Lea Garofalo
Lea Garofalo nasce a Pagliarelle, una frazione di Petilia Policastro, in Calabria, nell’aprile del 1974. Sua mamma è Santina Miletta, mentre suo padre è Antonio Garofalo, boss della ’ndrina di Petilia Policastro, che viene ucciso durante quella che è stata poi definita la “faida di Pagliarelle”. Lea ha solo otto mesi quando resta orfana e durante l’infanzia sentirà moltissimo la mancanza del padre, al punto tale che, ancora piccola, chiederà di potersi tatuare l’iniziale del suo nome. Cresce con la madre, la sorella maggiore Marisa, il fratello Floriano, che prenderà il posto del padre come capo cosca e che quando Lea avrà solo 9 anni le chiederà di maneggiare una pistola; con una nonna il cui principale insegnamento è che “il sangue si lava con il sangue”. Viene cioè educata secondo i codici ndranghetistici.
A 14 anni conosce Carlo Cosco, allora diciassettenne. Pensa che sia una persona normale, un ragazzo che ha in progetto di spostarsi a Milano, al nord, dove lei spera di poter avere una vita migliore. Così decide di seguirlo e di fare una fuitina degli innamorati, come già sua madre e sua nonna avevano fatto prima di lei. Ma Carlo Cosco non è una persona qualunque, non è un “ragazzo normale”: fa parte anche lui della ‘ndrangheta, per la quale gestisce lo spaccio di stupefacenti a Milano, nella zona di Baiamonti-Montello. Ed è proprio in viale Montello 6 che vanno a vivere Carlo e Lea, insieme a tutta la famiglia di lui, in un palazzo interamente occupato dalla ‘ndrina milanese.
Aveva fatto la “fuitina” a 13 anni con il ragazzo di cui s’era innamorata proprio per dimenticare la Calabria e abbracciare un mondo nuovo a Milano, fatto di regole diverse e senza strade imbrattate di sangue. Invece qui si era ritrovata in un ambiente identico, con i picciotti della ‘ndrangheta che si ammazzavano tra loro, nello stabile di via Montello 6 di proprietà della Fondazione Policlinico occupato abusivamente da famiglie calabresi che campavano con la droga.
Il fatto è che Lea non è come gli altri, lei è una testa calda, una persona onesta, che crede nella giustizia e che detesta quel tipo di mentalità. Sopporta di vivere in quelle condizioni fintanto che è da sola con Carlo, ma poi succede qualcosa; a 17 anni rimane incinta di Denise e la sua decisione diventa irrevocabile: sua figlia non dovrà vivere neanche per un secondo in mezzo a quello schifo.Succede così con la maternità: spesso e volentieri è la miccia che fa esplodere il desiderio di libertà delle donne cresciute negli ambienti mafiosi, ed è esattamente per questo che la mafia le teme, perché in ogni donna si nasconde una potenziale madre.
“La mia mamma era una giovane donna difficile e complicata, con una grande voglia di vivere. Molto coraggiosa e molto testarda”, racconterà più avanti Denise. A Lea non va che sua figlia nasca e cresca in quel contesto, con quei valori e con la garanzia di un futuro fatto di menzogne e di violenze, di sangue che si lava col sangue. Così, quando la mattina del 7 maggio 1996, la polizia circonda lo stabile di Viale Montello e arresta Carlo Cosco, Lea ne approfitta. Decide di lasciare il compagno e soprattutto di non fargli più vedere Denise, di portarsela via. Quando glielo annuncia, durante un colloquio in carcere, lui le mette le mani addosso e devono intervenire le guardie per fermarlo.
Ma Lea non molla. Non è disposta a cambiare idea. Si trasferisce a Bergamo, dove trova un nuovo lavoro e anche un nuovo compagno. Denise va scuola e insieme provano a rifarsi una vita. Un colpo di testa, quello di Lea, mal visto anche dalla sua stessa famiglia, e in particolare dal fratello Floriano, che con Cosco ci lavora. Una donna non può lasciare il suo uomo e portarsi anche via la figlia; una donna, soprattutto in un contesto come quello, deve stare al suo posto. E allora iniziano le pressioni, i litigi e le minacce. Un giorno, a Bergamo, l’auto di Lea viene bruciata. Quando lei e Denise tornano in Calabria, per le vacanze estive, Lea viene aggredita in piazza sotto gli occhi della figlia: è il fratello di Carlo Cosco a picchiarla. Quella sera stessa, sempre a Petilia Policastro, viene bruciata un’altra sua auto.
Siamo a luglio 2002; Lea è spaventata, è preoccupata, ma è anche arrabbiata e ferita. È quella donna testarda e coraggiosa, descritta così bene dalle parole di sua figlia. Non può stare zitta a sopportare e così, quella stessa sera, decide di andare alla caserma dei carabinieri di Petilia, e di parlare. Racconta tutto quello che sa, dei Cosco, ma anche della sua tessa famiglia. Denuncia tutti. Parla e chiede protezione. È così che diventa una testimone di giustizia e che lei e Denise entrano ufficialmente in un programma di protezione testimoni. Sono anni difficili per entrambe: per Denise, che in un’età di crescita deve cambiare nome e identità, fingere di essere un’altra persona; e per Lea, che, in mancanza di documenti ufficiali, non può neanche lavorare. Trascorre la maggior parte delle sue giornate barricata in casa, vive con pochissimi soldi. Quando riesce va a fare volontariato per sentirsi viva. Ma è come se il programma di protezione non funzionasse mai fino in fondo: madre e figlia sono costrette a cambiare città quasi ogni mese e spesso Cosco riesce a scoprire dove si trovano.
Lea non si sente protetta. Ha paura che le possano fare del male, a lei e a Denise. Di notte non dorme, tiene sempre un coltello sotto al cuscino e si addormenta davvero solo quando la figlia è a scuola. Chiede aiuto più volte, scrive anche una lettera a Napolitano, allora Presidente della Repubblica, ma nessuno le risponde. Si sente sola e così, dopo sette anni di vagabondaggio, decide di agire di nuovo per conto suo, e di uscire dal programma di protezione. Chiama sua sorella in Calabria, la manda a chiedere a Carlo Cosco il permesso di rientrare a Petilia Policastro con la figlia e si fa garantire che nessuno avrebbe fatto loro del male.
Si ribellava alle cose che non andavano bene. Anche all’interno del sistema di protezione. Per esempio, diceva, “perché mi devono trattare così?” Se non ha seguito alla lettera le restrizioni imposte, è perché se ne fregavano. Per esempio, se doveva andare a fare una visita, lo chiedeva una, due volte, poi andava lo stesso dove doveva andare, diceva: “mica non posso vivere più”; ecco perché ogni tanto ha disubbidito
Siamo ad aprile 2009; Lea e Denise, come previsto dal programma da cui hanno appena deciso di uscire, si trovano a Campobasso. Carlo Cosco accetta la richiesta di Lea di tornare in Calabria, ma lei vuole che Denise concluda l’anno scolastico a Campobasso; in fondo mancano solo un paio di mesi. E Carlo le aiuta con le spese di affitto della casa. Non solo, ma manda anche lì sua madre e un cugino a vivere, per controllarle. A inizio maggio Lea viene aggredita in quella stessa casa. Denise sta dormendo, lei aspetta qualcuno che la aiuti a riparare la lavatrice. Quando il tecnico arriva però si insospettisce perché si accorge che quell’uomo non sa nulla di idraulica. Così va in cucina, afferra un coltello e chiede all’idraulico di aprire la cassetta degli attrezzi, perché vuole vedere cosa c’è dentro: dentro non ci sono attrezzi del mestiere, ma solo nastro adesivo e corda che servono per rapire Lea, ucciderla e scioglierla in un bidone con 50 litri di acido. L’uomo la aggredisce, ma Denise si sveglia e si intromette nella colluttazione per salvare la madre. Lo picchia, lo prende a calci e pugni ma lui alla ragazza non fa nulla perché ha ricevuto istruzioni precise: uccidere Lea e non sfiorare Denise.
Lea sa benissimo che il mandante di quell’aggressione è Carlo; prova a chiedere aiuto di nuovo alle istituzioni, ma è completamente sfiduciata. Nei mesi a seguire però Carlo sembra cambiare atteggiamento. Si comporta in modo docile, remissivo, come se si fosse messo il cuore in pace e si fosse deciso a perdonarla. E in qualche modo Lea gli concede un briciolo di fiducia. Lo fa soprattutto per Denise, perché sono sette anni che non le fa un regalo, non ha neanche i soldi per prenderle un paio di pantaloni, figuriamoci per pagarle l’Università. Quando Carlo, a novembre del 2009, le dice di salire a Milano per qualche giorno insieme alla figlia e le promette che insieme avrebbero potuto trovare una soluzione ai problemi economici, Lea decide di andarci. Enza Rando, da poco suo avvocato, e responsabile dell’associazione Libera, le chiede di non andarci, le intima di non fidarsi, ma Lea è convinta che finché ci sarà Denise con lei nessuno le potrà fare del male.
Volevo impedirle di andare a Milano, avevo persino tentato di trattenerla fisicamente. Lei mi rassicurava: ‘Avvocato, non si preoccupi: finché con me ci sarà Denise, non mi accadrà nulla’. Così quel giorno a Firenze prendemmo due treni per direzioni diverse, e durante il viaggio continuavamo a mandarci sms. ‘Tornate indietro’, le scrivevo, ‘scendete a Piacenza, abbiamo già un posto dove sarete al sicuro’. Lei a un certo punto mi rispose: ‘Grazie avvocato, che Dio la benedica, Denise e io accettiamo la sua proposta di rifarci una vita’. Ma a Piacenza non è scesa. Quattro giorni dopo mi hanno chiamata i carabinieri di Milano
Il 24 novembre Lea è a Milano. Passeggia per le strade di Corso Sempione con la figlia. È rilassata, è tranquilla – per quanto possibile. La sera prima lei, Denise e Carlo sono usciti a cena insieme, quasi come una famiglia normale. Quella sera invece Denise deve andare a cena dagli zii paterni, per salutarli prima che entrambe prendano il treno per tornare in Calabria, alle 11 di sera. Hanno appuntamento alla Stazione Centrale di Milano alle 10.30, ma Lea non si presenterà mai. Quando Denise la chiama, intorno alle otto e mezza di sera, il suo cellulare è già spento, e la figlia non ha dubbi: capisce subito cosa è successo.
Il padre la va a prendere dagli zii, fa finta di portarla in giro a cercare la madre e quando vanno insieme in questura a depositare la denuncia di scomparsa, Denise viene interrogata e dice subito ai poliziotti “mia madre non è scomparsa. Mia madre è stata uccisa, ed è stato mio padre”. Carlo Cosco, in qualità di padre, chiede i verbali dell’interrogatorio della figlia, perché vuole sapere cosa ha detto. Diventa sospettoso nei suoi confronti e, quando, il giorno seguente, la riporta in Calabria la fa controllare e seguire da Carmine Venturino, allora ventenne.
L’inchiesta della polizia sulla scomparsa di Lea si muove subito in un’unica direzione: Lea è stata uccisa e sciolta nell’acido. Il processo per la sua morte inizia nel 2011 e Denise decide di onorare il sacrificio di sua madre prendendo esempio dal suo coraggio: si costituisce parte civile, viene reinserita nel programma di protezione (sotto cui è tutt’ora) e testimonia contro suo padre. Per l’omicidio di Lea Garofalo vengono condannati i tre fratelli Cosco (Carlo, Giuseppe e Vito), Massimo Sabatino (che aveva tentato di sequestrare Lea a Campobasso), Carmine Venturino e Rosario Curcio, all’ergastolo.
Nell’estate del 2012 c’è però una svolta: Carmine Venturino decide di collaborare con la giustizia. Lo fa per Denise, perché quando gli era stato chiesto di controllarla si era innamorato di lei. E racconta tutto: racconta di come Lea, quella sera del 24 novembre, sia stata portata in una casa, picchiata, seviziata, strangolata. Di come il suo corpo sia stato buttato in un barile di benzina, le sua ossa spaccate perché bruciasse più in fretta. E di come poi le sue ceneri siano state messe in un sacchetto e buttate in un tombino. Carmine fa ritrovare i resti di Lea, che può così avere un vero funerale, che si svolge a Milano, in piazza Beccaria. Mentre la bara passa tra la folla, portata sulle spalle dall’allora sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, dagli altoparlanti si sente la voce di Denise, che non può essere fisicamente presente, perché è sotto protezione: “Grazie per quello che hai fatto per me. Grazie per avermi dato una vita migliore. Se è successo tutto questo è solo per il mio bene, e non smetterò mai di ringraziarti. Ciao mamma”.
Il 29 maggio 2013, la sentenza di secondo grado conferma l’ergastolo per Carlo e Vito Cosco, per Rosario Curcio e per Massimo Sabatino, mentre riduce la pena a 25 anni per Carmine Venturino (in virtù della sua collaborazione e del suo concorso parziale). Assolve Giuseppe Cosco, per non avere commesso il fatto, anche se attualmente sta scontando una pena di dieci anni per traffico di stupefacenti.
A Lea sono stati intitolati i giardini di Viale Montello, a Milano. E diverse altre piazze o giardini in giro per l’Italia. A Lea, al suo coraggio, alla forza che ha avuto per se stessa, per sua figlia e per tutti noi.