Vito Teti racconta
Caterineja Xuri de luminu
Ti manda salutandu don Luigi
Non vogghiu lu forgiaru cà mi tinge
Cà vogghiu a chiju chi pitta li porte
Pitta li porte e pitta lu visu
Pitta li mei porte de lu Paradisu.
Mia madre si chiama Caterina. Quando nacque mia figlia, naturalmente, Caterina come lei e per lei (perché angustiarmi per cercare un nome strano e alla moda, magari brutto, visto che ne avevo uno bello in famiglia), il suo albero di canti e di filastrocche si allargò e si alzò ancora. Ascoltai da mamma tanti canzoncine in cui compariva il nome Caterina. Un giorno mia madre fermò i suoi racconti, si alzò dalla poltrona su cui sedeva, e, a fatica, raggiunse un armadio. Prese per la mia Caterina delle lenzuola e degli asciugamani, mi pare anche una coperta, di ginestra da lei e da sua madre, nonna Felicia, lavorate al telaio di casa. Nella casa della Cutura, quella in cui abitavamo quando mio padre era a Toronto, ancora ai tempi della mia infanzia, nonna e mamma allevavano il baco da seta e tessevano i colori e le figure del mondo al telaio il lino, la lana, la ginestra. Il mio paese era un paese di gelsi, bachi, telai, donne che tessevano e pregavano. Due sorelle di nonna, le zie casiste, di giorno lavoravano e andavano in chiesa e la notte si alzavano per andare a pregare, col caldo e col freddo, nell’orto vicino sotto la pianta di arancio. I telai, nell’epoca in cui avanzava il mito della modernità e non si badava più al valore degli oggetti antichi, vennero distrutti o adoperati per fare legna. In questo mondo che cambia e non ama ricordare, restano le coperte e le lenzuola antiche, il frutto della fatica, della pazienza, dell’arte delle nostre donne, restano le memorie e i canti di mia madre, che ho avuto la fortuna di ascoltare e registrare, ma anche di capire dall’interno la profonda pietas e il senso religioso che trasmettevano, e che oggi regalo a tutti voi.
Vito Teti