Lella Costa
Sta girando l’Italia con due spettacoli che aveva già portato in scena, La Traviata e Questioni di cuore, che parlano di temi femminili molto forti. Se li ripropone forse vuol dire che in tutto questo tempo poco è cambiato
No, ma sono contenuti che mi stanno a cuore, indipendentemente dall’attualità. E poi, portando in giro due spettacoli tengo in allenamento i neuroni. Battute a parte, La Traviata, per esempio, parla anche del prezzo che le donne hanno sempre dovuto pagare per il loro talento. E, infatti, le figure, oltre a Margherita Gauthier, sono Maria Callas e Marilyn Monroe. Però, appoggiandomi al romanzo di Dumas e all’opera di Verdi, emergono anche figure maschili bellissime. Alla fine dello spettacolo dico sempre: quando gli sguardi degli uomini si sposano sulle donne non per violare ma per raccontare sono meravigliosi. C’è questa frase di Dumas, che era un ragazzino quando l’ha scritta, aveva poco più di vent’anni, che per me è bellissima: «Non ho mai più disprezzato una donna alla prima impressione». Ecco, credo che andrebbe insegnato alle elementari.
Questioni di cuore, invece, è tratto dalle lettere e dalle risposte della posta del cuore di Natalia Aspesi.
Una donna straordinaria che riesce a ritrarre l’Italia in modo sublime. È uno spettacolo particolarmente riuscito, è un peccato non riproporlo.
Sarebbe interessante fare una sorta di educazione sentimentale sia per uomini che per le donne.
Sicuramente, anche perché sembra che facciamo sempre più fatica a difendere le tre o quattro cose che abbiamo imparato e conquistato negli anni.
Cosa pensa del #metoo italiano?
Che sia stato una cosa importantissima, ma che, purtroppo, non sia passato oltre la categoria di donne intelligenti, brave, sincere e autentiche che fanno parte di quella che è considerata l’elite (e in un certo senso lo è) del mondo del cinema, dello spettacolo, della visibilità in generale. Mi dispiace che queste affermazioni, queste denunce tardive, abbiano creato attorno un po’ di astio. Si è detto: “Tu potevi dire di no perché eri una signora o una signorina che aveva tutti gli strumenti per poterlo fare”. Quello che si sarebbe dovuto fare, e che certamente era nelle intenzioni delle donne che hanno dato il via la movimento, era trasportare questa battaglia di consapevolezza in tutto il resto del mondo, soprattutto del lavoro, dove le donne non hanno modo di sottrarsi a quel tipo di ricatto, a quel tipo di violenza e sopraffazione perché ne va della loro sopravvivenza. Ecco, rispetto a questa istanza mi è mancata la voce degli uomin
Rispetto alle grandi battaglie femministe degli anni 70, che sono sfociate in atti concreti, dalla legge sul divorzio a quella sulla 194, secondo lei questi movimenti degli ultimi degli ultimi anni, dall’esperienza di “Se non ora quando” allo stesso #metoo, sono stati meno incisivi?
Oggi è un po’ più difficile dal punto di vista legislativo. Ricordo però che in questi anni è stata varata una legge sullo stalking che, forse, poteva essere fatta meglio, ma intanto prima non c’era e adesso c’è (e non si sa perché tutti se ne dimenticano). Questo è un risultato ottenuto grazie anche a “Se non ora quando” e non solo. Non ci arroghiamo dei meriti eccessivi, ma lo spettacolo scritto da Serena Dandini, Ferite a morte, che è un testo che è stato rappresentato dall’Onu al Parlamento Europeo e viene continuamente messo in scena dalle istituzioni di tanti Paesi, dalla Turchia alla Tunisia all’Olanda, è un esempio concreto di come la voce delle donne si sia fatta sentire su certi temi, come appunto quello della violenza. E in questo senso si stanno facendo degli atti concreti. Lentamente, sotto traccia, ma le cose stanno cambiando. Perché se si allarga la consapevolezza che la violenza domestica, che è quella che porta poi anche al femminicidio, non è inevitabile e, soprattutto, se si prepara una rete, nelle Forze dell’ordine, nelle Istituzioni, che sappia accogliere le denunce e le donne in difficoltà, il mutamento avviene. Molte Regioni si stanno attrezzando in questo senso. E non mi pare poco. Perché prima di femminicidio e violenza non se ne parlava affatto. Certo, l’unico esito legale è stata la legge sullo stalking, ma, ripeto, è stato un passo in avanti. Molto più difficile è normare, da un punto di vista giuridico, quello che viene considerato il vasto campo della molestia, del ricatto, del mobbing. In questo senso, il limite del #metoo è stato proprio quello di non essere riuscito a uscire da un unico ambito, che è quello del mondo della visibilità, che è sicuramente stato importante come traino, ma che doveva contagiare tutto il resto del mondo femminile. E non solo. Pochi giorni fa Natalia Aspesi in un’intervista al Foglio diceva che il #metoo dovrebbero farlo gli uomini. Lei racconta di aver ricordato ai suoi colleghi come si comportavano loro: era normale, naturale, in quegli anni essere continuamente toccate, molestate, apostrofate in modo volgare sia sul posto di lavoro sia sull’autobus sia per strada. Per questo, e io concordo con lei, il #metoo non dovrebbe essere soltanto una denuncia degli abusi subiti dalle donne, ma un’autoaccusa, una presa di coscienza degli uomini. Perché prima di diventare materia giuridica, questa è materia culturale e relazionale: quello che emerge da tutto quanto è successo negli ultimi anni è che esiste una patologia di relazione, in primo luogo tra maschile e femminile. Dall’altra parte, però, dobbiamo fare attenzione. Basta guardare, per esempio, i casi clamorosi di Kevin Spacey e Woody Allen.
In che senso?
Come dice la Aspesi, se hanno commesso dei reati che vengano condannati, scontino la loro pensa e paghino il loro debito, ma continuino a fare il loro lavoro. Questo modo subdolo di impedire a persone di indubbia qualità professionale di lavorare semplicemente elidendo la loro esistenza dal mondo è una roba spaventosa. Si tratta di separare il peccato dal reato. Noi non siamo riusciti a parlare del fascino che gli uomini di potere esercitano, su tutti. Non voglio dire che si è consenzienti alla violenza, per carità di dio, e non voglio nemmeno dire che le vittime sono conniventi, anzi. Ma che si venga attratti, ammaliati dal potere (in senso lato, non solo quello economico o professionale) va detto. Parliamo anche di questo: vuol dire mettere a fuoco il fatto che ti capita di andare in una stanza d’albergo a fare un provino. Non dovresti perché imbastardisci quello che dovrebbe essere un rapporto professionale, quindi non si va nelle camere d’albergo e non ci si va da sole. Ma è tutto molto confuso, difficile, è tutto molto sfumato. Asia Argento avrà fatto anche dei passi falsi, ma ritengo fosse assolutamente autentica nel suo denunciare. Quindi io credo che quello che è mancato sia stato un #metoo al maschile, cioè che gli uomini dicano “quella roba lì l’ho fatta anche io, la faccio anche io”. Magari molti di loro non hanno usato la violenza o il ricatto esplicito, ma esiste un linguaggio non esplicito che ti fa cadere in quella trappola. E il fatto che tu, donna, lo sappia che è una trappola, non vuol dire che a te vada bene, è che accetti quella cosa come ineluttabile. Perché quello che percepisci è che quei comportamenti sono ineluttabili, cioè che l’uomo è sempre stato così e lo sarà per sempre, che la prostituzione è come la guerra, c’è da sempre e ci sarà per sempre. Bene, non è vero. Perché è solo una questione di mercato. Per questo dico, ancora una volta, che quella che manca è la voce degli uomini.
L’abbiamo da poco vista alla serata dedicata alla Tv delle ragazze. Che esperienza è stata?
Anche dopo 30 anni straordinaria. Per noi che ci siamo ritrovate è stata emozionante e commovente, grazie allo splendido lavoro di Serena Dandini e delle altre. Una bellissima testimonianza per valorizzare le cose del passato ma per mettere in campo anche energie nuove. Rispetto ad allora, che era un inizio di comicità televisiva e si basava sulle nostre storie legate al teatro, alla scrittura e alla radio, oggi la definizione te la dà tv, che però, spesso, non ti dà il tempo di crescere. Il vero problema è la scrittura al femminile. Il fulcro della Tv delle ragazze era proprio l’essere scritta da donne, il punto di vista era sempre quello femminile. Che non vuol dire bandire gli uomini, io ho sempre collaborato con autori maschi, ma che sia la parola che lo sguardo devono avere un’impronta femminile. Certo, quelle che oggi si affacciano e vogliono parlare di materie legate al femminile sono consapevoli che arrivano dopo e quindi tanti temi tanti argomenti tanti stili sono già stati fatti battuti da noi da noi pioniere
Chi sono i talenti al femminile in circolazione che vede o ha visto crescere?
Penso a Paola Cortellesi, che è un’attrice straordinaria prima che un’interprete. E poi Virginia Raffaele. Entrambe, non a caso, appena possono fanno teatro, si cimentano dal vivo quindi crescono in una dimensione di contatto con il pubblico.
Ultima domanda. La sua passione per le scarpe è leggendaria: quali indossa ora?
A dire il vero adesso nessuna, sono felicemente a piedi nudi visto che sono a casa. Le scarpe sono degli oggetti meravigliosi tanto che le tengo in una vetrinetta. Ora non riesco più, come facevo fino a qualche anno fa, ad andare in giro 24 ore al giorno con i tacchi, però continuo a pensare che le vere scarpe hanno il tacco: ti danno quell’allure, quello slancio nella camminata che è unico. E poi sono oggetti meravigliosi. La sapienza artigianale dei grandi creatori di scarpe, direi una sapienza architettonica, è un qualcosa che va riconosciuta e ammirata. Io non ho mai pensato alla scarpa come strumento di seduzione, ma come mio piacere personale: io godo della bellezza in sé e dell’oggetto e di come mi fa sentire.
Di Sara Sirtori