Diana Karenne: attrice ed artista che ha combattuto e vinto
Transfuga dalla natia Polonia, Diana Karenne approda a Torino nel 1915 e si lega al produttore Ernesto Maria Pasquali, che la dirige in Passione tsigana (1916). Il film, malgrado un soggetto piuttosto abusato ed una realizzazione modesta, incontra un inaspettato, entusiastico successo per merito dell’attrice che, scrive un recensore d’epoca, «brutalmente quasi, ma di giustizia, viene alla luce della celebrità».
Dopo qualche altro film diretto da Pasquali, la Karenne ottiene di dirigersi da sola: si scrive i soggetti e le sceneggiature, arriva anche a disegnare i manifesti.
«Questa giovane è entrata nella nostra arte come un ciclone – scrive nel 1919 Tito Alacci, attento biografo delle dive – ha rivoluzionato ogni cosa, incominciando dai cuori mascolini e dalle fantasie femminili. Ha portato metodi nuovi, ha reso comica la tragedia e tragica la commedia». Ed infatti, nei suoi film – oggi quasi tutti andati perduti – la Karenne crea un personaggio di donna che non accetta supinamente le insopportabili regole di perbenismo imposte dalla tradizione e si ribella. Lotta tenacemente, testardamente, magari perde, ma ci ha provato. Ha imparato e fatta sua la lezione di Asta Nielsen, alla quale dichiara esplicitamente di ispirarsi. Tra il 1916 ed il 1920 è una presenza costante sugli schermi ed un modello di trasgressione che affascina la platea, specie quella femminile, di cui interpreta segreti desideri e represse aspirazioni. Naturalmente dovrà pagare lo scotto della sua intelligenza e del suo esser contro con le tante remore che la censura impone ai suoi film, e sopportare acide recensioni da parte di critici disorientati dalla sua irruenza.
Eccentrica nell’abbigliamento e nel trucco, irascibile sul set, una vera primadonna, fu però molto professionale, creando una galleria di personaggi – la contessa Arsenia, Lea (da Cavallotti), Zoja, la studentessa di Gand, l’Indiana (da George Sand), Maria di Magdala per Carmine Gallone, la peccatrice casta per Gennaro Righelli – che affascinarono le platee del secondo decennio del secolo.
Appena le cose si misero male per il cinema italiano, si trasferì a Parigi e poi a Berlino dove, seppur in tono minore, continuò a proporre figure di Mondäne Frau, di altre peccatrici caste, di falene che si bruciano le ali scherzando con la vita, ma la si vedrà anche in una sfarzosa Marie Antoinette(1922), produzione tedesca diretta da Rudolf Meinert, nel Casanova (1926) del russo bianco Alexander Volkoff al fianco di Mosjou-ine e nei panni della gelida zarina in un film sulle avventure amorose di Rasputin (Rasputins Liebescabenteuer, 1928). Con il sonoro, Diana si ritira dal cinema e si stabilisce ad Aquisgrana con il marito: dopo un’ultima apparizione, ma poco più di una comparsata, nella Manon Lescaut che l’amico Gallone dirige nel 1940, morirà sotto le macerie della sua casa, centrata durante un bombardamento della città renana agli inizi della seconda guerra mondiale.
Da Le dive del silenzio, Le Mani, Genova, 2001.
I nuovi papà
La scienza al servizio della rivoluzione culturale: questo libro è un’arma del pensiero».
Stefania Andreoli
Sembra ovvio che le donne si occupino dei bambini e gli uomini di altre cose. Ovvio e naturale: è sempre stato così. Anche in biologia, per decenni, le cose si sono raccontate in questo modo: i maschi dei mammiferi si sono evoluti per competere tra loro per lo status e per l’accoppiamento, mentre le femmine si sono evolute per la gestazione, l’allattamento e la cura della prole. Per molto tempo si è sostenuto questo punto di vista senza neppure sentire l’esigenza di indagare oltre.
Ma il mondo è cambiato e siamo entrati nel ventunesimo secolo. Oggi un numero crescente di uomini si occupa dei bambini fin dalla nascita e mostra di saperlo fare benissimo. Com’è possibile? Stupita dalla tenera competenza dei nuovi padri in tutto il mondo – anche nella sua stessa famiglia – la decana dell’antropologia statunitense Sarah Blaffer Hrdy ha deciso di indagare le radici profonde dell’accudimento maschile per spiegare questo sorprendente allontanamento da tutto ciò che veniva ritenuto acquisito e «normale».
Hrdy attinge a una vasta gamma di ricerche recentissime per sostenere che questa trasformazione negli uomini non è solo culturale, ma ha anche fondamenti biologici. Gli uomini a contatto intimo e prolungato con i bambini cambiano profondamente e mostrano risposte quasi identiche a quelle delle madri, sviluppando un potenziale di cura che pochi sapevano di possedere.
Per spiegare questi comportamenti in maniera coerente con la storia della nostra specie, dal Pleistocene a oggi, Il tempo dei padri ripercorre milioni di anni di evoluzione, dai primati ai mammiferi, risalendo a ritroso nel tempo fino agli anfibi e ai pesci, allargando continuamente la ricerca alle nuove incredibili scoperte delle neuroscienze, della genetica, dell’antropologia e dell’endocrinologia. Il risultato è una sintesi magistrale, un libro che cambia radicalmente le prospettive e amplia la nostra comprensione di cosa significhi essere un uomo. Con tutte le implicazioni che questo comporta per la nostra società.
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