Billie Holiday: la signora del blues
Una storia attualissima e politica, quella di Billie Holiday (raccontata da lei stessa nell’autobiografia del 1956La signora canta il blues, portata al cinema da Diana Ross), mentre gli Stati Uniti continuano a fare i conti col razzismo e razzismo, misoginia e violenze sulle donne imperversano in tutto il mondo
Una storia iniziata a Philadelphia, nel 1915. I genitori ancora adolescenti, la madre Sadie ripudiata dalla famiglia alla notizia della gravidanza, il padre che abbandona entrambe per inseguire una carriera da musicista. Eleanora, questo il vero nome di Billie, viene portata a Baltimora, da una zia, e salta così spesso la scuola che a nove anni finisce al tribunale dei minori. A dieci, rilasciata, va a lavorare in un ristorante con la madre, a undici subisce un tentativo di stupro da parte di un vicino, a dodici pulisce le case del quartiere e sbriga faccende in un bordello. La madre la lascia di nuovo, per trasferirsi ad Harlem; Eleanora la seguirà l’anno successivo. A New York, Sadie lavora come prostituta, Billie, neanche quattordicenne, viene costretta a vendersi per cinque dollari a cliente. Entrambe finiranno in carcere.
«Eravamo la famiglia reale»
Gli amici di gioventù ricordano una ragazzina che imprecava spesso e viveva velocemente. Billie inizia a cantare nei night club di Harlem. Non ha ancora diciott’anni quando viene notata dal produttore John Hammond. Pochi mesi dopo incide i primi singoli, con Benny Goodman, il re dello swing. Un amico la chiama “Lady Day”; Hammond la presenta a Count Basie, leader dell’omonima band. Billie ironizza: «Eravamo la famiglia reale». Rivaleggia con Ella Fitzgerald, col tempo diventeranno amiche. Billie vende, ma è malpagata, le condizioni di lavoro sono orribili. Quando se ne lamenta, viene bollata come capricciosa e licenziata
La segregazione razziale
«Essendo nera, durante le soste ai distributori di benzina non le era permesso utilizzare le toilette» ricorda il batterista Jo Jones. «Almeno noi uomini potevamo andare dietro un albero». Nel 1938, assunta da Artie Shaw, è una delle prime cantanti nere a esibirsi con un’orchestra di bianchi, la prima ad andare in tour nel Sud della segregazione con un’orchestra di bianchi. Sarà un inferno: le impediscono di salire sul palco, il pubblico la fischia, uno le grida “Pu***na negra”. «Nei locali che accettavano di servirla, ordinava sempre un hamburger in più, e lo riponeva nella borsetta. Perché non sapeva quando avrebbe potuto mangiare di nuovo. E quando i colleghi, la sera, rientravano in hotel, lei non aveva dove dormire». Non va meglio a New York City, dove, pur essendo ormai la star delle serate, è costretta a usare gli ascensori di servizio, entrare e andare via dalle cucine, non può sedersi al bar
La droga come rifugio
Saranno anche queste mortificazioni a spingerla, nel 1939, a incidere Strange Fruit, canzone di protesta contro il linciaggio dei neri. L’etichetta discografica di Holiday ritiene il testo troppo controverso. Lei la inciderà altrove e, anche se le radio inizialmente rifiuteranno di passarla, col tempo diventerà uno dei sui singoli più venduti. Il settimanale Life scrive di lei: «Ha uno stile più originale di qualsiasi altra cantante». Intanto la madre, sfruttandone il nome, apre un ristorante. Billie la finanzia, ma resterà senza una lira, e quando sarà lei ad aver bisogno, la madre non le darà un centesimo. Nel 1946 inizia a girare il film New Orleans, con Louis Armstrong. La produzione subisce enormi pressioni per ridurre i ruoli dei due artisti di colore, e alla fine molte scene di Billie vengono tagliate. È in questo periodo che la sua dipendenza dalle droghe si acuisce. Guadagna più di mille dollari a settimana, ma li spende quasi tutti in eroina. La rifornisce l’amante, nascondendo la droga nel collare del suo cane.
Sbagliato ridurla a vittima
Co-prodotto dagli eredi, il film non edulcora gli eccessi della Holiday. La stessa Kuehl detestava l’idea di ridurla a una vittima. Billie amava il sesso, la vodka, i soldi e la celebrità. Fosse stata un uomo, nessuno avrebbe avuto da ridire. Orgogliosa, determinata, gattamorta, rivoluzionaria e vulnerabile. Allo stesso tempo, il film accende un faro sul panorama di sfruttatori e molestatori che ne segnarono la vita. Mariti e amanti che la picchiavano anche in strada, agenti dell’Fbi che la perseguitavano perché era nera,ricca e osava ribellarsi.Una sera,a Philadelphia,agenti della narcotici le misero a soqquadro la stanza d’albergo, crivellandole di colpi l’automobile. Dai rapporti dell’Fbi emerge chiaramente come l’obiettivo fosse screditarla perché servisse da monito per la popolazione nera. «I suoi diamanti, i suoi abiti eleganti, le sue Cadillac generavano risentimento». Nel 1947, all’apice del successo, l’arrestano per possesso di droga. È condannata a un anno e spedita in carcere nel West Virginia. Per tutta la detenzione non vorrà più cantare un verso. Quel che è peggio, la condanna le impedisce, una volta tornata in libertà, di esibirsi nei locali che servono alcolici, obbligandola, per mantenersi,a tour e concerti infiniti che la debiliteranno. Nel 1949 viene arrestata di nuovo. La sua salute inizia a declinare, anche la voce ne risente. Intanto, sul lavoro, continuano a truffarla. Nel 1958 i suoi diritti d’autore ammontano ad appena 11 dollari. L’anno dopo le viene diagnosticata la cirrosi. Viene ricoverata, ma l’Fbi la fa arrestare un’altra volta. La ammanettano al letto d’ospedale, mettono un poliziotto a sorvegliarla. Morirà il 17 luglio, a 44 anni. In banca ha solo 70 centesimi. Una volta chiesero a Billie perché molti grandi del jazz morissero giovani. Lei rispose: «Perché viviamo cento giorni in uno»
Dal web Io Donna