Se hai un’amica maldestra…
Non è facile appalesare la violenza subita, si prova vergogna, paura o semplicemente ci s’illude di poter ricominciare.
Non è così!
La violenza è come la mala pianta che non cambia con nessuna cura, dev’essere estirpata!
Missione impossibile: a perdere è la donna?
La Repubblica
Annalena Benini
I mesi della quarantena hanno svelato l’equivoco, dice la giornalista, le donne, educate alla generosità, si sono prodigate il doppio a casa e con i figli. Gli uomini, appena ci hanno provato, sono sembrati eroi.
Mio nonno diceva sempre a noi bambine: non sposatevi mai, siate libere! Ma allora perché penso che é mio dovere far brillare i fornelli e invece se mio marito passa l’aspirapolvere provo imbarazzo invece che un senso di trionfo?
In Italia, ogni giorno una donna dedica 306 minuti al lavoro di casa non pagato. Gli uomini solo 131 minuti.
Perché io che lavo anche i pavimenti e lavoro bene quanto un uomo del mio livello professionale, guadagno di meno?
Non ho la sindrome di Cenerentola ma penso che il contributo dato al mondo dalle donne debba essere riconosciuto. Non per narcisismo e nemmeno per vittimismo ma semplicemente perché noi lavoriamo di più.
Donatella Bianchi Presidente di Wwf Italia
” L’organizzazione familiare non dovrá più pesare solo sulle nostre spalle. Dovremo responsabilizzare gli uomini anche nella condivisione di mansioni pratiche.
Oggi le conquiste del movimento femminista sono a rischio. Vorrei che il valore delle donne fosse finalmente riconosciuto: possiamo dare un contributo straordinario all’intera società. ”
Da sempre appassionata di tematiche ambientali, Dontatella Bianchi ha iniziato il suo percorso da giornalista nella redazione di La Spezia, la sua città natale, del “Secolo XIX”. Entrata in Rai, dal 1989 al 1992 ha firmato e condotto per il programma “Sereno Variabile” la rubrica “Viaggi d’Autore” che la vede realizzare reportage esclusivi in tutto il mondo. Quando nel 1993 Rai1 decide di avviare una nuova trasmissione dedicata al mare, “Lineablu” appunto, si decide di affidare a lei la conduzione: il mare, per nascita e vocazione ereditata dalla famiglia di velisti, è da sempre l’elemento naturale di riferimento di Donatella che diventa così il volto simbolo del programma in onda il sabato pomeriggio sulla prima Rete.
Giovanna Iannuantoni
Rettrice dell’Università Bicocca di Milano ha una figlia di 8 anni a cui dice:” Non avere paura dell’Ambizione!
É un atteggiamento che a noi donne fa ancora paura ed io voglio che mia figlia cresca libera e felice come sono cresciuta io. Più volte l’ho portata con me sul mio posto di lavoro perché capisca il senso di quello che faccio.
In quanti ai canoni estetici cerco di trasmetterle l’idea che non dobbiamo uniformarci, che ognuna é quella che é.
Noi donne subiamo una pressione pazzesca.
Certi programmi tv con bamboline dagli occhi sgranati non glieli faccio neppure vedere”
Paola Di Nicola: la giudice del tribunale di Roma
«Gli amici chiedevano a me le ricette dei piatti, non a mio marito, che è magistrato, come me, e lavora tutto il giorno, come me. Mai un dubbio che a cucinare non fossi io – era Gemma, che ci aiuta da sempre. Ma il punto è un altro: anche io ho finto, dispensando ingredienti e tempi di cottura. Ero io stessa vittima e spacciatrice dello stereotipo».
Confessare, dopo, è stato liberatorio?
«Da una parte, sì. Dall’altra, dopo che hai indossato le “lenti di genere” vedi tutto: e diventa molto faticoso. Devi accettare che in ogni momento, sottolineando e denunciando i pregiudizi, sarai additata come persona esagerata, passerai per pedante. Viviamo in un sistema che è fatto per nascondere, rimuovere e ridicolizzare le disparità di genere».
È stata tra le prime, in Italia, a farsi chiamare «la» giudice, cioè a porre l’attenzione sulle parole. Nella scorsa legislatura Laura Boldrini ha insistito su «la» presidente. Di recente, invece, le donne del governo gialloverde hanno detto di preferire la versione maschile. Le motivazioni sono varie: suona meglio, questione di forma e non di sostanza.
«Non critico chi non usa il femminile, perché è qualcuno che si sente in una condizione di soggezione. Però è proprio una questione sostanziale, non di forma: la lingua è un luogo di rappresentazione del potere, ciò che si nomina esiste. Prendiamo “femminicidio”, per esempio, la morte di una donna uccisa perché donna: la parola dà concretezza al fenomeno, prima solo “omicidio”. Quindi: il femminile è percepito come ghettizzante, sminuente, nel nostro linguaggio quotidiano tutto ciò che rimanda alle donne è effettivamente rappresentativo di una minorità, di una fragilità, di una riduzione. L’italiano attribuisce il femminile a tutti i nomi delle professioni, operaia, fioraia, maestra eccetera, ma più si sale nella scala gerarchica e di potere, il femminile inizia a scomparire fino a essere totalmente silenziato. Dove le donne sono entrate solo 50 anni fa, come in magistratura, il femminile non c’è mai stato perché le donne erano escluse: ritenute fragili, quindi inidonee al giudizio. In un assetto simile, è normale che ci siamo focalizzate sul dimostrare il nostro valore, prima».
Quindi non è un dettaglio.
«Dire “suona meglio” è un motivo vero – perché il femminile è sminuente – ma frettoloso. È un processo culturale lungo, difficile, ma bisogna iniziare a cambiare, proprio nei luoghi in cui c’è più bisogno di proteggersi».
Silvia Bombino
Sarah ha scelto di andarsene
“Ai miei fratelli, ho provato a sopravvivere ma ho fallito. Ai miei amici, l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare. Al mondo, sei stato davvero crudele, ma io ti perdono”.
Sarah Hijazi, giovane attivista Lgbt morta suicida in Egitto dopo avere subito torture fisiche e psicologiche in carcere.
Sarah era stata arrestata, nel settembre 2017, per aver sventolato, iniseme a un amico, la bandiera arcobaleno durante un concerto dei Machrou Laila al Cairo.
L’immagine era finita sui media e i leader religiosi avevano chiesto punizioni severe per i due attivisti.
Sarah è stata rinchiusa in un carcere maschile dove ha subito ogni tipo di violenza.
Quindi la liberazione dopo pressioni internazionali, e il trasferimento in asilo in Canada dove ha continuato a lottare per liberare altri Lgbt in Egitto.
“Super comunista, super gay, super femminista”, si descrive su Instagram.
Purtroppo, il dolore e il ricordo degli abusi subiti non passa, e Sarah pone tragicamente fine alla sua vita.
Storia di un’artista che si dovette adattare
Carla Maria Maggi ha dipinto per un periodo molto breve della sua vita, malgrado le sue opere avessero rivelato un talento promettente. Infatti, come molte altre artiste del suo tempo, la pittrice, figlia della buona società milanese degli anni Trenta, dopo il matrimonio ha dovuto mettere da parte il proprio talento pittorico e vestire i panni della moglie e madre perfetta, secondo i canoni del benpensantismo borghese del tempo. Prima di dimenticare il suo essere artista, però, la Maggi ha lasciato diverse opere che raccontano un’epoca, ritraendo con sensibilità il mondo che lei frequentava.
Allieva di Giuseppe Palanti, Carla Maria Maggi smise di dipingere per seguire le regole sociali alle quali il marito la richiamava, e le sue opere furono riscoperte dal figlio, per caso, nascoste nel solaio della casa di campagna della famiglia. Dopo la riscoperta, della sua opera si sono occupati storici e critici d’arte come Rossana Bossaglia, Vittorio Sgarbi e Elena Pontiggia. Le opere della Maggi sono state così esposte a Milano, a Londra e, con straordinario successo, al National Museum of Women in the Arts di Washington (dove La Sigaretta, capolavoro della pittrice, è rimasta esposta, in prestito temporaneo, per qualche anno) e sono diventate motivo di riflessione e studio della condizione delle donne artiste fino a tempi molto recenti, ma anche ragione di riscoperta della poco nota, ma interessante, pittura borghese della Milano degli anni Trenta.
Il corpus dell’opera della Maggi è composto da una quarantina di opere che comprendono ritratti, nature morte e (cosa molto rara per una donna artista del tempo) nudi femminili ritratti dal vero. Carla Maria Maggi ha rappresentato magistralmente nella sua opera la società che frequentava e rappresentava: da una parte il bel mondo dell’alta borghesia milanese, divisa tra la città e i luoghi di villeggiatura, dall’altra la bohème degli ambienti di Brera e della Scala, liberi e pieni di stimoli per chi, come lei, volevano vivere nell’arte. Quella di Carla Maria Maggi, artista interrotta, è una storia che vale la pena di essere raccontata, tanto quanto la sua pittura è degna di essere osservata con attenzione.