LE CALABRESI TACIUTE: LE DONNE PARTIGIANE tra loro anche due tropeane

LE CALABRESI TACIUTE: LE DONNE PARTIGIANE tra loro anche due tropeane

LE CALABRESI TACIUTE: LE DONNE PARTIGIANE 

Tra di loro anche due tropeane 

Le “Calabresi Taciute”, dimenticate, finite nell’oblio anche nei loro paesi d’origine, di cui sto per parlarvi, sono le donne partigiane, le donne che hanno scelto di impegnarsi nella Resistenza contro il nazifascismo a prezzo di sacrifici enormi e non di rado della vita.

Perché taciute? Perché la storia é scritta dai vincitori e, dominando la cultura patriarcale, nei confronti delle donne é colpevolmente distratta, pensiamo alle tante opere di valore realizzate dal genere femminile, nel campo delle scienze e delle arti, dolosamente attribuite ai rispettivi mariti, compagni, fratelli, padri, e poi, ad essere mortificato con la disattenzione e col pregiudizio, non di rado, é tutto il sud d’Italia, considerato apatico e passivo. 

Oltretutto le donne non sono state mai considerate in grado di contrastare attivamente la guerra essendo forte Il cliché  dell’essere femminile fragile, vanitoso, instabile, volubile, buono solo a sposarsi, a fare figli, a servire, a decorare i salotti. Una concezione lesiva della dignità della donna che ha cagionato molte discriminazioni anche in tempi recenti. Fino al 1963, per esempio, esisteva il divieto di accesso ai concorsi per magistrato e proprio con questa assurda motivazione. “La donna” sosteneva, tra i tanti, Eutimio Ranelletti “é fatua, é leggera, é superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta …quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti.” Da ricordare, a questo proposito, l’on.le Teresa Mattei, coautrice di un emendamento volto ad abolire l’assurdo limite, che, a chi le chiedeva:” Signorina ma sa che in certi giorni del mese le donne non ragionano?”, rispondeva:” No, ma so che molti uomini non ragionano tutti i giorni del mese.”

Molte ragazze diventarono partigiane e vollero imbracciare le armi proprio per un impeto di emancipazione, per distruggere gli stereotipi dell’angelo del focolare e della crocerossina, ma ci furono anche tante partigiane che rigettarono le armi scegliendo di operare su altri fronti, rifiutarle significò, per loro, volersi impegnare, con forte coerenza, in una guerra alla guerra. Il loro modo di intendere la lotta si tradusse in un impegno pacifista che, dopo la liberazione, prese forma, nell’aula di Montecitorio, nell’inserimento del ripudio della guerra nella Costituzione.

La Resistenza delle donne, calabresi e non, fu un quadro variopinto in cui donne armate, che non esitano ad uccidere, coesistono con donne che rifiutano le armi anche se quella lotta voleva dire respingere un invasore straniero, contrastare la ferocia nazifascista, lottare per un futuro migliore in cui sarebbero stati garantiti i diritti umani e l’emancipazione di entrambi i generi. Per comprendere appieno la storia delle partigiane, sia calabresi  che di altre regioni, occorre tener presente il contesto di riferimento: uno sfondo culturale  sicuramente misogino.

Il fascismo reputava la donna un essere insignificante, fragile, privo di dignità, una macchina deputata al mantenimento della specie, pensiamo ai riconoscimenti che il duce elargiva alle madri prolifiche, all’esclusione delle donne dall’insegnamento di molte discipline considerare strategiche, come lettere, storia e filosofia, e alla doppia morale che, con il Codice Rocco, considerava lo stupro delitto contro la morale e non contro la persona, prevedeva il delitto d’onore e il matrimonio riparatore. A tal proposito non possiamo non rendere omaggio a Franca Viola che, agli inizi degli anni ‘60, per prima, in Sicilia, poco più che diciottenne, respinse il matrimonio riparatore, e al cittadino illustre di Tropea, il Procuratore della Repubblica di Palermo, Pasquale Lo Torto, che, con le sue arringhe, contribuì al cambiamento culturale che portò all’abrogazione del delitto d’onore nel 1981, molto dopo la soppressione del reato d’adulterio, avvenuta nel 1968, e della riforma del diritto di famiglia datata 1975.

I partiti di sinistra, dal canto loro, non esitarono a vietare alle partigiane di sfilare dopo la liberazione perché volevano apparire come forze  politiche credibili e consideravano criticabile esibire la forza e il coraggio femminili, ci poteva essere una deroga solo per le ragazze che partecipavano senza armi o vestite da crocerossine e quindi si conformavano all’immagine tradizionale della donna per bene. 

La stessa famosissima canzone, simbolo della resistenza, ancor oggi cantata e considerata bandiera di libertà e di emancipazione, anche da tante donne, “Bella ciao”, in realtà, subdolamente, ha diffuso e diffonde l’idea che il maschio, intrepido e coraggioso, andava a combattere mettendo a rischio la salute e la stessa vita mentre le donne, capaci solo di essere belle, restavano a casa, al sicuro. 

In un film documentario di Liliana Cavani, “La donna nella resistenza”, una partigiana osservava:”Alla sfilata non mi hanno fatto partecipare, per fortuna che non sono andata, la gente, vedendo passare le mie compagne, diceva che erano delle donnacce.”

Donne calabresi partigiane ce ne sono state ma il loro impegno si svolse fuori dalla Calabria, nei luoghi in cui vivevano con le famiglie, spesso emigrate per mancanza di lavoro o perché ostacolate dal loro atteggiamento antifascista. 

Ho fatto ricerche accurate alla Biblioteca Regionale Calabrese di Soriano e all’ANPI e mi sono confrontata con storici, la ragione di questo dato sta sicuramente nei tempi della liberazione dal nazifascismo che in Calabria, e al Sud in genere, avvenne molto prima che nel resto d’Italia. Le loro storie sono molto simili a quelle delle partigiane d’ogni altra parte della nazione. 

Intanto non era mai successo prima che le donne entrassero in scena, da protagoniste, così numerose e di ogni condizione sociale. Sono “donne comuni” si legge sui libri, donne che, in larghissima parte, non si erano mai interessate di politica, vengono dalle campagne, dalle città, dalla borghesia, dalle classi umili, sono contadine, operaie, casalinghe, professioniste, senza istruzione, col diploma, con la laurea. 

L’opera femminile inizia nelle settimane che precedono l’armistizio e si rafforza dopo l’8 settembre. Si realizza un maternage di massa, tantissimi soldati allo sbando, per non finire nelle mani dei nazisti, vengono nascosti, sfamati e rivestiti per non essere riconosciuti. Le partigiane diventano anche moderne Antigone comprendo con lenzuola le vittime, tentando di ricomporre e pulire i loro corpi, sotterrando i poveri resti degli impiccati, dei fucilati, dei torturati, sottraendoli allo scherno a dispetto dei mitra puntati….a rischio della vita. Le tombe degli uccisi erano sempre adorne di garofani rossi e il due novembre del ‘44, in tutti i cimiteri, furono coperte di fiori e di messaggi politici sempre dalle partigiane, quale sfida aperta agli occupanti. 

Le partigiane furono protagoniste di molteplici azioni di lotta, gli unici indizi della loro ribellione erano i pantaloni e la sigaretta. All’epoca i pantaloni erano considerati roba da donnacce e fumare, soprattutto all’aperto e in luoghi pubblici, era una trasgressione forte, un piccolo, grande manifesto di libertà.

Una partigiana racconta che, nel gelido inverno del ‘44, dai vertici politici e miltari era arrivato l’ordine di non indossare i pantaloni, non perché potevano essere riconosciute ma per decenza.

Le partigiane parteciparono a vendette e ritorsioni, tra queste ci fu anche il compito di rapare a zero le donne che andavano coi tedeschi, per esporle al pubblico disprezzo, a discriminazioni e ad azioni violente. Una missione carica di autolesionismo di genere forse richiesta alle combattenti nella resistenza con uno sfondo di sadismo verso la donna, le partigiane caddero nella trappola accanendosi contro donne come loro, povere sventurate spinte dalla miseria.

Le resistenti furono anche promotrici di scioperi, fecero propaganda, nascosero sul proprio corpo e nelle carrozzine, con inesistenti neonati, documenti, armi, esplosivo. Diventarono infermiere, informatrici, portaordini e imbracciarono le armi. Insomma non furono solo staffette come certa storia vuol fare intendere per sminuirle, dimenticando, tra l’altro, che fare la staffetta non era compito da poco ma esponeva al rischio di violenze, di torture ed anche della stessa vita. 

In realtà per le partigiane non é stato facile perché spesso non erano ben accette neanche dai compagni ed erano biasimate dal giudizio del mondo. Per la società del tempo la promiscuità era tabù. Per tale ragione le donne pagarono un prezzo molto più alto degli uomini perché gettarono alle ortiche la reputazione, l’onore, la presunzione di verginità che allora era un bene primario. Eppure le partigiane superarono quel pregiudizio e addirittura lo usarono a beneficio della lotta. Tante missioni furono compiute lasciando credere di essere delle poco di buono che andavano a incontrare l’amante o, addirittura, il cliente.

Per molto tempo le partigiane hanno taciuto le difficoltà vissute anche perché i compagni erano comunque maschi e quindi imbevuti della mentalità patriarcale del tempo. I partiti di sinistra temevano che la presenza delle donne li facesse apparire sovversivi e, volendo mantenere una facciata di rigore, alcune formazioni non accettavano donne. Tra tutti i pregiudizi contro la donna il più pesante era quello della loro debolezza sia fisica che morale. Per questo motivo le partigiane volevano dimostrare di essere come gli uomini. Anna Cinanni, nome di battaglia Cecilia, di Gerace, emigrata a Torino con la famiglia, operaia alla Venchi Unica riferiva:”Mio fratello mi ha sempre detto di ricordarmi che non sono una donna ma una comunista che combatte per la Resistenza.” 

Il mascheramento della femminilità e la mascolinizzazione sono il prezzo pagato dalle partigiane, a volte questo meccanismo inconscio di difesa interviene ancora oggi in molte donne che occupano posizioni di rilievo nella politica, nel lavoro e nel sociale. 

Altra problematica, spesso taciuta, quella delle violenze sessuali subite; in un contesto in cui lo stupro veniva considerato come reato contro la morale le donne preferivano nascondere piuttosto che essere bollate con la frase:”Te la sei andata a cercare!” o, addirittura, condannate perché non si erano difese abbastanza preferendo farsi ammazzare piuttosto che subire la violenza, in questo la retorica comunista si confondeva con quella fascista.

Dopo il 25 Aprile tanti padri, mariti, fratelli, figli ricominciarono a brontolare se le donne di famiglia andavano alle riunioni o al sindacato, se le camicie non erano stirate, se il pranzo non era pronto e la casa non era in ordine. Il fascismo era finito ma il patriarcato rimaneva, questo “fuoco amico” fu veramente doloroso. Alcune si fecero piccole perché avevano capito, e a caro prezzo, che se sei femmina devi stare in secondo piano, devi tacere, non devi metterti in luce rispetto al maschio altrimenti perderai l’amore della famiglia, del tuo compagno oppure resterai sola o sarai emarginata e comunque la pagherai. 

Paradossalmente il 25 Aprile segnò, per molti versi, la fine di un vertiginoso sogno di libertà delle donne anche se molte  non ci stettero e continuarono la propria battaglia di liberazione nei partiti, nei sindacati, nelle amministrazioni pubbliche, a livello locale e nazionale. Queste donne proseguirono la lotta non solo per la libertà ma anche per un’Italia diversa e per i loro diritti civili e sociali.

I numeri ufficiali della Resistenza al femminile  parlano di 4653 donne arrestate, torturate e condannate, di 2750 deportate nei campi di concentramento nazisti e di 623 fucilate o morte in combattimento. A loro furono conferite 16 medaglie d’oro al valor militare e 17 d’argento. Si tratta di numeri in difetto anche perché molte donne non rivendicarono il proprio status perché ritenevano di aver fatto semplicemente il proprio dovere o perché segnate da eventi traumatici.

Caratteristica fondamentale della Resistenza delle donne fu il suo carattere collettivo, l’avere per protagoniste non alcune creature eccezionali ma vaste masse appartenenti ai più diversi strati della popolazione. Molte di loro erano bambine e furono segnate per sempre dalla guerra, dalla violenza, dalla fame, dalla paura. Saranno proprio loro a rimettere in piedi un Paese uscito dalla guerra, a renderlo più democratico, capace di spingersi verso una cultura di parità, uguaglianza, rispetto degli altri, verso un mondo di pace. 

I nomi di alcune partigiane calabresi si conoscono, di altre il ricordo si è perso anche nei paesi d’origine.

Anna Cinanni di Gerace, sorella di Paolo, che subì ripetute sevizie in carcere e superò i posti di blocco con le borse piene di volantini; Caterina Tallarico di Marcedusa, sorella del noto Comandante Federico, detto “Frico”, che, appena laureata in medicina, salì in montagna, diventò medico nella brigata del fratello e curò non solo i partigiani feriti ma anche i tedeschi e i fascisti prigionieri; Giuseppina Russo di Roccaforte del Greco che fece l’operaia a La Spezia, seguendo il marito, e, da organizzatrice di scioperi, passò ad imbracciare le armi e divenne, nel ‘43, la responsabile della cellula comunista del comitato sindacale clandestino; Anna Condò, staffetta tra il Piemonte e la Liguria che aveva lasciato Reggio Calabria dopo la sospensione dal lavoro dei genitori non allineatisi alla Repubblica Sociale Italiana. La più famosa tra tutte é sicuramente Teresa Talotta  Gullace di Cittanova alla cui vicenda si é ispirato Rossellini per il personaggio di Pina, interpretato da Anna Magnani, nel film “Roma città aperta”. Teresa, madre di cinque figli, incinta, non esitò ad andare dal marito imprigionato dai nazisti per dargli conforto e, mentre invocava la sua liberazione nel contesto di una rivolta venne uccisa da un soldato tedesco. Teresa fu l’unica donna ad essere sepolta tra i caduti della Resistenza e, nel 1995, Poste Italiane le dedicò un francobollo nell’ambito delle donne nella seconda guerra mondiale.

Come tropeana sono orgogliosa di ricordare due partigiane native di Tropea e che a Tropea trascorsero gran parte della loro vita, si tratta delle sorelle Tocco, Bice, nome in codice Beba, e Maria, figlie di Ignazio Tocco e di Aurora Scrugli. Le sorelle Tocco vivevano, con la famiglia d’origine, a Torino dove il padre era ufficiale dell’esercito. Entrambe fecero le staffette sulle montagne del Piemonte ed anche il fratello Antonio fu partigiano. Spero di poter riprendere e completare con maggiori dati la loro meravigliosa avventura di libertà.

Un contributo al riscatto alla memoria delle partigiane fu reso dall’Udi, Unione Donne Italiane, associazione nata durante la Resistenza. In essa confluirono i Gruppi di Difesa della Donna, diretti da Caterina Picolao, nati nel 1943 con lo scopo di creare un movimento di massa trasversale in cui le donne potessero unirsi alla luce dell’esortazione contenuta nel foglio di riferimento del movimento, “Noi donne“, che recitava:”Le donne italiane che hanno sempre avversato il fascismo, che della guerra hanno sentito tutto il peso per i lutti, le case distrutte, i sacrifici e le raddoppiate fatiche, non possono rimanere  inerti in questo grave momento”. Grazie all’Udi, la più grande organizzazione per l’emancipazione femminile italiana, che dal 2003 ha preso il nome di Unione Donne in Italia, molte donne raccontarono la loro esperienza di partigiane, pagine bellissime che tuttavia determinarono, nell’immediatezza, solo la conquista del diritto del voto non riuscendo ad incidere sulle altre sfere sociali ed economiche della società.

L’aspirazione ad avere un ruolo pubblico, dopo la liberazione, si scontrò con la società impreparata a quel salto culturale, si fece strada la memoria delle cadute ma per le sopravvissute il giudizio sociale non fu clemente. Lo stesso diritto al voto produsse scarsi esiti. Nel 1946 solo 21 donne, poco più del 3%, furono elette all’Assemblea Costituente, nessuna calabrese. Alle amministrative del ‘46 venne eletta anche una donna legata a Tropea, moglie del marchese Pasquale Toraldo, Lydia Serra, che diventò Sindaca illuminata della città per più di un decennio, guidandola  verso alti traguardi di civiltà 

La storia che seguì é l’attualità che registra disparità salariale, violenza subita, diversa dignità tanto che la donna deve giustificare abbigliamento e comportamento quando viene stuprata oppure affannarsi a dimostrare intelligenza e capacità per non apparire solo bella. 

I pregiudizi misogini persistono e il percorso avviato da quelle valorose non è ancora compiuto. 

Ricordare che quando uomini e donne sono stati insieme, come nella Resistenza, abbiamo vinto credo sia estremamente attuale.

Tropea 14 Gennaio 2023

Beatrice Lento

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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