Benedetta Barzini: Premio Victoria

Benedetta Barzini: Premio Victoria

«Non sopporto la superficialità», dice Benedetta Barzini. Niente è più lontano dalla modella, giornalista e insegnante che, a 75 anni (li compie il 22 settembre), è un turbine di idee, domande, opinioni che sfidano i canoni a cui la società ci ha abituato.

Anche per questo ha appena vinto il Premio Victoria, alla sua seconda edizione e lanciato da «Victoria 50», il programma creato da Procter&Gamble per le donne over 50 e consegnato nell’ambito dell’iniziativa Il Tempo delle Donne: «Lo vivo come un premio da condividere con tutte», spiega Barzini, la prima modella italiana su Vogue, dove ha lavorato dal 1963 al ’69, quando viveva a New York.

Aveva 20 anni quando fu notata mentre passeggiava per le vie di Roma e convocata dalla direttrice di Vogue Diana Vreeland per un servizio fotografico con Irving Penn. Avrebbe dovuto restare 10 giorni, vi rimase 5 anni.

Dagli anni Settanta è iniziato il suo impegno nel movimento femminista, si occupa di moda e di temi sociali su varie riviste e ha insegnato presso diversi atenei universitari.

Continua a posare per i grandi stilisti come modella «evergreen», ma sottolinea: «Invecchiare significa accettare di avere l’età che si ha, non far finta di averne 20 di meno».

«Sono orgogliosa della mia vita», spiega Barzini. «Mi piace il fatto che non assomiglio a quello che forse sarei dovuta diventare secondo alcuni e che non ho fatto soldi facendo la modella, pur lavorando con i grandi fotografi. Mi sono salvata dal guadagnare per le mie sembianze, che non è un merito. E sono autodidatta: mi sono messa a studiare Sociologia, Antropologia, Storia e ho insegnato per tanti anni».

Non insegna più?

«Purtroppo no. La mia materia non esiste nel programma ministeriale. Si chiamava “Storia dell’abito”, che non è la Storia della moda, quella te la vedi sulla Marangoni. Volevo che i miei studenti imparassero a riflettere con le loro teste. Per dire, perché esiste un corsetto? Per non respirare. E i tacchi a spillo? Per non camminare».

Ha sempre vissuto così libera dagli stereotipi?
«No, sono ancora costretta a conviverci. Non ti tiri fuori dal mondo in cui sei, ma è un mondo che ti deve far riflettere. Il segreto è non avere un atteggiamento di critica, ma di curiosità e osservazione. Quando ho fatto la fotomodella, mi è servito a capire che io ero la preda e il fotografo il cacciatore».

Mi racconta l’esperienza a Vogue?
«Ho fatto quello che mi è stato richiesto e da lì ho imparato tantissimo. È stato molto affascinante per capire: vedere la Vreeland in azione mi ha insegnato la demenzialità dell’ossessione per una bellezza formale e legata a dei canoni. Oggi non è cambiato niente».

Lei però non si è montata la testa.

«Sapevo che la bellezza non ero io, ma il lavoro della truccatrice, della redattrice, del fotografo. L’insieme di queste professioni fa di te una torta da matrimonio stupenda. Io mi pettino come mi fa comodo e mi metto da cent’anni le stesse cose. Quando ci guardiamo allo specchio, dobbiamo chiederci perché vogliamo i capelli in un modo piuttosto che nell’altro. La verità è che non sappiamo guardarci per vedere “noi”, ci guardiamo per essere più carine: siamo al servizio dell’uomo che ci guarda».

Quando ha cominciato a farsi queste domande?

«Dopo i 50. Non mi interessa la donna di 60 o 70 anni che si mantiene bene, mi interessano i problemi di fondo. La consapevolezza è fondamentale e non significa mettersi a fare battaglie rivoluzionarie. Finché le donne non si sveglieranno non cambierà nulla».

Del #Metoo che idea si è fatta?
«Non ho partecipato, anche perché ho sempre evitato di essere aggredita da qualche maschio importante. Non basta dichiarare che un maschio significativo ti ha messo le mani addosso, io voglio che un movimento di donne importanti riesca a dire qualcosa di più».

Come cosa?

«Che le donne non contano. Che in tutti i giornali di moda vedo geishe, donne con le labbra semiaperte che si fanno belle per essere “come tu mi vuoi”. E con “tu” intendo la  società e il maschio. Questo problema non viene affrontato».

Da dove possiamo partire?
«Da cose molto semplici. Per esempio, le donne non hanno un cognome, perché il cognome della madre è quello del nonno. Non c’è un lignaggio genealogico femminile. Le donne non capiscono che la nostra assenza significa la nostra insignificanza. È una metà dell’umanità che non deve avere voce, ma non se ne parla mai».

Che cosa ci frena?
«La paura e l’inesistenza di un pensiero femminile che sia complementare a quello maschile. Il nostro cervello è stato atrofizzato in milioni di anni senza studio. A scuola studiamo quello che hanno fatto i maschi. Non abbiamo delle fondamenta a cui aggrapparci».

Lei com’era da bambina?
«Ero muta e osservavo il mondo, mi affascinava la storia della Cina, disegnavo le statue di Michelangelo. Non c’era nessuno con cui parlare, ho avuto un’infanzia strampalata. È stato tutto molto difficile e ci ho messo parecchio a capire qualcosa».

Che cosa l’ha aiutata?

«L’emancipazione è arrivata col tempo. Ho imparato a riflettere invece che soffrire. La vita difficile mi è sempre servita, quella facile è inutile. La felicità non esiste, ma esistono momenti felici».

Il suo qual è?

«Non è visibile, è quello in cui ho avuto i miei bambini e li ho tirati su con grande difficoltà e grande amore. Ma le cose belle non sono pubbliche».

Di Margherita Corsi

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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