Valeria Collina: in nome di chi?

Valeria Collina: in nome di chi?

Oggi ho conosciuto Valeria Collina, una Donna straordinaria che s’impegna per la cultura della pace e l’intercultura nonostante il macigno della tragedia del figlio…un figlio é sempre un pezzo della propria anima, del proprio cuore, del ventre, del seno, delle braccia, delle labbra …di ogni brandello di sé. Forza Valeria, ce la faremo!

Ecco un articolo di Fabio Tonacci che narra questa sua atroce storia.

Valeria Kadija
Collina ha 68 anni. Ha scritto un libro coraggioso, che è insieme il racconto della sua vita e uno sforzo di autocoscienza per esplorare fin dove affondavano le radici di quell’odio segretamente coltivato dal figlio. Da giovane Valeria è una femminista convinta, faceva teatro. Una trentina di anni fa conosce Mohamed Zaghba, marocchino e musulmano. Si innamora, si converte all’Islam (“per anni ho volontariamente indossato il niqab “) e si trasferisce a Fez. Hanno due figli: Kaouthar e Youssef, il terzo uomo del commando stragista che tra il London Bridge e il Borough Market ha ucciso otto persone.
Quando è iniziata la radicalizzazione?

“Nel 2015 mi accorsi che Youssef aveva la bandiera dell’Isis su Facebook e dei video di propaganda nei quali sembrava che nel Califfato tutto funzionasse bene. Credo che sia stato un suo amico del liceo a procurarglieli”.
In Rete si trovavano anche i filmati delle decapitazioni.

“Sosteneva che fossero stati obbligati a compierle, per difendersi da aggressioni esterne. Considerava lo Stato Islamico l’unico luogo dove si potesse praticare l’Islam puro, e infatti mi ha proposto di andare in Siria”
Come ha reagito?

“Ho provato a spiegargli che l’Isis era solo una costruzione politica e che le violenze non erano ammesse dalla nostra religione”.
Non è un po’ poco, di fronte a segnali così preoccupanti?

“Per molto tempo ho rifiutato di addossarmi una colpa per ciò che aveva fatto Youssef: l’Islam ci insegna che ognuno è responsabile delle proprie azioni. Poi però ho capito di aver fatto un errore: non ho insegnato ai miei figli ad avere uno spirito critico. Questa è la mia colpa di madre”.
Suo marito Mohamed non diceva niente?

“Non si è mai posto il problema. E Youssef si confidava solo con me”.
Ha mai pensato di segnalare suo figlio alle autorità marocchine?

“In Marocco non funziona come in Europa: una segnalazione significa rovinare una persona”.
Nel 2016 ha lasciato suo marito ed è tornata a vivere nel Bolognese. Nello stesso periodo suo figlio ha provato ad andare in Turchia…

“Non ero preoccupata, perché Youssef non era mai stato un tipo aggressivo nonostante la nostra fosse una famiglia in cui purtroppo c’era violenza da parte di Mohamed “.
All’aeroporto Marconi disse di voler fare il terrorista, poi si corresse e usò la parola turista.

“Sperava inconsciamente di essere bloccato. Aveva bisogno di uno psicologo, ma non accettava di vederne uno”
Poteva essere fermato prima del 3 giugno 2017?

“Non lo so. Di sicuro le autorità inglesi lo hanno sottovalutato: lui stesso mi raccontava che negli aeroporti passava i controlli senza essere fermato, nonostante la segnalazione della polizia italiana”.
Come ha reagito la comunità musulmana italiana dopo l’attentato?

“Con paura. Quando ci sono fenomeni di radicalizzazione, la comunità
dovrebbe trovare la forza di affrontarli insieme collaborando con le autorità. Ma non c’è fiducia nelle istituzioni, anche per le tante espulsioni decise dal governo italiano. Mi sono ritrovata sola e isolata: sono la madre di un terrorista, ma non sono una terrorista”.

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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