
Sibilla
Il 13 gennaio 1960 moriva in una clinica romana Sibilla Aleramo, una delle più famose e controverse letterate del Novecento. L’hanno letta le ragazze di oggi? O conoscono solo la sua tormentata relazione con Dino Campana, portata al cinema da Michele Placido? Se così fosse, peccato! Scandalosa, avida di vita e di amore ha ancora tanto da insegnare. Sul serio: la sua voce non ci fa piombare in un passato ormai morto, ma ci riporta al presente e alla dose di coraggio necessaria per scegliere liberamente il proprio destino.
Il giorno dopo la sua morte, Eugenio Montale la descrisse come una signora canuta, nobile nel portamento e nello sguardo, senza gelosie, senza invidie. “Sopravvissuta a tante tempeste, portava ancora con sé, e imponeva agli altri, quella fermezza, quel senso di dignità ch’erano stati la sua vera forza e il suo segreto”. Erano gli occhi a tradirla. Indomabili negli ultimi giorni come all’inizio, quando ancora si chiamava Marta Felicina Faccio e viveva in una Italia dove tutto e tutti – gli uomini, la famiglia, la società – le imponevano di abbassarli. Che chinasse il capo, che serrasse le labbra, che soffrisse in silenzio. Violenze e umiliazioni erano ciò che la vita riservava alle donne. Perché dunque ribellarsi? Perché rinunciare a un figlio, alla sicurezza economica, al rispetto?
Sibilla Aleramo sapeva di non avere scelta. Tutto, tranne rinunciare a se stessa. Aveva visto la madre, sempre più pallida ed emaciata, spegnersi in manicomio dopo una vita sottomessa. L’aveva vista elemosinare briciole di amore, sacrificare se stessa alla cura dei figli. Era stata una bambina come le altre, cresciuta in una famiglia borghese, una delle tante che nell’Italia di allora faceva strage di donne.
Sibilla Aleramo sapeva di non avere scelta. Tutto, tranne rinunciare a se stessa
Innamorata del padre, spirito laico e anticonformista, sentiva crescere il disprezzo nei confronti della madre. Nessuna pietà, neanche quando tentò il suicidio. Le vittime non piacevano a Sibilla Aleramo. E forse per questo quando lei stessa si ritrovò soffocata da un matrimonio umiliante, dopo avere ingerito laudano, a un passo dalla fine, decise di ribellarsi. L’uomo che l’aveva prima stuprata e poi portata all’altare – si chiamava matrimonio riparatore – che la soffocava per addomesticarla, non meritava il suo sacrificio. Non era solo violento, era ottuso e pavido. Il che, per Sibilla Aleramo, era molto peggio. Così rinunciò a tutto, anche al figlio tanto amato, pur di salvare se stessa e diventare quello che voleva essere: una persona libera.
Rinunciò a tutto, anche al figlio tanto amato, pur di salvare se stessa e diventare quello che voleva essere: una persona libera
A trent’anni prese la sua vita e la plasmò in un libro apertamente scandaloso, la prima opera letteraria a mettere in discussione la dedizione materna: Una donna. Era il 1906, le madri borghesi crescevano figli e andavano in chiesa, le altre lavoravano nelle manifatture dei tabacchi, nelle industrie tessili, nei campi, giornate lunghissime con la schiena piegata e una paga irrisoria. Erik Ibsen aveva già scritto Casa di bambola e dalla Norvegia il vento delle polemiche era soffiato su tutta Europa. Anche in Italia qualcosa stava cambiando: a Milano era attiva l’Unione femminile nazionale, di cui Sibilla Aleramo era fervida sostenitrice e nel 1908 Roma ospitò il primo congresso nazionale delle donne italiane.