Paola Di Nicola: la giudice del tribunale di Roma
«Gli amici chiedevano a me le ricette dei piatti, non a mio marito, che è magistrato, come me, e lavora tutto il giorno, come me. Mai un dubbio che a cucinare non fossi io – era Gemma, che ci aiuta da sempre. Ma il punto è un altro: anche io ho finto, dispensando ingredienti e tempi di cottura. Ero io stessa vittima e spacciatrice dello stereotipo».
Confessare, dopo, è stato liberatorio?
«Da una parte, sì. Dall’altra, dopo che hai indossato le “lenti di genere” vedi tutto: e diventa molto faticoso. Devi accettare che in ogni momento, sottolineando e denunciando i pregiudizi, sarai additata come persona esagerata, passerai per pedante. Viviamo in un sistema che è fatto per nascondere, rimuovere e ridicolizzare le disparità di genere».
È stata tra le prime, in Italia, a farsi chiamare «la» giudice, cioè a porre l’attenzione sulle parole. Nella scorsa legislatura Laura Boldrini ha insistito su «la» presidente. Di recente, invece, le donne del governo gialloverde hanno detto di preferire la versione maschile. Le motivazioni sono varie: suona meglio, questione di forma e non di sostanza.
«Non critico chi non usa il femminile, perché è qualcuno che si sente in una condizione di soggezione. Però è proprio una questione sostanziale, non di forma: la lingua è un luogo di rappresentazione del potere, ciò che si nomina esiste. Prendiamo “femminicidio”, per esempio, la morte di una donna uccisa perché donna: la parola dà concretezza al fenomeno, prima solo “omicidio”. Quindi: il femminile è percepito come ghettizzante, sminuente, nel nostro linguaggio quotidiano tutto ciò che rimanda alle donne è effettivamente rappresentativo di una minorità, di una fragilità, di una riduzione. L’italiano attribuisce il femminile a tutti i nomi delle professioni, operaia, fioraia, maestra eccetera, ma più si sale nella scala gerarchica e di potere, il femminile inizia a scomparire fino a essere totalmente silenziato. Dove le donne sono entrate solo 50 anni fa, come in magistratura, il femminile non c’è mai stato perché le donne erano escluse: ritenute fragili, quindi inidonee al giudizio. In un assetto simile, è normale che ci siamo focalizzate sul dimostrare il nostro valore, prima».
Quindi non è un dettaglio.
«Dire “suona meglio” è un motivo vero – perché il femminile è sminuente – ma frettoloso. È un processo culturale lungo, difficile, ma bisogna iniziare a cambiare, proprio nei luoghi in cui c’è più bisogno di proteggersi».
Silvia Bombino