Maria da GRETA Quaderno dell’8 Marzo di sos KORAI
Era l’inizio del 2014, a luglio avrei conseguito, se tutto fosse andato per il meglio, la laurea in medicina e chirurgia. Lo stress per gli ultimi esami da incasellare nei tempi giusti a volte mi offuscava la mente e mi faceva trascurare con grande pena i miei affetti più cari. Sul finire di febbraio appresi che il mio ateneo aveva da poco stabilito una convenzione che consentiva scambi culturali e di formazione presso un’Università in Uganda. L’idea da subito mi affascinò e cercai, con l’aiuto del mio docente di malattie infettive, fautore della convenzione, di creare un piccolo gruppo di persone motivate a partire. In poco tempo trovai quelle che sarebbero poi divenute, da lì a poco, compagne di viaggio e, in seguito, amiche speciali.
Prima di poter partire, iniziai a preparare tutto: le diverse vaccinazioni e la profilassi antimalarica, cose assolutamente banali con il senno di poi. Arrivò quindi il momento di partire, il due agosto. Partenza nel primo mattino, scalo poi a Roma, poi a Kigali e finalmente Entebbe. Il primo viaggio veramente lungo della mia vita, non riuscì a dormire in aereo, guardai diversi film e lessi qualcosa. All’arrivo era l’alba su Entebbe. Uscite dall’aeroporto cercammo colui che doveva portarci al nostro alloggio. Incontammo un uomo, tra i tanti, con un foglio A4 stretto tra le mani, i nostri nomi scritti con un pennarello rosso consumato, qualche lettera in meno o di troppo nei nostri nomi. Ma ci eravamo trovati. Paul, il nostro autista, da subito si dimostrò accogliente e gentile. Mi sedetti sul posto di fianco al guidatore e iniziai a fargli, nel mio inglese, mille domande. Le mie amiche dietro in silenzio.
Costeggiammo il lago Vittoria. Uno spettacolo indescrivibile, come i mille che sarebbero seguiti nei giorni successivi. Ogni tanto sulla riva gruppi di piccoli pescatori con le loro barchette oneste e usurate. Dopo due ore e mezzo di viaggio arrivammo al nostro alloggio. Un posto abbastanza spartano, ma tutto sommato accogliente. I nostri 4 lettini in camera erano sormontati da piccole zanzariere per proteggerci nel corso della notte.
Facemmo le assegnazioni dei chi dorme dove e iniziammo ad esplorare la nostra nuova dimora. Una piccola cucina in comune con qualche scarafaggio a farci compagnia e un salotto dove vivere la vita in comune con i nostri inquilini, altri ragazzi provenienti sia da altre regioni italiane che da altre parti del mondo. Nel pomeriggio, dopo aver mangiato qualche merendina che ci era rimasta in borsa, ci recammo in visita presso la struttura dove avremmo
lavorato per le successive settimane.
Un paio di chilometri da fare a piedi ci separavano dall’ospedale. Ma in mezzo un traffico infernale e selvaggio, mille boda-boda, un’aria paradossalmente inquinatissima e irrespirabile. Arrivammo a destinazione, un ospedale molto grande rispetto a quello dove ci eravamo formate. Venimmo assegnate ciascuna ai rispettivi reparti e rientrammo a casa. Nel frattempo sbrigammo le ultime cose, corsa a fare una sim card per poter comunicare con casa e comprare qualcosa da mangiare.
Il giorno dopo iniziammo la nostra attività in ospedale. Sveglia presto, colazione veloce, ricordarsi di prendere il malarone e via. Mi assicurai di avere tutto con me: il camice, il fonendo, la mascherina con il filtro giusto per proteggermi dalla tubercolosi come mi era stato raccomandato.
Mi recai presso il reparto di malattie infettive, dove ero stata assegnata. Rimasi da subito attonita per lo scenario che mi si presentò innanzi. Cameroni con decine di persone ammassate e in condizioni gravissime, sotto i letti, su dei pezzi di cartone sparsi qui e là e arrangiati alla men peggio, i parenti dei ricoverati.
La cosa che mi entrò dentro immediatamente fu proprio la puzza di quei luoghi di sofferenza, un odore acre e pungente che nei giorni dopo imparai ad amare e non è mai più andato via da me e che, oggi che sono a casa, a volte mi manca. Vidi casi nuovi, mai affrontati in Italia, poiché in Africa, per l’assenza di cure adeguate e diagnosi tempestive, il medico può osservare l’evoluzione naturale delle malattie, Sostanzialmente, vidi ogni giorno l’evoluzione dell’infezione di HIV nel conclamato AIDS, con quadri gravissimi.
Ogni giorno, non ritrovai che la metà dei pazienti visti il giorno prima, qualcuno era morto nella notte, qualcun altro qualche ora dopo il mio rientro a casa. I casi di tetano, malattia si può dire scomparsa in Italia grazie alla vaccinazione, erano diversi. Ricordo il primo che vidi. Un giovane ragazzo di 30 anni che era stato messo dietro una tenda costruita con sacchi neri della spazzatura per essere protetto dalla luce che scatena le contrazioni tetaniche che possono essere dolorosissime; da noi non avrebbe contratto il male perché sarebbe stato vaccinato o comunque avrebbe ricevuto immedia- tamente le cure adeguate.
La notte, prima di addormentarmi, rivedevo i volti delle persone che erano morte e sentivo un gran senso di colpa, ma al tempo stesso constatavo il mio essere fortunata per essere nata dalla parte “giusta” del mondo e quanto importante possa essere in que- sto senso la geografia. I giorni volarono via, la sera tornavamo a casa e lavandoci il viso, lasciavamo sull’asciugamano la terra rossa d’Uganda e il nostro stremo. Dopo due settimane, mi resi conto di come gli Africani siano in realtà un grande popolo, un popolo per cui non esiste il verbo avere, ma il verbo essere. Essere una famiglia, essere parte dell’U- niverso, essere insieme indipendentemente da come sei. Dividevano con noi tutto. Superata la diffidenza iniziale, amicizie profonde e sincere nascevano.
Dalla terza settimana, mi spostai in pediatria. Inutile dire lo strazio provato sin dal primo momento. Bambini morivano come mosche per banalità, per l’assenza di antibiotici o altri farmaci comuni che buttiamo via, poiché scaduti, dai nostri armadietti in bagno ogni anno. In qualche modo sei preparato alla morte di un adulto o di una persona anziana, ma quando muore un bambino, senti che è la speranza ad andar via, il futuro di un popolo che si sgretola. Tra mille riflessioni di questo genere, passai al sesto lettino di quella mattina e incontrai il piccolo Martin, un bimbo bellissimo di cinque anni ricoverato per un problema urologico che si portava dietro dalla nascita e che in Italia si sarebbe immediatamente risolto.
Rimase colpito dai miei occhiali, lo guardai, piccolo e sudicio nella sua felpina gialla di pile e con le ciabattine arancioni di almeno tre taglie più grandi. Presi un guanto dalla mia tasca, ci soffiai dentro e lo chiusi a mò di palloncino. Poi ci disegnai sopra due piccoli occhi e una risata. Glielo diedi e lui sorrise, ma non se ne interessò più che un tot. Lo diedi allora ad un’altra bambina che si era avvicinata nel frattempo, incuriosita dalla scena.
Martin continuava a fissare i miei occhiali. Lo presi allora in braccio e glieli diedi, nonostante senza non è che vedessi molto e lui frettolosamente subito ad indossarli. Una grande amicizia speciale era nata, senza una parola pronunciata. Di fondo, parlavamo la stessa lingua. Dopo qualche minuto, sopraggiunse il pranzo per i piccoli ricoverati: una piccola bustina contenente 100 ml di latte e un uovo sodo. Il piccolo Martin mi tirò il camice mentre io mi ero un attimo voltata e mi porse il suo uovo. Era disposto a dividere con me, nonostante non avessi fatto nulla per lui, il pasto più importante della giornata, consapevole che non avrebbe avuto altro. Di fronte a quel gesto, davvero indescrivibile, capii in realtà quanto grande può essere l’amore per gli altri e quanto cieca ero stata nel corso della mia vita, nonostante avessi sempre cercato di vivere di sani principi e senza nuocere a nessuno.
L’incontro con questo sconosciuto bimbetto mi aveva in qualche modo cambiata. Le persone continuavano a morirci sotto gli occhi come mosche. L’impotenza di fronte a tutto questo lasciava un ampio spazio alla rabbia che spingeva a dare alle persone che incontravi, in uno strato estremo di povertà, le cose che possedevi. Compravi la frutta, ma tornando a casa ne rimanevi priva poiché la davi ai bambini che ti tendevano la mano per strada. Davi via i tuoi vestiti e le cose che avevi portato.
Durante un fine settimana, decidemmo di fare visita a un lebbrosario. Non credevo che potessero esisterne ancora al mondo. In un posto incontaminato, sulle rive del lago Vittoria, una piccola comunità di suore si prendeva cura di queste figure silenziose, fantasmi di loro stesse che soggiornavano in questo remoto villaggio.
Alcuni di loro avevano con mezzi di fortuna costruito delle protesi a prolungamento di parti del loro corpo che la lebbra aveva portato via. Dare la mano ad una di queste persone è stata una delle esperienze più forti della mia vita. Eppure, questo anziano signore di 80 anni senza conoscermi né temermi mi allungò la sua mano, priva delle dita che gli avrebbero consentito di stringere la mia. Io ricambiai con sincero affetto quel gesto, con senso di universale amore. Rientrammo nel silenzio e i giorni e la fatica continuarono a scorrere nelle nostre vite, finchè non arrivò dopo qualche settimana il tempo di rientrare. Salite sull’aereo, un grande senso di angoscia mi prese. Non volevo partire, non volevo ritornare, sentivo che quella terra era diventata la mia.
Maria Mazzitelli