Archivio mensile 15th Gennaio 2020

I giovani calciatori di Tropea per sensibilizzare sull’ENDOMETRIOSI

Venerdì prossimo, a Tropea, lo Stadio del Sole ospiterà la seconda partita del Campionato Allievi che vedrà in campo la S.C.D. Junior cittadina in lotta con la squadra del Capo Vaticano. 
I giovani calciatori Tropeani gareggeranno con la nuova maglia che porta in petto lo slogan “ENDOMETRIOSI? …parliamone!”.
La frase riprende il nome del progetto varato dall’Associazione di Volontariato sos KORAI Onlus, presieduto da Beatrice Lento, con lo scopo di promuovere la conoscenza di una patologia femminile sulla quale ancor oggi gravano preconcetti  e stereotipi lesivi della dignità della Persona. “Effettivamente” ci dice la presidente dell’associazione “quest’insidiosa sofferenza, esclusivo appannaggio della donna, é stata sottovalutata e disprezzata attribuendola a follia e all’intrinseca debolezza e incapacità femminili. Questo ha influenzato l’atteggiamento moderno causando ritardi nella diagnosi e cura e indifferenza al dolore delle pazienti. É per questa ragione che sos KORAI vuole fare la sua parte impegnandosi nell’ambito dell’educazione e della diffusione di conoscenza. La squadra giovanile ha risposto con immediatezza all’appello lanciato grazie anche alla sensibilità della presidente Maria Rocco, del vice presidente Natale Crai, del responsabile tecnico Angelo Stumpo e di tutto il direttivo, tra cui Domenico Russo, medico dei calciatori,  Mariano Grillo, segretario, Gesualdo Marinella, tesoriere, Gaetano Addolorato, componente del direttivo  e degli allenatori Nicola e Andrea Stumpo.”.
“Abbiamo accolto subito e senza perplessità l’invito a gareggiare  con lo slogan che propone di riflettere sull’Endometriosi” dichiara Angelo Stumpo, conosciuto e apprezzato da tutti come “ Il Mister” per il suo pluriennale impegno sportivo con i giovani “perché volevamo dimostrare come il calcio non sia maschilista ed anche una squadra fatta solo da uomini sia sensibile ai bisogni della donna. Personalmente ammiro molto il genere femminile e sono certo che sia molto più creativo di quello maschile. Siamo consapevoli dei pregiudizi contro la donna e vogliamo contribuire a stroncarli. Del resto lo scopo dell’associazione sportiva che rappresento è prettamente educativo e per noi il pallone é uno strumento completo ed efficace  di formazione.”.
La squadra tropeana é al suo secondo appuntamento e scende in campo nella sua città venerdì prossimo dopo la gara, della scorsa settimana a Fabrizia, che l’ha vista vincitrice con un 2 a 1 frutto di una bella e appassionante partita.
 Nello Stadio del Sole si  esibirà per la prima volta con la maglia bianca e la colorata frase che invita a conoscere l’ ENDOMETRIOSI, una patologia spesso sottovalutata, trascurata e incompresa che provoca tanto dolore alla donna, alla sua famiglia e alla comunità che si vede depauperata di importanti risorse ed energie femminili. 
“Parlare di questa insidiosa e invalidante malattia significa aprire tante finestre dietro cui si nasconde la sofferenza di  donne che cercano aiuto. Grazie alla giovane squadra di Tropea, che ha saputo cogliere un impegno di civiltà, da sos KORAI e da chi crede nel valore della solidarietà e del servizio.” (Beatrice Lento)
Firmato
La Presidente di sos KORAI Onlus 
Dott.ssa Beatrice Lento 

Non mi pento di niente

Dalla donna che sono,

mi succede, a volte,

di osservare, nelle altre, la donna che potevo essere;

donne garbate, laboriose, buone mogli,

esempio di virtù,

come mia madre

avrebbe voluto.

Non so perchè

tutta la vita

ho trascorso a

ribellarmi a loro.

Odio le loro minacce

sul mio corpo

la colpa che le loro vite

impeccabili,

per strano maleficio

mi ispirano;

mi ribello contro le loro buone azioni,

contro i pianti di nascosto

del marito,

del pudore della sua nudità

sotto la stirata e inamidata biancheria intima.

Queste donne,

tuttavia, mi guardano

dal fondo dei loro specchi;

alzano un dito accusatore

e, a volte, cedo al loro sguardo di biasimo

e vorrei guadagnarmi il consenso universale,

essere “la brava bambina”, essere la “donna decente”

la Gioconda irreprensibile,

prendere dieci in condotta

dal partito, dallo Stato,

dagli amici,

dalla famiglia, dai figli

e da tutti gli esseri

che popolano abbondantemente

questo mondo.

In questa contraddizione inevitabile tra quel che doveva essere

e quel che è,

ho combattuto numerose

battaglie mortali,

battaglie a morsi, loro contro di me

– loro contro di me che sono me stessa –

con la psiche

dolorante,

scarmigliata,

trasgredendo progetti ancestrali, lacero le donne che vivono in me

che, fin dall’infanzia, mi guardano torvo

perchè non riesco nello stampo perfetto dei loro sogni,

perchè oso essere quella folle, inattendibile, tenera e vulnerabile

che si innamora come una triste puttana

di cause giuste,

di uomini belli

e di parole giocose.

Perchè, adulta, ho osato vivere l’infanzia proibita

e ho fatto l’amore sulle scrivanie nelle ore d’ufficio,

ho rotto vincoli inviolabili

e ho osato godere

del corpo sano e sinuoso

di cui i geni di tutti i miei avi mi hanno dotata.

Non incolpo nessuno. Anzi li ringrazio dei doni.

Non mi pento di niente, come disse Edith Piaf:

ma nei pozzi scuri in cui sprofondo al mattino,

appena apro gli occhi,

sento le lacrime che premono,

nonostante la felicità che ho finalmente conquistato,

rompendo cappe e strati di roccia terziaria e quaternaria,

vedo le altre donne che sono in me,

sedute nel vestibolo

che mi guardano con occhi dolenti e mi sento in colpa per la mia felicità.

Assurde brave bambine mi circondano e danzano musiche infantili

contro di me;

contro questa donna fatta, piena,

la donna dal seno sodo

e i fianchi larghi,

che, per mia madre e contro di lei, mi piace essere.

– Gioconda Belli –

Gioconda Belli

Gioconda Belli è una poetessa, giornalista e scrittrice nicaraguense. Ha al suo attivo quattro libri di narrativa, nei quali vengono esplorati alcuni temi ricorrenti: le vicissitudini politiche del suo paese e la lotta sandinista l’emancipazione della donna. È anche autrice di diverse raccolte di poesie, caratterizzate da una poetica sensuale e femminile.

E Dio mi fece donna,

con capelli lunghi,
occhi,
naso e bocca di donna.
Con curve
e pieghe
e dolci avvallamenti
e mi ha scavato dentro,
mi ha reso fabbrica di esseri umani.
Ha intessuto delicatamente i miei nervi
e bilanciato con cura
il numero dei miei ormoni.
Ha composto il mio sangue
e lo ha iniettato in me
perché irrigasse tutto il mio corpo;
nacquero così le idee,
i sogni,
l’istinto
Tutto quel che ha creato soavemente
a colpi di mantice
e di trapano d’amore,
le mille e una cosa che mi fanno donna
ogni giorno
per cui mi alzo orgogliosa
tutte le mattine
e benedico il mio sesso.

Sibilla Aleramo

[…] E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale.
Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i suoi figli?
Ma la buona madre non deve essere come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana. E come può diventare una donna, se i parenti la danno, ignara, debole e incompleta, a un uomo che non la riceve come una sua uguale; ne usa come d´un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l´abbandona sola,mentr’egli compie i suoi doveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia?
Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminile in Inghilterra e in Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con insistenza. Avevo provato subito una simpatia per quelle creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte sino a recidere in sé i piú profondi istinti, l’amore, la maternità, la grazia. Sempre più il mio pensiero cadeva sulla parola emancipazione, che ricordavo di avere sentito nella mia infanzia, da mio padre seriamente, ma poi sempre con derisione da ogni classe di uomini e di donne.
Indi avevo paragonato a quelle ribelli la gran folla delle donne inconsapevoli, delle rassegnate, il tipo di donna plasmato nei secoli per la soggezione, e di cui io, le mie sorelle, mia madre, tutte le creature femminili da me conosciute,eravamo degli esemplari.
Un fatto di cronaca mi indusse un giorno di scrivere un articoletto e a mandarlo a un giornale di Roma che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo, e quella parola, dal suono cosí aspro mi indicò un ideale nuovo, che io cominciavo ad amare come qualcosa migliore di me.
VIVERE! Ormai lo volevo, non piú solo per mio figlio,
ma per me, per tutti.

Sibilla Aleramo

Ledi Meingati

Ledi Meingati ha 61 anni, ma non li dimostra: è una bellissima donna Masai e ha deciso, nel 2011, di non tacere più l’ingiustizia di quello che le è successo quando aveva dodici anni. Anche lei è stata vittima di una mutilazione, per poco non è morta.

«Fu terribile, per tre mesi ho continuato a sanguinare» racconta. La cerimonia fu una faccenda fra donne: le anziane della famiglia andarono ad avvisarla che sarebbe diventata donna, furono loro a spogliarla, buttarle addosso acqua fredda e tenerla immobile mentre la mammana, la donna deputata al taglio, non ebbe finito.

Lei tentò di ribellarsi, ma era appena una bambina. E fu atroce e doloroso, anche dopo. «Ricordo che mi facevano bere il sangue delle mucche per riprendere le forze, io sentivo un dolore che non passava mai. Mi sono sposata, durante i rapporti il dolore era fortissimo. E così al parto, per ognuno dei miei cinque figli. Perciò ho deciso di alzare la voce e raccontare la mia storia: voglio che nessun’altra bambina debba soffrire ciò che ho patito io, così ho iniziato a parlare alle ragazze, alle donne nei villaggi per far capire quanto sia pericolosa questa pratica. E agli uomini, perché capiscano di dover accettare in spose donne non mutilate. Solo cambiando la cultura di tutti potremo salvare le donne».

Nel suo Paese, il Kenya, il governo ha dichiarato illegali le mutilazioni; tuttavia sono ancora tollerate (le ha subite il 21 per cento delle donne fra i 15 e i 49 anni) e le cose stanno cambiando con esasperante lentezza agli occhi di Ledi.

Che viaggia nel Paese con WeWorld Onlus parlando pure alle mammane, per raccontare loro che cosa può succedere alle bambine dopo le mutilazioni e per aiutarle a trovare un lavoro diverso. È una strada lunga, ma un futuro diverso è possibile. «Ho avuto due figlie. Nessuna è stata tagliata».

Da IO DONNA

Letizia e la foto dell’uccisione di Piersanti Mattarella

“Fui la prima ad arrivare in via della Libertà dove avevano ucciso Piersanti Mattarella. Io e il mio compagno, il fotografo Franco Zecchin avevamo fatto una passeggiata e vedemmo un’automobile quasi appoggiata a un cancello. Sergio Mattarella teneva abbracciato il corpo del fratello, lo stava tirando fuori…Avevamo le macchine fotografiche in mano, pensavo si trattasse di un piccolo incidente, ma quella volta ci siamo fermati e ho scattato. Non ho riconosciuto subito il presidente della Regione Piersanti Mattarella…E’ una foto drammatica come ogni tanto capita di scattare per caso, per un intuito. Dentro c’è tutto: la moglie , la figlia, il fratello fuori dall’auto, e Sergio chinato su Piersanti…rivederlo oggi sulle prime pagine mi fa impressione. Dopo tanti anni, è come se le cose tornassero, forse per mettersi a posto. Speriamo”. 

Letizia Battaglia

Rosa Balistreri: la voce del popolo

Rosa nasce in una famiglia poverissima; la madre lavora in casa mentre le uniche entrate di denaro provengono dai piccoli lavori di falegnameria del padre. A sedici anni viene data in sposa a Gioacchino Torregrossa, un uomo che, molti anni dopo, in un concerto, Rosa avrebbe definito “latru, jucaturi e ‘mbriacuni”.

Il matrimonio, da cui nasce l’unica figlia oggi vivente, Angela Torregrossa, finisce in tragedia il giorno in cui Rosa, avendo scoperto che il marito aveva perso al gioco il corredo della figlia, lo aggredisce con una lima e, credendo di averlo ucciso, va a costituirsi dai carabinieri: sconterà sei mesi di galera.

Per mantenere la figlia e aiutare la sua famiglia di origine Rosa fa molti lavori: dapprima in una vetreria, poi come raccoglitrice e venditrice di lumache, capperi, fichi d’india, sarde e infine a servizio in una famiglia nobile di Palermo, dove mette la figlia in collegio. In questo periodo impara a leggere e scrivere.

Si innamora del figlio del padrone e rimane incinta; Rosa si vede costretta a fuggire e poi a scontare altri sei mesi di carcere, perché accusata di furto. Uscita dal carcere trova lavoro come sagrestana e custode della chiesa degli Agonizzanti a Palermo; vive in un sottoscala insieme a suo fratello Vincenzo, invalido, che impara a fare il calzolaio. Non avendo ceduto alle molestie del prete viene mandata via e lei, rubati i soldi delle cassette dell’elemosina, parte col fratello Vincenzo per Firenze: lui lavorerà in una bottega di calzolaio e lei a servizio in case signorili.

Richiamata a Firenze anche la madre e una delle due sorelle, Rosa apre con loro un banchetto di frutta e verdura al mercato di San Lorenzo. La sorella Maria li avrebbe raggiunti in seguito, scappando coi figli alle prepotenze del marito. Ma, poco dopo la fuga, l’ex marito la uccide. In seguito alla tragedia il padre di Rosa si toglie la vita impiccandosi.

Nei primi anni Sessanta Rosa incontra il pittore fiorentino Manfredi Lombardi, e con lui vivrà per dodici anni. Durante questo periodo allarga la cerchia delle sue amicizie e viene a contatto con il mondo degli intellettuali del suo tempo. Nel 1966 partecipa allo spettacolo di canzoni popolari portato sulle scene da Dario Fo, dal titolo Ci ragiono e canto.  Ha quarant’anni, il volto segnato da una vita tanto intensa e faticosa, gli occhi limpidi e sicuri di chi porta fino in fondo le proprie battaglie; la sua voce ha un timbro arcaico e diretto: la sua presenza drammatica rimane ben impressa negli spettatori, come le canzoni popolari siciliane che interpreta, nelle quali si racconta non solo la miseria ma anche l’orgoglio e lo sdegno del popolo.

Ho imparato a leggere a trentadue anni. Dall’età di sedici anni vivo da sola. Ho fatto molti mestieri faticosi per dare da mangiare a mia figlia. Conosco il mondo e le sue ingiustizie meglio di qualunque laureato. E sono certa che prima o poi anche i poveri, gli indifesi, gli onesti avranno un po’ di pace terrena.

Così si presenta Rosa a un giornalista che l’intervista nel 1973 in seguito alla mancata partecipazione al Festival di Sanremo, dove la sua canzone dal titolo Terra che non senti era stata esclusa all’ultimo minuto. Questo episodio suscita molto fragore, al punto che Rosa viene considerata da molti la vera vincitrice del Festival di quell’anno:

Li ho messi tutti nel sacco. Le mie storie di miseria provocheranno guai a molti pezzi grossi il giorno in cui l’opinione pubblica sarà più sensibile ad argomenti come la fame, la disoccupazione, le donne madri, l’emigrazione, il razzismo dei ceti borghesi… Finora ho cantato nelle piazze, nei teatri, nelle università, ma sempre per poche migliaia di persone. Adesso ho deciso di gridare le mie proteste, le mie accuse, il dolore della mia terra, dei poveri che la abitano, di quelli che l’abbandonano, dei compagni operai, dei braccianti, dei disoccupati, delle donne siciliane che vivono come bestie. Era questo il mio scopo quando ho accettato di cantare a Sanremo. Anche se nessuno mi ha visto in televisione, tutti gli italiani che leggono i giornali sanno chi sono, cosa sono stata, tutti conoscono le mie idee, alcuni compreranno i miei dischi, altri verranno ai miei concerti e sono sicura che rifletteranno su ciò che canto.1

Dopo la partecipazione a Ci ragiono e canto, inizia a incidere dischi. Nel 1971 si trasferisce a Palermo, dove frequenta persone come il pittore Guttuso e il poeta Ignazio Buttitta, che scrive per lei numerose liriche andatesi ad aggiungere al suo già vastissimo repertorio, e che diceva di lei:

Ogni volta che cercheremo le parole, i suoni sepolti nel profondo della nostra memoria, quando vorremo rileggere una pagina vera della nostra memoria, sarà la voce di Rosa che ritornerà a imporsi con la sua ferma disperazione, la sua tragica dolcezza.

Dopo la sua morte, avvenuta a Palermo nel 1990, la memoria di Rosa Balistreri si è appannata, ma negli ultimi anni i suoi eredi (in particolare il nipote Luca Torregrossa) lavorano per recuperarne il valore e la fama. Inoltre l’editore Francesco Giunta sta raccogliendo in CD la sua vastissima produzione, sparsa in molte registrazioni di concerti e in dischi delle più svariate case discografiche. Grazie al suo interessamento, nel 2008 Palermo e Firenze hanno dedicato a Rosa Balistreri un concerto con quattro importanti cantanti della canzone popolare italiana (Lucilla Galeazzi, Clara Murtas, Fausta Vetere e Anita Vitale), accompagnate dall’ensemble I pirati a Palermo.

In un’intervista a «Noi Donne» la cantante Lucilla Galeazzi ha detto a proposito del modo di cantare di Rosa:

Fare politica attraverso la canzone popolare non è solo qualcosa di esplicito e legato ai fatti del momento, ed è nel “come” non solo nel “cosa”. Lei portava avanti la voce del popolo, cantava le canzoni che appartengono a tutti, che sono “comuni” fin dalla loro radice e alle quali non è possibile apporre alcun tipo di copyright. […] A me Rosa piace come canta e cosa canta, cose che non vanno mai distinte, anche la ninna nanna è contestataria: la ninna nanna non la canta certo la donna borghese che può permettersi la balia, ma la mamma proletaria che l’indomani deve svegliarsi alle quattro di mattina per andare a lavorare, e si sente disperata perché il bambino non vuole dormire. Ecco allora che Rosa aveva la capacità di trasmettere la disperazione, di renderti compartecipe del lamento di questa donna: e anche questo è fare politica.

Rosa Balistreri

Mi votu e mi rivotu suspirannu,

Passu li notti ‘nteri senza sonnu,

E li biddizzi tòi vaiu cuntimplannu,

Li passu di la notti nzinu a gghiornu,

Pi tia non pozzu ora cchiu arripusari,

Paci non havi chiù st’afflittu cori.

Lu sai quannu ca iu t’aju a lassari

Quannu la vita mia finisci e mori.

Rosa Balistreri

Il colore dei tuoi occhi non cambierà i miei

Apprezzo le tue parole, ma non ho bisogno della tua approvazione.

Apprezzo il tuo consiglio, ma non ho bisogno che tu accetti le mie scelte.

Apprezzo la tua compagnia, ma non ho bisogno che sia tu ad approvare il mio rimanere o andare.

Apprezzo il tuo punto di vista, ma non ho bisogno che tu mi dica come vivere la mia vita.

Apprezzo la tua visione, ma non ho bisogno di giustificarmi se la mia è diversa.

Il colore dei tuoi occhi non cambierà il colore dei miei, né cambierà la visione del mio orizzonte.

Grazie perchè hai scelto di camminare con me, qui e ora, ma sempre seguirò il richiamo del mio cuore e i dettami della mia coscienza, si crea quello che si pensa, si viene giudicati esattamente come si giudica, che questo soddisfi le tue aspettative o meno.

Ho scelto di camminare con te, qui e ora, con braccia aperte, lealmente e profondamente, a condizione che i miei passi continuino a cantare la libertà.

Ada Luz Marquez