La Pacchiana di Sambiase: Matrona di Calabria

La Pacchiana di Sambiase: Matrona di Calabria

Vi capita mai di incontrare in sogno momenti importanti della vostra vita ed esserne profondamente turbati al risveglio? A me succede e l’ultima emozione trasmigrata nella realtá ha per protagonista la Pacchiana di Sambiase. 

Mio padre aveva i suoi natali in questa città oggi confluita nel miscuglio di tradizioni che prende il nome di Lamezia Terme ma la Sambiase che porto nel cuore rifugge ogni ibridazione e si mantiene viva nel mio ricordo nella sua esclusività popolando spesso la mia esistenza fantastica. In questa dimensione onirica, che tanta parte della vita assorbe, ho rivisto la Pacchiana alimentata dai ricordi narrazioni del mio papà che portava nel suo cuore la Casa d’origine con struggente nostalgia.

 La nonna Gasperina Tropea, per il suo status, non indossava l’abito che era presente, però, in famiglia attraverso la suocera di un suo figliolo ed io, sognando, l’ammiravo soffermandomi in particolare sulla bizzarria della “coda”, così mi appariva quell’intreccio di tessuto finemente pieghettato che mi ricordava la ruota del tacchino.

 Spesso le vicissitudini notturne si dileguano al risveglio ma quella no, persisteva perché legata a un pezzetto importantissimo del mio cuore. 

Che fare per offrire tregua alle emozioni che mi agitavano la mente e il cuore? Dare loro consistenza reale attraverso un racconto che avrebbe fatto della fascinosa Pacchiana una cittadina del mio blog soskorai.it 

Scrivo a mia cugina Gasperina e su suo suggerimento chiedo notizie agli amici del Gruppo Facebook “Sei di Sambiase se …l’ami…” da lei curato, ne ricevo tante e soprattutto avverto un intenso pathos, quello che nasce dai sentimenti viscerali che s’insidiano nel cuore da quando si é custoditi nel grembo materno. La mia Pacchiana diventa la nostra ed io narrerò di lei con un scrittura a più mani, ho deciso! 

Eccola, eccola la nostra bella, la osservo camminare nell’Orto di Carrera, l’apprezzo nei suoi lavori di campagna e in quelli, non meno duri, di famiglia e mi incanto estasiata dal suo complicato abbigliamento

“Ppi si véstari ‘a pacchjàna,

prima cosa si ‘nsuttàna;

carma, carma, senza affànnu

pùa si ‘mbùalica ‘ntr’ o pannu;

illu è nìuru o culuràtu,

assicùndu di lu statu:

è russu priputènti

s’ u marìtu l’ha vivènti,

è culùri ‘i vinu ammaccàtu

s’ u marìtu ‘unn ha truvàtu

ed è nìuru villùtu

s’ u marìtu cci ha murùtu.

Pùa si minti lla gunnèlla,

nìura, vìardi, brù ‘i franèlla,

si cci fha ‘n arrucciulàta,

‘a gunnèlla è già ‘mpadàta.

‘N àutru tùaccu pùa di fhinu

si lu dà ccu llu mbustìnu,

ma cchjù bella vo’ parìri

e ssi minti llu spallìari.

‘U mantisìnu ricamàtu

mìanzu pannu cci ha ‘mbarràtu;

prima ‘i jìri a llu purtùni

pìgghja llu fhazzulittùni;

quando nesci ppi lla strata

è cchjù bella di ‘na fhata!

‘A salùtanu d’ ‘i casi

‘a pacchiana ‘i Sambiàsi”

Grazie ai versi di Francesco Davoli scopro il suo costume nella complessità dei suoi componenti: la sottana di lino candido con maniche semplici o ricamate, il panno sottogonna di colore adeguato alla posizione civile, la gonna lunga a ruota di colore verde o blu o anche nera, quindici metri circa di stoffa riccamente plissettata a nido d’ape, raccolta alla vita e legata posteriormente a formare un’ incredibile coda leggiadramente discendente fino alle caviglie, il bustino allacciato sul petto , “u spalliari” specie di gilet nero con mezzi manicotti stretti sulle maniche della sottana a creare graziosi sbuffi, il grembiule con due tasche e il fazzolettone, grande scialle nero da avvolgere alla bisogna intorno alle spalle. Nei giorni di festa l’abito, già maestoso, si arricchiva dei gioielli: Berlocchi, Iannacche e Boccole.

Chi era realmente questa creatura, nata nel Seicento, che aveva ammaliato i viaggiatori del Grand Tour? 

Un laborioso e infaticabile Essere, Fiore Profumato della Civiltà Contadina, Incarnazione dei valori di quel mondo: l’attaccamento alla famiglia e alla terra, la capacità di sacrificio e di rinuncia, la giocosità delle tradizioni e delle feste, l’intraprendenza e il coraggio, la fierezza e la determinazione.

Il costume era segno di maturità e indossarlo per la prima volta un rito d’iniziazione che segnava il passaggio dall’infanzia all’età matura. Si aspettava il menarca per calarsi in quella veste carica di storia, spesso tessuta e cucita dalla ragazza che l’avrebbe indossata e poi portata in dote e un giorno speciale, quale il Natale, la Pasqua o la Festa Patronale, per consumare la cerimonia che trasformava in donna la giovinetta, una donna che sul proprio corpo avrebbe sostenuto, assieme alla straordinaria foggia, una parte consistente del carico familiare.

 Ecco perchè il complesso e impegnativo abito era soggetto a mutamenti che lo rendevano atto ad affrontare le vicissitudini variegate dell’esistenza come mirabilmente descritto da Francesco La Scala :”Del costume della pacchiana vorrei far riaffiorare alcuni aspetti poco osservati perché considerati di scarsa rilevanza e ordinari. Il costume da parata, a tutti noto, nei giorni di ordinario lavoro, veniva sostituito da sue parti essenziali ed estremamente pratiche che erano l’abito della quotidianità . Le nostre nonne quando non era festa non mettevano i Jeans ma indossavano il costume tradizionale in assetto ‘casual’ adatto per lavorare. 

Sulla testa indossavano ‘u rindiallu’ , una larga striscia di stoffa rettangolare nera, che si adagiava sulla testa e si avvolgeva con un rapido gesto sotto alla fronte rivoltandolo all’indietro. Su questo copricapo si disponeva poi ‘a curuna’ ( uno straccio ritorto a ciambella) sulla quale si poggiavano i carichi di ceste, barili, o altro, trasportati dalle nostre donne con tanta eleganza da fare invidia a qualsiasi moderna indossatrice. ‘U mbustinu'( bustino rigido) non si indossava per praticità durante il lavoro, così come maniche di sottane a sbuffo, spallieri eleganti etc. 

Era invece importantissimo ‘u mantisinu’, parannanza dalla vita in giù con tasche, che serviva

 per mille usi , non ultimo quello di nascondiglio per i nipotini timidi o impauriti. ‘A gunnella’, che avvolta caratteristicamente dietro alla schiena costituiva un impaccio notevole a qualsiasi lavoro, non veniva indossata in casa o in campagna, ma non si usciva di casa e non si tornava da campagna senza una ‘gunnella n’fhadata’ , magari vecchia, stinta, ma sempre al suo posto. ‘A gunnella sciadata’ (senza avvolgimento ) veniva portata esclusivamente nei lutti e nella processione del Venerdì Santo. ‘U fharsalittuni’ era un ampio scialle di lana con frange, che, d’inverno, copriva testa e spalle e che riassumeva tutti gli odori dei fragranti fumi dei nostri ‘tavulati’. ‘U pannu’ di colore rosso, nero o viola, veniva sempre indossato, anche in casa o in campagna.

Anche ‘ u spalliari’ era indossato sempre quando si usciva insieme ‘allu mbustinu’ e alla ‘gunnella’.

Sono questi ‘dressing’ diversi, usati nelle varie occasioni di vita corrente, dalle nostre donne di un tempo, che fanno pensare ad un codice di formule di abbigliamento minuzioso come quello usato a Buckingham Palace e, nello stesso tempo, richiamano i momenti più intimi della loro esistenza.”

Tale codice era estremamente funzionale ed efficace tanto che rispetto ad altri abiti del tempo quello di Pacchiana lasciava la libertá di movimento necessaria a quelle creature laboriose e infaticabili che, nonostante i pregiudizi e gli stereotipi di ruolo maschilisti, propri del tempo, si muovevano sempre a capo nudo ricoprendolo solo in caso di lutto stretto, in chiesa per riguardo al sacro o d’inverno per ripararsi dal freddo ma mai in segno di subalternitá o di sottomissione.

Una scelta trasgressiva, abitualmente considerata segno di sfrontatezza o addirittura di delitto peccaminoso ma le Pacchiane erano forti, coraggiose, indipendenti, libere. La bella Gunnella di Sambiase non temeva giudizi e pettegolezzi diffamanti, si era guadagnata il rispetto col lavoro, una fatica dura, assidua, importante e dignitosa. Aveva scelto di lavorare la terra, lavare i panni alla sorgente, impastare il pane, allevare i figli, confortare e assistere nelle malattie, gioire e ridere nelle festività, sostenere e guidare la famiglia senza sciocchi e inutili impedimenti esteriori e con la grazia, la maestosità e l’eleganza del portamento era una sfolgorante Matrona di Calabria.

Le Pacchiane di Sambiase hanno resistito con la forza della loro tempra, forgiata dall’impegno e dal sacrificio, agli assalti della modernità dissacrante fino a poco tempo fa, l’ultima Gunnella, “Catarnuzza” ha lasciato Sambiase lo scorso luglio, con Lei, estrema sacerdotessa di un mondo intenso di principi, scompare una magica presenza che per secoli ha sparso i suoi generosi doni su una terra complicata, affascinante e legatissima alle tradizioni ma il seme della Pacchiana rimane integro e continua a fruttificare nella fierezza, determinazione, intraprendenza e dignità delle Donne di Sambiase.
Di Beatrice Lento

P.S. Ringrazio mia cugina Gasperina Lento e tutti gli Amici del Gruppo Facebook “Sei di Sambiase se…l’ami” che, attraverso i loro significativi contributi, hanno scritto assieme a me questo racconto dell’anima, in particolare Francesco Davoli e Francesco La Scala e chiedo a tutti scusa per le inevitabili imprecisioni di un narrare del cuore che non ha pretese di scientificità.

La foto della bella Pacchiana ritrae Ivana Mercuri, figlia di mia cugina Ada Lento, anche a lei la mia gratitudine.

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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