Marija Judina

Marija Judina

Nata nel 1899 a Nevel’, in una regione bellissima di boschi e laghi («Sono cresciuta veramente in un paradiso terrestre») più o meno a metà strada tra Mosca e Riga, Marija Judina apparteneva a una famiglia ebraica come 12 mila dei 18 mila abitanti destinati nel 1941 a essere spazzati via dai nazisti. Figlia di un medico, Veniamin Judin, laico e positivista, rivelò subito d’essere, al pianoforte, una enfant prodige. Accettata a 12 anni al Conservatorio di Pietroburgo («suonavo con il colletto “alla marinara” e la treccia»), diplomata a 22 con la medaglia d’oro (vincendo anche un pianoforte a coda bianco mai consegnato), a 24 era già in cattedra. 

Una carriera fulminante. Nonostante, appunto, quella rivoluzione che sulle prime l’aveva travolta. Un giorno, come racconta Giovanna Parravicini, ricercatrice di Russia Cristiana che da trent’anni vive a Mosca, nel libro Marija Judina. Più della musica, edito da La Casa di Matriona, uscì di casa e si trovò travolta da un fiume di gente: «Per le strade si sparava, non si aveva paura di niente e noi ci davamo da fare per fasciare le ferite e rifocillare gli affamati». Finché incontrò uno dei suoi professori: «“Cos’è questa roba?” mi chiese sfiorando la mia fascia da miliziana… Io mi smarrii, dentro di me esplosero a tutta forza le ouverture di von Weber, le sinfonie di Schubert, Mozart, la mia esecuzione nell’orchestra studentesca sui timpani e non riuscii a spiegare niente… In quell’istante “l’istinto rivoluzionario” lasciò il posto in me al “senso sinfonico”». 

Il resto lo fecero le delusioni. Le contraddizioni tra i proclami («Esponete liberamente le idee più sublimi. In nessun altro luogo, in nessun altro Paese verranno accolte calorosamente quanto nella Repubblica degli operai e contadini») e gli arresti di amici e compagni che «erano davvero il “fiore dell’umanità”. Disinteressati, laboriosi, tutti responsabilità, bontà fattiva, forza di pensiero… Oro puro…», ma pensavano fuori dal coro e per questo finirono in galera o «morti da martiri». Come Vsevolod Bachtin, un «astro della medievistica» e sua moglie Evgenija, che «per oltre 30 anni hanno peregrinato tra lager e luoghi di deportazione», o Sergej Usakov, scomparso «ancora ragazzino» quando sapeva «praticamente a memoria tutto Dante in italiano». 

«La nostra giovinezza, la giovinezza di tanti uomini d’arte, di scienza, di vita pratica, aveva le ali ai piedi», ricorderà Judina. «E ciascuno a modo suo poteva ripetere quelle stupende parole di Blok: “Sento il fruscio delle pagine di storia che si voltano”… Ci alzavamo e ci coricavamo con la poesia». Finché tutti i sogni finirono: «L’università si spopolava. I nostri docenti insegnavano fino all’ultimo, fino all’ultima ora e istante in cui venivano soppressi la loro materia o loro stessi».

La salvò, via via che le illusioni erano inghiottite dallo sconforto, la fede: «Ieri per la prima volta sono stata alla liturgia. È proprio vero, dunque, sto approdando al cristianesimo, definitivamente; lo voglio. È la prima volta che entro in chiesa, attendo la grazia di Dio, credo e spero! Signore abbi pietà! Amen». Battezzata nel maggio del 1919 a Pietrogrado, resterà fedele a quella scelta fino in fondo. Usando per decenni i suoi soldi (pochi) e la sua fama (leggendaria tra i russi a dispetto delle cacciate prima dal conservatorio di Stalingrado e poi da quello moscovita, dell’esilio a Tbilisi, dei concerti negati…) per cercare di aiutare i dissidenti a rischio di deportazione, per pagare la retta a studenti poveri, per spendere l’intero stipendio per una mucca da latte da dare a una madre affamata conosciuta in treno, per sfidare la collera del Potere ospitando Boris Pasternak che proprio a casa sua lesse per la prima volta nel febbraio 1947 parti del proibitissimo Dottor Živago e poi ancora prendendo tra i primi le difese di Aleksandr Solženitsyn all’uscita di Una giornata di Ivan Denisovic: «Un libro epocale».

Per non dire della sfida più temeraria, raccontata dal pianista e compositore Dmitrij Šostakovic e ripresa da Giovanna Parravicini. Una sera, nella sua dacia, Iosif Stalin ascolta alla radio Marija Judina: è il Concerto numero 23 K 488 di Wolfgang Amadeus Mozart. Sa bene chi è, quell’inflessibile avversaria. Sa anche però, statene certi, che nel 1942 s’era offerta volontaria per andare nell’amatissima Leningrado come infermiera e che dopo esser stata rifiutata («Non sapevo far niente: durante il tirocinio in ospedale inondavo di lacrime i feriti gravi») aveva insistito per andare nella città assediata dai nazisti per suonare in diretta alla radio e tirar su il morale dei soldati. Nonostante tutto, il despota è un suo ammiratore. Ascolta il concerto e ordina: vorrei il disco. 

Ma non c’è, il disco: era tutto in diretta. Panico: come dire di no a Stalin? Occorre farlo, il disco. Nella notte (notte alla quale Ermanno Olmi sognava di dedicare l’ultimo film della sua vita prima di morire) vengono febbrilmente rintracciati la pianista, i musicisti, il direttore d’orchestra. Ore di fatica, di tensione, di arte. La mattina il disco è pronto. Stalin ringrazia inviando a Marija Judina 20 mila rubli, «una cifra strepitosa per l’epoca». Tanto più per una donna così incurante di ogni cosa superflua da venire invitata dallo stesso partito a farsi «un guardaroba decente».

La risposta è straordinaria: «La ringrazio per il Suo aiuto, Iosif Vissarionovic. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della mia parrocchia». Quando il despota se ne andò, si dice, sul grammofono della dacia trovarono quel disco. 

Dal corriere.it

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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