Cesara

Cesara

Cesara

Sono Cesara e alcuni amici mi chiamano Cesarina. La mia vita è stata un’avventura, si potrebbe scrivere un romanzo, anzi tanti romanzi. La mia famiglia era molto povera, mamma mia era casalinga e papà ma-

rinaio ed anche musicista, suonava il Bombardone, è stato anche in Argentina a fare spettacoli.

Con mia madre andavamo a faticare in campagna da quando avevo 8 anni. Una volta venne un temporale fortissimo, eravamo a Brattirò, la mamma aveva una giacca vecchia dei miei fratelli e con quella ha allargato le spine e mi ha fatto mettere sotto per proteggermi dai fulmini. Lì noi andavamo a portare i pesci e loro in cambio ci davano ceci, fagioli, farina. Tante volte andavamo dalla zia Lucrezia, verso la zona del Campo, a raccogliere fichi e poi sulla collina a vendemmiare. In testa mi mettevano fino a 50 chili d’uva e un medico che mi conosceva diceva sempre:«Chi fimmina, sì na diavula». Ero una bella ragazza. Facevo pulizie a tutti, serva di tutti, chi aveva bisogno mi chiamava.

A 22 anni sono andata in Argentina per cercare di cambiare vita, ero poverina. Mi chiamò l’uomo che avevo sposato per procura un anno prima, lui era di San Costantino ed io lo conoscevo perché sua sorella aveva sposato mio fratello.

Quando ho fatto il matrimonio, per la festa abbiamo tolto da casa il letto matrimoniale per avere un pò di spazio. Mio fratello Antonio mi portò nella chiesa del Rosario con l’abito bianco che mi aveva prestato una parente, era il 1952, eravamo in pochi, gli intimi. Il viaggio per andare dal marito lo feci da sola, mio fratello mi affidò a certi amici. Quando andavo a prendere la nave, la mia valigia di cartone, pure se era legata con lo spago grosso, si aprì e cadde a terra tutto quello che c’era: due lenzuola, due cami- cie da notte, due vestiti, la biancheria intima…lo stretto necessario, avevo di tutto un solo cambio. Sulla nave sono stata male per tutto il viaggio, ero sempre a letto, ero sola con una ragazzina che i genitori mi avevono dato a Genova per guardarla ma lei andava sempre in giro, non riuscivo a tenerla controllata, stavo così male che due volte mi portarono nell’ospedale della nave.

C’erano degli uomini che mi infastidivano quando mangiavamo, io lo dissi al comandante e lui mi spostò di tavola. A Buenos Aires trovai una casa tre metri per cinque, senza bagno e senza cucina. Il letto era di una piazza e mezza e c’era un tavolo piccolissimo. Che potevo fare ormai? Il marito mi disse: «Per poco ci arrangiamo qui». A pranzo andavamo a mangiare da una zia e poi mi ritiravo.

Sono rimasta incinta subito, dopo é nata una bambina di sei chili e seicento grammi, uscì sui giornali. C’era

bisogno di un cesareo ma in quell’ospedale non c’era niente, ero tra la vita e la morte. Ho avuto un’emorragia e sono rimasta assai ricoverata, mi hanno lacerata tutta. La bambina é vissuta dieci mesi, piangeva sempre, notte e giorno, era sofferente per quel parto, era bella, figlia mia, Caterina si chia- mava, come la suocera.

Poi rimasi di nuovo incinta di un altro figlio, Carletto, un nome che piaceva a mio marito. A sei mesi gli è venuta la polio- mielite, tanti si ammalavano così, é vissuto quindici anni. Dopo é nata la seconda, Caterina.

Non avevo carrozzella, li portavo in braccio i figli. Io arrivai a un punto da dover cercare da mangiare, mio marito era sempre malato. Andavo ad un centro per i poveri, andavo con Carletto in braccio. In Argentina ho conosciuto tante donne e tanta povertà. Io, anzi, avevo la possibilità di bere il latte la mattina ma vicino a casa mia c’era una bambina che il latte non ce l’aveva, allora di nascosto gli davo il mio e quando mio marito mi chiedeva se lo avevo bevuto dicevo di si e con la mano facevo finta di asciugarmi la bocca. Di bello dell’Argentina non ricordo niente, mi mancava l’aria. Io di cose belle me ne ricordo poche, anche a Tropea: non sono mai andata ad una festa vera, non sono andata neanche a mare se non qualche volta, quand’ero giovane, mi facevo il bagno con un vestito lungo, lungo. Ho incontrato anche una contessa di Roma e sono andata a farle le pulizie. Carletto me lo portavo dietro e lo legavo perché si muoveva troppo.

Mi trattavano benissimo, erano ricchi e buoni ed io ero sempre umile e semplice. Poi ho lasciato la casa corridoio grazie all’aiuto di uno zio, fratello di mia madre, figlio naturale non riconosciuto di un signore ricchissimo che comunque lo aiutava. Era bravissimo e bellissimo lo zio, aiutava tutti, portava anche le sigarette ai carcerati. Lui mi trovò una casa decente ma i servizi erano sempre in comune.

Incominciavamo a migliorare ma mio marito peggiorava in salute e al lavoro erano più i giorni di assenza che faceva, mi sentivo umiliata ad andare continuamente dal datore di la- voro, ogni volta non faceva altro che criticare. Non capivano che malattia avesse, in realtà era un male grave ai reni tanto che andò in dialisi. Dopo alcuni anni ci hanno rimpatriato perché mio marito non poteva più lavorare e non avevamo di che vivere.

Al Consolato c’era un uomo tanto buono, si chiamava Greco, che si prese di pietà e ci aiutò a prendere la pensione. Gli arretrati erano un bel gruzzoletto e ci sentivamo tranquilli ma a un certo punto occorrevano dei controlli per mantenere la pensione d’invalidità, a Tropea non siamo riusciti a farli perché avevano perso dei docu- menti e la pensione non l’abbiamo più avuta. Mio marito era ormai in dialisi e voleva morire ma io gli stavo sempre vicino a curarlo, non lo lasciavo mai, ero sempre con lui. Con gli arretrati della pensione comprai un negozio ed era tanta la voglia di concludere che ho dato subito i soldi alla pro- prietaria. Il giorno dopo lei se ne era dimenticata ma per fortuna poi la memoria le ritornò. Era un negozio di frutta e verdura.

Per risparmiare andavo a raccogliere erbe e origano, avevo le mani sempre bucate. Raccoglievo anche arance e tante volte me le regalavano o me le facevano pagare poco Mi arrampicavo sugli alberi, nelle scarpate, nei burroni, raccoglievo, raccoglievo e così guadagnavo qualcosa. Prima abitavamo con mia madre e poi con l’aiuto di un sacerdote siamo passati al palazzo del Vescovo.

Lavorando ho aggiustato quella casetta che era molto malandata. Anche se ero poverina in quel appartamento mi sono venuti i ladri: era notte, sento uno «scruscio» e di colpo vedo scendere gente dalla finestra, due persone, ero coricata, sono stata zitta, zitta sino a quando hanno rubato tutto, un pò di soldi, il mio poco oro, una penna d’oro che avevano regalato a Caterina per la Comunione, poi se ne sono usciti dalla porta principale.

Lì sono stata tanti anni poi dovevano aggiustare l’appartamento e me e sono andata. Sono passata nella casetta del «Borgo a Basciu» dove vivo anche ora e l’ho pagata un poco alla volta perché il proprietario mi voleva bene e mi volle aiutare dicendomi di dargli i soldi come li avevo. Io non volevo accettare perché sapevo di non poter pagare subito ma lui ha insistito tanto. Ho comprato anche un’altra casetta, mio marito non voleva ma io l’ho presa lo stesso e l’ho pagata un poco alla volta. I figli si sono sposati ed ho dei bei nipotini.

Dimenticavo: quando sono tornata dall’Argentina ho avuto un altro figlio che abbiamo chiamato Nicola. Dopo un poco dalla sua nascita Carletto si ammalò ed io lo portai a Napoli in un Istituto di ragazzi paralizzati. Lí Carletto mio é morto ed io me lo sono portato al cimitero di Tropea.

I miei nipotini sono: due di Caterina e tre di Nicola. Da bambina vivevo in una casa di fronte al mare e sono felice di vivere anche oggi in una casa che guarda l’Isola. Quando mi affaccio dal balconcino mi ricordo la mia infanzia.

Mi ricordo quando con mia madre andavamo a piedi, da un viottolo, a Sant’Angelo a lavorare in campagna dagli zii. Mi ricordo che eravamo in otto: quattro fratelli e due sorelle, più i genitori, tutti in una camera. Un giorno a casa cadde il terrazzo, mio padre si salvò per divino miracolo e mia madre per coprire la parete rotta mise una tenda e moriva- mo dal freddo.

Quante ne ho fatte nella vita mia! Facevo punture a tutti, vestivo i morti, quanti ne ho lavati e vestiti, con le mani nude, mai i guanti, li rispettavo i morti, avevo pietà e non schifo, per amicizia, mai per soldi, a volte qualcuno mi faceva un regalo. Ho fatto tante conoscenze, anche gen- te ricca che mi lasciava le chiavi di casa per fare le pulizie, tutti si fidavano di me, mi dicevano: « Cesarina sei pulita, ordinata, onesta». Ero di salute, mi coricavo vicino ai malati, li assistevo e non mi contagiavo mai, bevevo anche nel loro bicchiere. «Conzavo» i letti «cu gruiu» che forza ci voleva!. Ho fatto l’operaio, il muratore, il falegname, anche in Argentina, partivo col figlio paralizzato, dormivamo per terra, nei cartoni, ci mangiavano i moscerini, raccoglievo pietre e facevamo impasti con cemento e legni. « Chi mugghieri bella che avete trovato, bella, forte e lavoratrice» così dicevano a mio marito.

Io a lui non l’ho mai sottovalutato, pure se era malato, per lui compravo anche i gamberoni e glieli cucinavo quando li desiderava. Mio marito mi ha lasciato sempre libera, aveva piena fiducia, ogni donna deve sapersi guardare. Una volta uno mi mise la mano sul braccio…«u fici- iii». Se a un marito lo tradite di nascosto é una vergogna, bisogna essere oneste e sincere. Posso camminare a testa alta, non ho mai sbagliato!

Mi dispiace che non ho studiato, questo mi dispiace. Mia madre aveva un’amica professoressa, io le facevo tutte le pulizie senza pagarmi e mia madre le chiedeva di farmi un pò di scuola ma lei non l’ha fatto mai, non erano buoni, non mi hanno mai dato neanche un pezzo di pane. Io ho imparato a leggere e a scrivere, più a leggere veramente, da sola, e così sono rimasta «ciuccia».

Aiutavo anche la famiglia del giudice Naso, avevano un figlio paralizzato, molto intelligente, mi voleva molto bene, siamo rimasti amici per tutta la vita, anche la figlia dottoressa mi ha voluto bene, tantissimo, fino alla sua morte.

A una signora ho tenuto le chiavi per 49 anni, gliela facevo trovare pulitissima, quando era bel tempo mettevo persino i mate- rassi al sole perché c’era umidità. Erano generosi, soprattutto il marito che una volta mi regalò cinquantamila lire e mi disse:«Non dirlo a Lucia» Lucia era la moglie. Purtroppo il signore si é buttato dal terzo piano ed è morto, perché scoprì di avere un male incurabile, ed io gli ho fatto dire tante mes- se di suffragio. La signora Lucia non era cattiva ma aveva un carattere troppo pesante, se la faceva con me perché io ero una bonacciona, ero molto umile anche perché così ti fa diventare la pezzenteria.

Una volta la signora mi confidò un segreto, io lo tenni nel mio cuore ma alcune sue amiche a cui l’aveva detto parlarono. Lei se la prese con me, mi accusò di averla tra- dita, sospettava di me perché ero poveretta mentre le amiche erano ‹gnure. Restai malissimo. Dopo una settimana venne a chiedermi perdono perché aveva scoperto che il suo segreto lo avevano messo in piazza le amiche, ma io quella volta non riuscì a perdonare e le sue chiavi non le volli più. Io non sono mai stata traditora, ho messo sempre la buona parola.

Un giorno una ragazza voleva lasciare il marito ed io l’ho convinta a non farlo le ho detto:«Fidati di questa vecchia, non lo lasciare» e lei si é fidata. Ho fatto anche le pulizie a Donna Clotilde, la mattina presto mi chiamava:«Cesarea,

teni i chiavi e fammi i servizi» Quando tornava dal negozio mi portava un panetto di pane enorme e mi diceva :«Mo, si voi, ndi cucinamu e mangia- mu nsemi» Facevo le pulizie anche al Teologo e Peppina, sua sorella, mi diceva:«Non consumari sapuni, strica cu curteu»

Facevo le pulizie anche al Vescovo e una volta che aspettava ospiti da Napoli, dopo che ho pulito tutto, ho messo anche, per bellezza, i tappeti di mia figlia, nuovi, che si doveva sposare, quando l’ha saputo mi voleva ammazzare.

La mia vita é stata questa, sempre in giro a faticare, é stata dura ma anche bella perché ho avuto e ho tanti amici che mi vogliono bene e una bella famiglia. Mio marito era un uomo buono e mi ha sempre rispettato. Oggi sono serena e mi piace ripensare a tutto quello che ho passato anche se tante cose no, tante cose non me le ricordo più.

Cesara Tropeano Storia raccolta e trascritta da Beatrice Lento

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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