che pubblicizzerá la manifestazione finale di premiazione dei vincitori della kermesse floreale, le dieci foto più belle accompagneranno le composizioni floreali nel video che sará proiettato durante la cerimonia e saranno, poi, esposte a Palazzo Sant’Anna sede del Comune di Tropea.
Tropea 4 Maggio 2020
Le Coordinatrici
Beatrice Lento e Mariantonietta Pugliese