Archivio mensile 17th Marzo 2022

Omaggio a Rosa Orfanó

Rosa
Mi chiamo Rosa Orfanò e sono nata a Tropea da una famiglia del popolo. Mio padre vendeva pesci e mia madre lavava panni alla fiumara.
Ero l’unica figlia e l’amore dei miei genitori
non mi é mai mancato.
Non ho fatto grandi studi perché nella mia casa non si concepiva l’idea di una donna letterata, ho sempre amato leggere, però, e ancora di più cucire e ricamare ma… ma al primo posto per me era la preghiera.
Appena avevo un pò di tempo, dopo aver aiutato mamma nei lavori domestici, mi mettevo in un angolino dell’unica stanza, che chiamavamo casa, e pregavo, pregavo tanto al punto da non accorgermi del tempo che passava.
Quando seppi di Loro e da chi? Non saprei dirlo di preciso perché in quegli anni a Tropea tutti ne parlavano. Tutti raccontavano del Sacerdote Francesco Mottola che con una figlia dei conti Scrugli, la più bella, Irma, giravano tra i bassi lerci e bui per dare conforto a tanti poveri, soprattutto ai vecchi ammalati e abbandonati.
Moltissimi ne parlavano e a tanti sembrava strano e sconveniente che una signorina nobile girasse per le vinee con un prete.
Eppure, a poco a poco, quella strana vicenda mi entrò dentro e mi prese il cuore e assieme a me tante altre giovani donne, tropeane ma anche dei paesi vicini, decisero di andare col prete e la signorina.
Diventammo le Carmelitane che non stanno chiuse a pregare nel convento ma scendono sulle strade per andare a cercare Gesù nei posti più sudici e scuri
. Assieme a me c’erano, come prime compagne, Gertrude, Micuccia, Maria, Angelina, Ninetta…. e tante altre, tutte nella grande Casa della Caritá di Via Abate Sergio dove nel frattempo avevamo accolto tante vecchie sofferenti, povere, abbandonate.
Le nostre giornate volavano senza accorgercene tanto eravamo prese dalla cura delle anziane che affollavano la Casa, col cuore sempre pieno di Caritá, era questa la parola che continuamente risuonava tra le pareti di quella dimora meravigliosa, affacciata sull’azzurro del cielo e del mare e sullo straordinario Scoglio dell’ Isola, era questo il messaggio che Padre Mottola e la nostra Sorella e Madre Irma ci offrivano senza sosta.
La mia mamma se ne andò presto nel cielo perché il suo cuore stanco si era consumato e a me rimase papá o, come usavo chiamarlo, “ u tata”.
Non l’ho mai trascurato, mai, neanche quando un’infezione alla mano, mal curata, mi paralizzò tutto il braccio destro. Addio ricamo e cucito, a me tanto cari, ma niente e
nessuno potevano impedirmi di lavare le nostre vecchiette, di pettinarle, di imboccarle, di carezzarle così come vedevo fare alla nostra amata Irma.
Anche le mie compagne si prodigavano fino allo stremo ed ognuna di noi aveva alcuni compiti particolari, Maria, per esempio, girava tutte le campagne in cerca di doni per la Casa e tornava sempre con le ceste piene, portate, a volte, anche da alcune donne che da noi avevano trovato rifugio.
Io amavo andare a trovare tante Signore, divenute amiche, e a loro e ai loro figli parlavo sempre dei nostri Irma e Francesco, riuscivo a incantarli tanto che alcuni, spesso, mi chiedevano di visitare la Casa della Carità e di incontrare il nostro Padre e la nostra Sorella Madre.
Sono felice di aver speso la mia vita in questo servizio e sono grata al Signore che mi ha fatto giovane donna al tempo di Francesco e Irma. Che gioia averli seguiti nel loro cammino di fede e di offerta totale di sè al Signore attraverso il conforto ai poveri.
Con Francesco e Irma ho imparato tantissimo, mi sono rinnovata profondamente. Pensavo di essere una buona cristiana perché pregavo tanto e ho capito che invece non bisogna mai essere soddisfatti di se stessi ma bisogna piuttosto ricercare sempre e senza freni la Santità, perché, come diceva Irma, tutto il resto é paglia.
Ho amato tanto il Signore e Lui mi ha amato facendomi diventare un’Oblata del Sacro Cuore. Gesù mi ha voluto bene donandomi tanta sofferenza, un male incurabile ha messo fine alla mia fragile esistenza terrena e sul mio lettino d’ospedale ho avuto il conforto degli amici più cari e della mia Irma.
La nostra Sorella Madre soleva dirci spesso:“ Se vedete un’ammalata a cui potete dare qualche sollievo, non deve importarvi niente di perdere una devozione per patire con lei; e se fosse necessario digiunare perché possa mangiare, dovete farlo…” e Lei, due mesi prima della mia morte, lo fece con me, lasciò tutto e, seduta sul mio lettuccio d’ospedale, dimentica del pranzo di Natale, mi imboccò e si cibò anche lei del mio pasto.
Sono partita per l’ultimo viaggio nel giorno di San Giuseppe e sono felice di aver visto attorno al mio corpo senza vita tutte, proprio tutte, le persone che ho amato, e ancora di più gioisco oggi vedendo che i piccoli semi che ho deposto nel cuore di tanti giovani, figli delle mie Signore amiche, si sono schiusi e donano ancora frutti che hanno il profumo inebriante del valore che ha dato senso alla mia vita: la Carità.

Quaderno dell’8 Marzo 2019 #2
Beatrice Lento

Tropea Cittá dell’emancipazione femminile di Dario Godano

La città di Tropea vanta una millenaria vocazione per l’emancipazione femminile, declinata nelle dimensioni sociali, religiose, politiche e culturali.

Già la prima menzione del suo nome è legata ad un’epigrafe paleocristiana risalente alla metà del V secolo. In questa iscrizione funeraria viene menzionata una tale Hirene, che visse sessantacinque anni e che fu Conductrix Massae Trapeianae, ossia colei che amministrò nel ruolo di dirigente (conductrix) un insieme di fondi rustici di proprietà della Chiesa di Roma (masse) disseminati nell’antico territorio di Tropea (Trapeia). Sempre nello stesso sito archeologico è stata rinvenuta un’altra epigrafe paleocristiana dedicata a Leta Presbitera, una donna sposata che svolse funzioni sacerdotali in un’epoca in cui il cristianesimo era ormai divenuto unica religione di stato. 

Le radici cristiane di Tropea si articolano nella devozione popolare verso le sue patrone: Santa Domenica e la Madonna di Romania. Questa duplice dedizione riflette il legame ancestrale del culto mediterraneo verso la figura sacrale femminile foriera di forze benefiche e salvifiche. Santa Domenica, giovane martire nata a Tropea nel 260 o nel 287, decapitata durante le persecuzioni di Diocleziano nel 303, è venerata come santa dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa col nome di Ciriaca. La prima patrona di Tropea rappresenta col suo martirio la vergine coraggiosa che sfida e trionfa sulla forza bruta dell’oppressore. La Madonna di Romania, la Madre di Dio giunta dal mare e accolta dalla comunità dei fedeli, è la proiezione della figura religiosa presente in tutte le antiche culture, non solo mediterranea, della “Grande Madre” dispensatrice di prosperità e protezione verso la quale il popolo si affida nelle avversità (guerre, pestilenze, carestie e calamità naturali). 

Il simbolo religioso e turistico di Tropea nel mondo, il Santuario di Santa Maria dell’Isola, è storicamente unito ad un’importante figura femminile che seppe delineare i destini non solo della città tirrenica ma dell’intero Meridione: Sichelgaita(Salerno, 1036 – Cetraro, 16 aprile 1090). Figlia di Guaimario IV, principe di Salerno, sposò il Duca di Calabria, Roberto il Guiscardo nel 1059. Nello stesso anno Sichelgaita organizzò il Concordato di Melfi dove fu sancita l’alleanza tra la Chiesa di Roma ed i Normanni, intessuta tramite l’abate di Montecassino, Desiderio, futuro papa Vittore III, e dal vescovo di Acerenza Godano. Papa Niccolò II tolse la scomunica allo stesso Guiscardo, lo ricevette come suo fidelis e lo benedisse insieme alla consorte Sichelgaita per la futura conquista della Sicilia.

Donna energica, colta e carismatica, impose la sua autorità a corte ed esercitò una forte influenza sul marito, non solo in ambito diplomatico ma anche sul campo di battaglia, affiancandolo in tutte le campagne militari. La cronista bizantina Anna Comnena, descrisse Sichelgaita “come un’altra Pallade, se non una seconda Atena”. Nel 1062 fu accolta a Tropea dal vescovo greco Calochiro, poiché, a quanto riferisce Goffredo Malaterra, si era rifugiata in seguito alla notizia (falsa) dell’uccisione del marito a Mileto. Il vescovo di Tropea seppe così accattivarsi la riconoscenza di Sichelgaita e del Guiscardo, che con diploma del 1066, confermò ed accrebbe i domini che il Vescovado di Tropea possedeva ed elargì ampie autonomie amministrative e fiscali, delineando quello status di città libera e demaniale che nei secoli futuri favorirà il progresso economico e culturale della città tirrenica. L’antico eremo bizantino di Santa Maria dell’Isola con tutte le sue pertinenze fu donato all’abazia benedettina di Montecassino, in un preciso disegno di riconversione dal culto greco-ortodosso a quello latino-cattolico.

A due nobildonne tropeane si deve il merito della fondazione di due rispettivi complessi monumentali. Il Convento delle Clarisse, fondato nel 1261 su donazione di Marianna Mumoli per espiare ad una faida cruenta che vide l’estinzione delle famiglie Mumoli e Ruggeri. La stessa Marianna Mumoli andò a vivere il resto dei suoi giorni come monaca di clausura nel primo Convento dell’Ordine di Santa Chiara in Calabria È bene notare che la regola dell’Ordine di Santa Chiara venne approvata da Innocenzo IV il 9 agosto 1253 e che appena otto anni dopo, la prima città della Calabria dove si affermò il nuovo ordine monastico fu Tropea.

Il Monastero della Pietà, fondato nel 1639, fu voluto dalla nobildonna Porzia Carbonara, anch’essa desiderosa di espiare le colpe del figlio Geronimo Adisi, ucciso in circostanze rocambolesche dal governatore del castello di Tropea. Nel nuovo monastero di clarisse, sotto il titolo della Madonna della Pietà e dei Sette Dolori, la fondatrice ottenne che vi entrassero ogni anno dodici giovani provenienti dalle famiglie nobili.

Fra queste giovani novizie ci fu SuorDiana Caputo, protagonista di un “caso” che richiama celebri episodi manzoniani. Nel marzo del 1661, ci fu un vero e proprio processo per accertare la validità della vocazione di Diana Caputo presso il Palazzo Episcopale al cospetto del vescovo Carlo Maranta. Grazie alle deposizioni favorevoli della badessa e di altre suore, fu accertata la buona condotta della Caputo e la sua sincera intenzione di spogliarsi del velo monacale. La Caputo lasciò il Monastero per seguire una vita diversa che l’avrebbe resa moglie devota e madre amorevole. 

Verso la seconda metà del XVI secolo, i fratelli medici e chirurghi Pietro e Paolo Boiano, detti Vianeo, pionieri della rinoplastica, operarono a Tropea riscuotendo fama e prestigio nel panorama scientifico nazionale ed europeo. La tecnica di ricucire i nasi mutilati, la Magia Tropiensiumdescritta da Tommaso Campanella, fu portata avanti anche dopo la morte dei fratelli chirurghi. Laura Guarna, moglie di Pietro, fu anch’essa operante a Tropea verso la fine del XVI secolo, una donna medico che seppe continuare la conoscenza chirurgica della sua famiglia, contribuendo a consolidare Tropea fra gli epicentri del progresso della medicina moderna.

In un episodio emblematico per la storia della città, risplende il ruolo determinante delle donne tropeane, allorquando nel 1612, per scongiurare la vendita illegittima di Tropea, dalle matrone più facoltose alle popolane più umili scaturì una raccolta di ori, gioielli e monili per riscattate la libertà minacciata. Le tropeane stesse, quando giunse la notizia dell’annullamento della vendita di Tropea, il 23 agosto 1615, furono protagoniste dei festeggiamenti durati tre giorni e tre notti: dai palazzi patrizi le matrone fecero esporre drappi, damaschi, coperte colorate e arazzi, mentre le popolane al suono di cembali e sonagli improvvisarono balli e canti di giubilo per tutte le vie.

Due donne tropeane del Novecento spiccano per qualità eccelse con gli appellativi di Sindachessa e Signorina. Esse con il loro operato hanno scritto pagine straordinarie di storia tropeana, proiettando la città dalle macerie morali e materiali del ventennio fascista al progresso condiviso della Repubblica democratica.

Lydia Toraldo Serra (Cosenza 1 agosto 1906 – Tropea 13 luglio 1980) a 23 anni fu la prima calabrese laureata in Legge (tesi sul diritto di voto alle donne). Nel 1933 sposò Pasquale Toraldo e si trasferì a Tropea. Dopo la sua prima elezione nell’aprile del 1946 (una delle prime dodici sindache elette in Italia) manterrà la carica per 15 anni. Ciò fu possibile grazie al legame creatosi con la cittadinanza più umile, che nutriva nei suoi confronti gratitudine e devozione, definendola “la sindachessa” e  “la mamma nostra”. La vittoria della Toraldo Serra divenne l’emblema del passaggio da un’epoca in cui la donna era relegata a ruolo secondario e subalterno a quella che, di lì a poco, avrebbe visto tante altre donne diventare protagoniste nella storia della Repubblica. Grazie alla rete di conoscenze familiari ottenne la prima Scuola media (1948) e il Liceo classico (1952). Avviò l’edilizia pubblica e intuì l’opportunità rappresentata dal turismo con costruzione di un primo stabilimento balneare. Tra il 1952 e il 1956 fece dragare il porto, nel 1955 istituì l’ufficio postale, potenziò l’ospedale civile, dotandolo di una nuova sala operatoria, creò la sede locale dell’Organizzazione per la protezione della maternità e l’infanzia (Omni) con lo scopo di aiutare le madri bisognose. Chiusa la parentesi politica, la “sindachessa” si ritirò a vita privata. Nel 1972 fu nominata Cavaliere della Repubblica. 

Altra personalità femminile che si contraddistinse nella seconda metà del Novecento sotto l’aspetto sociale e caritatevole fu Irma Scrugli (Tropea 4 settembre 1907 – Tropea 22 settembre 1994). Proveniente dal ceto nobiliare, sin dall’infanzia maturò sentimenti morali e altruisti che la porteranno ad abbandonare gli agi familiari per abbracciare la povertà. Fu cofondatrice con don Francesco Mottola della “Famiglia degli Oblati e delle Oblate del Sacro Cuore”, istituto secolare, eretto poi a livello diocesano, dal vescovo Vincenzo De Chiara il 25 dicembre 1968. L’istituto oblato ancora oggi si occupa di assistenza agli anziani, ai disagiati, oltre che dell’animazione nelle parrocchie. Irma fu presidente parrocchiale e diocesana della Gioventù Femminile di Azione Cattolica, il suo impegno si caratterizzò per l’attenzione ai poveri e per la profonda spiritualità. Il suo ideale fu quello di vivere una vita morigerata, casta ed umile aiutando con ogni mezzo la gente più bisognosa e portando avanti il messaggio spirituale del Beato Francesco Mottola.

Pur nella diversità di storie, Lydia e Irma evidenziano dei tratti comuni di grande pregio sociale: l’emancipazione dai pregiudizi e dagli stereotipi che all’epoca soffocavano l’essere donna, la forza e la determinazione di un temperamento battagliero, lo spirito di servizio, l’amore per la comunità e la sensibilità sociale.

Endometriosi? … parliamone!

“Hai una soglia del dolore troppo bassa”. “È tutto nella tua testa”. “Sono dolori del ciclo, prendi la pillola e passano”. “Sarà una colica o una cistite”. “Le mestruazioni ce l’hanno tutte, non è possibile che tu soffra più delle altre”. “Sei una donna, considera questa sofferenza come una cosa normale, fa parte della femminilità”. No. Di normale non c’è proprio niente.
In Italia il 10-15% delle donne in età riproduttiva sono affette da endometriosi(tra il 30-50% delle donne infertili o che hanno difficoltà a concepire). Almeno 3 milioni nel nostro Paese, hanno una patologia conclamata e sono più di 175 milioni nel mondo. Numeri. Ma dietro ci sono persone, persone in carne e ossa. E storie dolorose.
Una malattia cronica invalidante, di cui non si conosce la cura e nemmeno le cause, caratterizzata dalla presenza anomala di endometrio, una mucosa che normalmente riveste esclusivamente la cavità uterina, all’esterno dell’utero. Una patologia progressiva che non interessa solo l’apparato riproduttivo ma si sviluppa su varie strutture e organi, e può colpire le ragazze già alla prima mestruazione e accompagnarle fino alla menopausa. Un periodo lunghissimo e dispendioso, fatto di sofferenza fisica ma il più delle volte vissuto anche con gravi ripercussioni psicologiche. L’endometriosi è una malattia subdola, difficile da diagnosticare. Chi ne è affetta, per anni, deve fare i conti con i giudizi di chi non comprende il suo dolore: amici, familiari, compagni e persino medici. E no, non è normale.