Diritto di voto a Suore e Ragazze

Diritto di voto a Suore e Ragazze

Religiosa delle Figlie di Maria ausiliatrice, suor Alessandra Smerilli ha 43 anni ed è originaria di Vasto (Chieti). Insegna Economia politica ed elementi di statistica alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione “Auxilium” di Roma. Nel 2014 ha conseguito il dottorato in Economia presso la School of Economics della East Anglia University (Norwich, Regno Unito), mentre nel giugno 2006 il dottorato di ricerca in Economia politica presso la Facoltà di Economia della “Sapienza” di Roma. È socia fondatrice e docente della Scuola di Economia Civile e membro del comitato etico di Etica SGR. Ha scritto a quattro mani con Luigino Bruni L’altra metà dell’economia (Città Nuova, Roma 2015) ed è in corso di pubblicazione il volume Carismi, economia, profezia: la gestione delle opere e delle risorse, con l’editrice Rogate.
-Lei è l’unica donna presente nel Comitato delle Settimane sociali e l’ultima edizione (Cagliari, 26-29 ottobre 2017) ha visto un’esigua presenza femminile. Quali attese e spazi di responsabilità intravede per le donne nella Chiesa italiana, oggi? 
Sono profondamente convinta che la Chiesa è meno Chiesa e l’umano è meno umano se le donne non partecipano ai processi decisionali, se non esercitano responsabilità. Non si tratta di occupare spazi o di gestire poteri: questo è molto poco femminile. Ci sono attenzioni, sensibilità, modi di vedere la realtà, attenzione ai processi, che faticano a emergere in contesti prettamente maschili. 
Purtroppo le strutture ecclesiastiche italiane sono molto maschili, e questo genera quello che in economia viene chiamato un processo di selezione avversa: le donne si sentono poco attratte da alcuni ambienti. Ad esempio mi accorgo che le donne più in gamba che conosco, dopo aver provato a dare il proprio contributo all’interno di strutture ecclesiastiche, preferiscono spendere la propria professionalità altrove, dove c’è meno da lottare per essere riconosciute alla pari degli uomini. Nello stesso tempo gli uomini, non sentendosi sollecitati a pensare e ad agire diversamente, senza forse neanche rendersene conto, continuano a perpetuare schemi, modi di fare e di organizzarsi che lasceranno sempre le donne sull’uscio. Credo ci sia bisogno di affrontare serenamente e apertamente la questione, per intraprendere processi che ci rendano tutti più consapevoli dell’urgenza di un cambiamento. Non ritengo che la strada sia quella dell’apertura al sacerdozio per le donne, bensì, come sostiene papa Francesco, di una de-clericalizzazione delle strutture ecclesiastiche. 
-Come è possibile oggi conciliare vita personale e lavorativa? Che cosa consiglierebbe a giovani donne che si affacciano al mondo del lavoro, desiderose di realizzarsi dal punto di vista professionale, senza sacrificare il tempo per sé e per gli altri? 
Il tema dell’armonizzazione della vita lavorativa con quella familiare è oggetto di un fraintendimento: erroneamente, e soprattutto in Italia, nel passato si è considerato quello della conciliazione un problema al femminile, come se solo la donna debba prendersi cura della famiglia. Una cultura aziendale non discriminante dovrebbe invece rendere normale il fatto che sia gli uomini sia le donne possano avere aiuti nel conciliare i tempi di lavoro e quelli della vita familiare.
Fatta questa precisazione, in Italia oggi è molto difficile realizzarsi dal punto di vista professionale senza sacrificare relazioni, affetti e famiglia. E lo è soprattutto per le donne, per le quali la maternità è ancora troppo penalizzante per le prospettive di carriera. Troppe, sono ancora costrette a scegliere tra famiglia e lavoro, ma questa scelta funziona fino a quando i figli sono piccoli e richiedono accudimento a tempo pieno, poi porta a insoddisfazione di vita e penalizza l’espressione delle proprie potenzialità e dei propri talenti. 
Alle giovani donne suggerirei di condividere da subito con il compagno di vita le proprie aspettative lavorative e familiari, o almeno di non scendere a patti sulla suddivisone del lavoro in casa e fuori: «Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio» recita un proverbio africano. Un bambino che nasce è un bene per tutti, e quindi tutti devono occuparsene. Direi che dovremmo passare dall’idea che per poter lavorare le donne debbano sacrificare qualcosa, a un nuovo modo di concepire la società e la realizzazione nella vita. Oggi vediamo come pienamente realizzata una persona che lavora 15 ore al giorno, che non ha tempo per altro, che per svolgere bene il proprio lavoro deve delegare ad altri i suoi impegni e doveri, come il prendersi cura della casa, degli altri, della famiglia. Dovremmo invece tutti comprendere che una persona è meno persona se non si occupa della cura della famiglia e delle relazioni. Un bravo professionista non è una persona eccellente se non sa neanche stirarsi una camicia, se non ha tempo da passare con un anziano o un bambino. E le attività di cura sono beni d’esperienza, ovvero si percepiscono come tali solo quando le si vive. Le donne, che per storia e per sensibilità sono state sempre maestre nell’arte della cura, oggi hanno il compito di insegnarla anche agli uomini: è un compito educativo imprescindibile se vogliamo che qualcosa cambi nella nostra società.

Dal Web

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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