Alle ore 9 di sabato 25 giugno 1678, a Padova, trasferito all’ultimo momento in Cattedrale, nella cappella della Vergine, essendo la sede abituale risultata insufficiente per il pubblico convenuto, ebbe luogo l’esame per il conferimento del Dottorato in Filosofia a Elena Lucrezia Scolastica Cornaro Piscopia. Durante la discussione dei puncta assegnatile, consistenti in due tesi su Aristotele, le dotte e brillanti risposte di Elena impressionarono i suoi esaminatori che, a scrutinio segreto, decisero di proclamarla per acclamazione «magistra et doctrix in philosophia». Era la prima donna al mondo ad essere laureata e a potersi fregiare del titolo di Doctor.
Le furono consegnate le insegne del suo grado, uguali a quelle dei colleghi uomini: il libro, simbolo della dottrina; l’anello per rappresentare le nozze con la scienza; il manto di ermellino, a indicare la dignità dottorale, e la corona d’alloro, contrassegno del trionfo. Solo come estrema rarità qualche altra donna avrebbe poi ottenuto un analogo risultato: risulterebbero due sole laureate (una a Bologna e una Pavia) nell’arco dell’intero secolo successivo, nonostante le richiedenti fossero state più numerose.
Come ricorda una targa posta nel palazzo dei Cornaro, presso Rialto – oggi Cà Loredan, sede del municipio –, Elena Lucrezia era nata a Venezia il 5 giugno 1646 da un’antica e nobile casata, da cui uscirono quattro dogi e nove cardinali, imparentata anche con Caterina Cornaro (1434-1510), regina di Cipro e poi signora di Asolo.
All’origine della sua eccezionale laurea vi fu non solo l’acume della intelligenza e la profondità e ampiezza degli studi di Elena Lucrezia, ma, come sempre accade nei casi di donne colte o artiste dei secoli scorsi – come fu il caso di Maria Gaetana Agnesi e di molte altre –, il non meno decisivo riconoscimento e sostegno del padre, egli stesso uomo di buoni studi, noto come mecenate, in contatto con molti eruditi, erede di una biblioteca tra le meglio fornite, visitata da molti studiosi per le loro ricerche (tra i quali il celebre benedettino Giovanni Mabillon). Anche le donne di famiglia non furono irrilevanti. La madre di Elena, Zanetta Boni, non essendo nobile, convisse vent’anni col futuro marito e gli diede i primi cinque figli (Elena compresa) prima che si sposassero, mostrando non comune libertà nei confronti delle convenzioni. Venne riconosciuta pubblicamente e dal marito come uxor optima, intelligente, fiera e capace di educare figlie virtuose e stimate. Anche la sorella più giovane di Elena, Caterina (nata nel 1655), si distinse per intelligenza e cultura e – è significativo – raccomandò nel testamento alla propria figlia di amare a sua volta le figlie non meno dei maschi.
Giovanni Battista Cornaro, procuratore di San Marco, fu a sua volta incoraggiato dal parroco di San Luca, confessore e amico di famiglia, l’erudito don Giovanni Battista Fabris (dottore in teologia, studioso di filosofia, buon latinista e ottimo grecista), il quale aveva intuito il talento e l’inclinazione della bambina, ad avviarla dall’età di sette anni agli studi classici, diventando il suo primo insegnante di greco. Seguita da maestri di straordinario livello in ogni materia, Elena Lucrezia studiò matematica, astronomia, geografia; coltivò con passione la musica, nella quale ebbe come maestra l’organista Maddalena Cappelli, che fu per lei anche una fidata amica e compagna. Ebbe una vasta e profonda conoscenza delle lingue classiche e moderne, dal latino al greco antico e moderno, dallo spagnolo al francese all’ebraico, per il quale ebbe come insegnante il celebre dotto e santo rabbi Shemuel Aboaf, rabbino della comunità veneziana. Il suo interesse principale andò però alla filosofia e alla teologia, nelle quali ebbe come maestri due professori di chiara fama dell’ateneo patavino: rispettivamente Carlo Rinaldini e padre Felice Rotondi, conventuale, che di Elena avrebbe più tardi scritto di averla avuta più come maestra che come discepola in teologia.
La fama di Elena Lucrezia si era diffusa rapidamente; fece parte di varie accademie in tutta Europa, e ricevette la visita di eruditi e studiosi da ogni paese. Elena era socievole, apprezzava gli incontri, gli scambi, i dibattiti, ma fin dalla fanciullezza aveva mostrato un temperamento riflessivo e inclinazione per una vita austera e sobria. Rifiutando il matrimonio, anche quando venne chiesta in sposa da un principe tedesco, Elena Lucrezia sigillò la sua consacrazione agli studi e a una vita aliena dalla mondanità, dedita al sapere e alle opere di carità, divenendo oblata benedettina: fece voto di castità, aggiunse ai suoi nomi quello di Scolastica – la sorella di san Benedetto –continuando a vivere liberamente nella sua casa, in abiti normali, indossando sotto ad essi uno scapolare di lana nera, simbolo della veste benedettina.
Esortata dal padre e dai suoi maestri, chiese al Collegio dell’università di Padova di essere ammessa all’esame per il conferimento del Dottorato in teologia. «Universa universis patavina libertas»: ispirandosi al proprio antico motto, il Collegio si era orientato in senso favorevole, già predisponendo i necessari adattamenti al cerimoniale, tra i quali la consegna del libro chiuso, invece che aperto, a indicare che l’insegnamento della teologia restava precluso alle donne. La condizione di donna fu però un ostacolo insormontabile. Il vescovo di Padova, cardinale Gregorio Barbarigo, che, in quanto tale, era anche Cancelliere dell’università, si oppose alla richiesta nella maniera più netta e non senza espressioni ironiche. Dopo molte insistenze, alla fine venne adottata la soluzione di un Dottorato non in teologia, ma in filosofia, e restrittivamente tale. Così fu: la candidata venne dichiarata: «magistra in philosophia tantum». Aggregata al Collegio dei filosofi e dei medici dell’università patavina, l’anno stesso Elena fu esaminatrice per una laurea in filosofia. Dopo un breve rientro a Venezia, Elena Lucrezia visse poi a Padova, fino alla sua prematura morte (in concetto di santità) avvenuta per tubercolosi il 26 luglio 1684, venendo tumulata nella locale abbazia benedettina di Santa Giustina. Dopo i fulgori della fama in vita, su Elena calò ben presto l’oblio, salvo la ripresa di interesse manifestatasi di recente in occasione del terzo centenario della laurea. Di lei non restano molte tracce. Una raccolta dei suoi scritti poetici e letterari fu pubblicata a Parma nel 1688. Una statua – voluta da Caterina Dolfin – la ricorda al Bo’, il Palazzo principale dell’università, a Padova; un suo ritratto si trova alla Pinacoteca Ambrosiana a Milano; una vetrata policroma la ritrae al Vasser College, la prima università femminile negli Stati Uniti, e, su iniziativa di Ruth Crawford, ivi laureatasi, un affresco è a lei dedicato all’università di Pittsburg. Ma Elena Lucrezia resta uno straordinario simbolo ed esempio di libertà e autorevolezza femminile che, pur non potendo sovvertire tutte le regole sociali allora esistenti, varcò per tutte la decisiva soglia del riconoscimento della capacità della donne di pensare e di docere, di insegnare ad altri, uomini o donne che siano, non solo in singole discipline, ma affrontando con la forza dell’intelligenza la questione filosofica della conoscenza stessa e della totalità del senso della realtà.
Decisivo il ruolo delle donne
Decisivo il ruolo delle donne nell’emergenza coronavirus.
Abbiamo apprezzato il lavoro eccellente delle tre ricercatrici dello Spallanzani che sono riuscite in poco tempo a isolare il virus in laboratorio.
Grande considerazione hanno avuto le dichiarazioni della virologa Ilaria Capua.
Notevole attenzione è stata riservata alla dottoressa Gismondo, direttrice del laboratorio di Microbiologia clinica del Sacco di Milano.
Brave!
“Qui una donna non può avere un cane”. Sahba Barakzai piange così il suo Aseman. Un cane husky ucciso la settimana scorsa appena fuori Herat, Afghanistan occidentale.
Venerdì la ragazza era in giro con la sua famiglia a portare a passeggio il cucciolo, un gesto che per noi può risultare banale e quotidiano. Ma non in Afghanistan, appunto.
Un gruppo di persone è spuntato dagli alberi ha sparato contro il cane. Sahba ha implorato loro di risparmiarlo, ma invece sono stati esplosi altri quattro colpi.
Una foto pubblicata dalla BBC ritrae la giovane con il suo Aseman senza vita tra le braccia. Il commando le ha intimato di lasciarlo dov’era. “Una donna non può avere un cane”, le hanno detto. Così alla donna non è restato che allontanarsi.
Dal Web
In dirittura d’arrivo il Quaderno dell’8 Marzo 2020
Beatrice Lento
CATERINA Quaderno dell’8 Marzo 2020
#Distillandoessenzediumanitá
sos KORAI & Caffo
Cari Amiche e Amici FB, sono lieta di parteciparvi l’evento di celebrazione della Giornata Internazionale Della Donna che sos KORAI realizza assieme alla prestigiosa Distilleria Caffo in partenariato con LaboArt, trascorreremo un pomeriggio speciale grazie a CATERINA: terzo Quaderno dell’8 Marzo, straordinaria raccolta di storie di donne. Donne che intrecciano fili per tessere le trame preziose della vita. Saranno con noi l’Antropologo Vito Teti, il Duo Calypso di Lucia Quattrocchi e Caterina Timpano e gli attori Noemi Di Costa e Roberto Chiodo.
Non mancate, CATERINA vi aspetta, domenica 8 Marzo, ore 17,00, Museo Diocesano Tropea.
Elena Lucrezia Cornaro Piscopia
Di Maria Cristina Bartolomei
sos KORAI con Tropea Capitale della Cultura Italiana
Anche noi di sos KORAI Onlus sosteniamo la candidatura di Tropea a Capitale della Cultura Italiana 2022.
Con gli eventi da noi organizzati daremo il nostro piccolo contributo alla realizzazione di un grande sogno.
E non dimentichiamo che “Se si sogna da soli, è un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia“
sos KORAI con Tropea Capitale della Cultura Italiana 2021
Anche noi di sos KORAI Onlus sosteniamo la candidatura di Tropea a Capitale della Cultura Italiana 2022.
Con gli eventi da noi organizzati daremo il nostro piccolo contributo alla realizzazione di un grande sogno.
E non dimentichiamo che “Se si sogna da soli, è un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia“
Lei… Lei…Lei
«Lei aveva la biancheria intima quella sera?»
«Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?»
«Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans?»
«Se le donne non vogliono essere sfruttare devono smetterla di vestirsi da poco di buono».
Queste sono solo alcune delle domande poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale. Domande insinuanti, melliflue, che sottintendono una verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti. Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi, perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo tropo belle o troppo brutto perché eravamo troppo disinibite e ce la siamo voluta.
“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo.
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te.”
Sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine. La sera, una per volta, noi bambine raccontavamo una storia, le nostre storie. Erano una specie di favole tristi. Non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano.
Ci raccontavamo delle nostre madri: torturate, uccise, violentate. Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme di quelle parole di dolore.
Io amo le parole. Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore. Anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri.
E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana. E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina.
“Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno
Giuro che lo farò
E oltre l’azzurro della tenda nell’azzurro io volerò
Quando la donna cannone
D’oro e d’argento diventerà
Senza passare dalla stazione
L’ultimo treno prenderà”.
Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua tortura.
Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa.
“Sally ha patito troppo
Sally ha già visto che cosa
Ti può crollare addosso
Sally è già stata punita
Per ogni sua distrazione o debolezza
Per ogni candida carezza
Data per non sentire l’amarezza”
Quante volte siamo state Sally? Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, cercò salvezza nella musica. “Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma”, recitava nel suo potente monologo “Lo stupro”, in cui ripercorreva quel fatto drammatico.
Le parole delle canzoni possono essere messaggi d’amore e di salvezza. Io sono diventata la donna che sono perché lo dovevo a mia madre, lo devo a mia figlia che è seduta in mezzo a voi. Lo dobbiamo tutte, tutti, a una madre, una figlia, una sorella, al nostro paese, anche agli uomini, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza. All’idea più grande di tutte: quella di libertà.
Parlo agli uomini, adesso. Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e carrieriste, madonne e puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne. Siate nostri complici. E quando qualcuno ci chiede “Lei cosa ha fatto per meritare ciò che è accaduto?”
“C’è un tempo bellissimo, tutto sudato
Una stagione ribelle
L’istante in cui scocca l’unica freccia
Che arriva alla volta celeste
E trafigge le stelle
È un giorno che tutta la gente
Si tende la mano
È il medesimo istante per tutti
Che sarà benedetto, io credo”