Nebras

Nebras

Che cosa hanno visto gli occhi di Nebras

Etiope, 18 anni, in fuga dalla fame. Venduta, stuprata e torturata per un anno in Libia. Prima dai trafficanti, poi dai soldati pagati dall’Italia.

Si chiama Nebras, ha 18 anni, ed è bella; esile, i movimenti eleganti.

Il padre possedeva delle terre, in Etiopia. La siccità e il contrasto con un gruppo rivale gliele strappano. Per un po’, Nebras lavora come domestica in alcune case vicine, ma «i pochi soldi andavano dalla mano alla bocca», quasi non ne vale la pena.

Un giorno la sua migliore amica, Chiatu, dice: «Andiamo in Europa a salvare noi e le nostre famiglie». Hanno sedici anni e nessun soldo. Ma sono insieme, e partono. Trovare i trafficanti è stato facile, tutti sanno come fare, il Viaggio è nel tuo dna se sei nato nel Corno d’Africa, è una possibilità tra le altre. Si accordano per una cifra, avrebbero pagato i trafficanti una volta giunte a Sabrata o a Tripoli. Non sapevano che stavano offrendosi come schiave. Come facevate a non saperlo?, chiedo. Scuote la testa. Nessuno parla del Viaggio. «Si parte per aiutare la famiglia. Come si potrebbe dire, una volta arrivati, che si è vivi per miracolo? Sarebbe far soffrire la famiglia, l’opposto del motivo per cui si parte».

Le caricano su una jeep, sono in cinquanta, il bagaglio rimane a terra. Viaggiano per giorni verso il Sudan e il deserto. Prima del confine si fermano. I trafficanti chiedono i soldi. Non li hanno. Nessun problema: vengono vendute. Duemila dollari l’una.

I nuovi trafficanti sono armati e indicano una direzione, in mezzo al nulla del deserto. Il gruppo comincia a camminare. Il confine si trova a dodici ore a piedi, non si può attraversare in auto, è pericoloso. Poi di nuovo su una jeep, arrivano vicino a Khartum. La prima prigione. Le rinchiudono in una stanza con altre trenta persone. I trafficanti stanno in una camera più piccola, lì di fianco. Ne sentono i rumori. Loro stanno per terra, hanno fame, e sete.

I trafficanti entrano quattro, cinque volte al giorno e chiedono soldi. Alcuni tra gli schiavi li hanno. Nebras e Chiatu no. Prendono un telefono e ordinano di chiamare a casa. Nebras ha un cugino in Arabia Saudita. Ricorda il numero a memoria.

Lui si nega. Da mangiare hanno un piatto al giorno in dieci. Da bere una bottiglia da mezzo litro d’acqua, in quindici: ognuno ha quella che sta in un tappino. A chi chiede di più viene pisciato in faccia. Riempiono bottigliette di urina e li costringono a ingoiare. Là dentro ci stanno tre mesi. Una notte i trafficanti prendono Nebras e la portano nella piccola stanza. Non sa esattamente quanti sono, non lo ricorda. La tengono chiusa tre giorni. La violentano. Nelle pause, lei batte i pugni contro le pareti, nessuno la sente. Piange. «È colpa mia», mi dice. «Ero troppo debole, non mangiavo. Fossi stata più forte, gli altri mi avrebbero sentita». Quando esce si accascia tra le braccia di Chiatu, l’amica, che piange due giorni stretta a lei. Dopo è la volta dell’amica. Quando torna, dopo tre giorni, sanguina in molti punti. Ora è Nebras a stringerla. Ma Chiatu non parla più.

Poi, una notte, di nuovo, arrivano. Le vendono ai libici. Cinquemila dollari l’una. In quei tre mesi il valore è aumentato. I trafficanti libici le caricano su un camion con altre 150 persone. Impiegano una settimana ad attraversare il Sahara. Da bere, acqua mista a olio di motore. Alcuni durante il viaggio muoiono di fame e stanchezza, vecchi e bambini. Le madri piangono.

Arrivati a Kufra rinchiudono tutti i sopravvissuti in una prigione sotterranea. Si entra da un buco di mezzo metro. Dentro non si sta in piedi. Acqua filtra dal soffitto. Non c’è bagno. Si defeca e si urina seduti, dentro le gonne e i pantaloni. Non c’è aria, si muore di puzza e di asfissia. I libici entrano e chiedono denaro. Quando aprono l’apertura è insieme sollievo e terrore. Di nuovo Nebras telefona al cugino. Niente. Da mangiare ricevono cibo avariato, i vermi sono vivi. Loro mangiano.

«Quando hai fame mangi tutto». Stanno accasciate a terra nei loro escrementi per altre quattro settimane, senza luce. Poi Chiatu smette di muoversi. Muore tra le braccia di Nebras. Nebras, di notte e di giorno la vede ancora al suo fianco, oggi che mi parla la sua amica è lì con noi. Dopo tre mesi, Nebras inizia a provare strani movimenti nell’addome. Ha il terrore di essere incinta. I trafficanti ogni giorno entrano, e torturano. Sciolgono plastica sugli arti. Arroventano tubi di metallo e li premono sulle schiene.

Un giorno prendono sette uomini e li trascinano fuori. Ne ammazzano cinque, scattano foto. Ributtano dentro gli altri due, che raccontino. Ai rimanenti mostrano le foto. Se devono violentare, violentano sottoterra, davanti a tutti. Così che si veda. E i soldi si procurino prima. Neanche pagare subito è buono. Se paghi subito ti mantengono lì. Sei animale da mungere. Poi, la vendono ancora. Ottomila dollari. Il debito cresce, l’ultimo trafficante accumulerà quello che non hanno preso gli altri.

Nebras viene trasportata a Bani Walid. Più vicina al mare, più vicina alla meta, non lontana da Misurata. Il viaggio dura giorni, sono in cinquanta. Chi guida è ubriaco, guida veloce dentro il deserto. La jeep si ribalta. Molti muoiono, tanti bambini. Nebras vede crani all’aria. Seppelliscono i morti dentro la sabbia.

Aspettano tre giorni che arrivino ad aggiustare la jeep. Lei si rifiuta, ma viene caricata sulla macchina bagnata del sangue dei sepolti. Di notte fa freddo, lei trema. I trafficanti se ne accorgono, la bagnano con acqua ghiacciata. Poi picchiano con bastoni sotto le piante dei piedi. A Bani Walid li chiudono di nuovo sotto terra. Nebras è incinta, ora lo sa. Le fanno chiamare per la terza volta il cugino. Lui accetta di pagare. Dopo due mesi la portano a Sabrata, sul mare. La fine è vicina, si dice.

In verità ciò che spera è di morire presto. Il bimbo che porta in grembo è il terrore calato nelle sue viscere. Aspetterà che maturi abbastanza da uscire da lei. Incinta di cinque mesi, viene venduta alla polizia libica. Crede di essere finalmente in mani amiche, ma i poliziotti sono peggio dei trafficanti. La rinchiudono in una stanza e la violentano. Anche se lei dice loro di essere incinta, mostra il ventre. Poi un poliziotto domanda «è un libico che ti ha fatto questo?», e indica la pancia.

Nebras fa sì con la testa e chiede «perché non avete avuto pietà?». Così il poliziotto impara che lei parla l’arabo. La usa come mediatrice con gli etiopi. Nebras sta male. Alcuni prigionieri organizzano un piano per scappare, sente che ne parlano continuamente. Dopo tre settimane scappano. La portano con loro perché è incinta. A Sabrata l’accompagnano all’ospedale.

Partorisce al settimo mese, il neonato sta male. Il giorno in cui le fanno vedere il bambino, Nebras decide di uccidersi. Si taglia le vene dei polsi, ma le infermiere la salvano. Nebras, sdraiata in una stanza di ospedale, si chiede «è reale ciò che mi è successo? Volevo solo andare via dall’Etiopia». Le infermiere le dicono che forse può tornare a casa. Ma tutto vuole, Nebras, tranne quello: se suo padre sa del bambino l’ammazza per disonore. Nebras non può parlarne con nessuno. Il personale Unhcr la trova in ospedale e la trasporta in Niger assieme al figlio. Lei gli dà il nome di Bilal.

Nella Casa de passage, quando la incontro, le sue compagne credono che il figlio sia di un uomo che Nebras ama. Un uomo che l’aspetta in Europa. Questo fa credere a tutte, Nebras. Nebras non ha mai più parlato con la sua famiglia.

Che Bilal è figlio del trafficante libico lo sappiamo io e la psicologa. Adesso lo sai anche tu che hai letto la sua storia.

Nebras, torturata per più di un anno in Libia per essere fuggita dalla fame nel suo paese.

GIUSEPPE CATOZZELLA

Su L’Espresso del 28.10.2018

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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