Omaggio a Tina Costa

Omaggio a Tina Costa

Sono nata in una famiglia antifascista a Gemmano, un comune dell’entroterra di Rimini che è stata, insieme a quella di Cassino, la zona che ha subìto le distruzioni più pesanti a causa dei bombardamenti della guerra. Ero la maggiore di quattro figli, due femmine e due maschi; mio padre era socialista e mia madre, a cui devo la mia «educazione politica», era iscritta al Partito comunista, clandestino, fin dal 1935, mentre i suoi tre fratelli avevano partecipato alla fondazione del Pci a Livorno nel 1921. Papà non si era mai iscritto al Partito fascista e noi bambini lo vedevamo che ogni tanto tornava a casa pieno di lividi, mamma diceva che era caduto; solo in seguito avremmo capito che invece erano i fascisti che lo avevano aggredito, e più d’una volta. Sarebbe morto nel 1939, per le conseguenze delle ferite che aveva riportato già nella prima guerra mondiale. Per vivere faceva l’artigiano del gesso: lo scavava, poi lo cuoceva e lo portava, dentro dei grandi sacchi, con i suoi muli, dove stavano costruendo qualche casa. Mia madre faceva diversi lavori, a un certo punto, dopo l’8 settembre, avrebbe lavorato perfino come cuoca nella caserma in cui si erano sistemati i tedeschi a Rimini. Non era una vita facile, da nessun punto di vista, ma in famiglia ci avevano abituato a non chinare la testa. Questo, insieme all’esempio di mia madre, mi avrebbe portato in seguito a partecipare alla Resistenza.
Credo di poter dire che però la mia prima «azione» di rivolta contro il fascismo l’ho compiuta quando avevo solo sette anni e frequentavo la seconda elementare. All’epoca, a scuola, avevo una maestra che veniva da Predappio – si chiamava, me lo ricordo ancora, e come potrei scordarlo per come mi trattava, Anita Fusaroli. La mia era quella che veniva chiamata «pluriclasse», nel senso che venivano messi insieme bambini di prima e di seconda, come avveniva nelle scuole di tanti piccoli centri di campagna. Una mattina la nostra maestra che veniva a scuola in divisa fascista, con la bandoliera a tracolla e il fez in testa, ci annunciò che di lì a qualche giorno avremmo dovuto presentarci vestite da «piccole italiane» o da «figlie della lupa». Tornata a casa, i miei mi chiesero cosa avessi fatto a scuola e io raccontai la richiesta della maestra spiegando che l’idea di vestirmi da «figlia della lupa» non mi dispiaceva, per strada ci avevo già pensato e l’altra ipotesi, quella della «piccola italiana» non mi attraeva invece per niente. In realtà, non avevo idea di cosa si trattasse, ma questo fatto dei lupi doveva aver colpito la mia fantasia di bambina.
Mia madre era molto attenta, mentre mio padre parlava poco. Però, in questo caso, fu lui a parlare e mi disse, in dialetto: «Allora ti tocca andare a cercare la lupa se vuoi mangiare stasera, perché qui c’è poco da mangiare». Detto questo, mi prese per mano e mi accompagnò fuori dalla porta di casa: la nostra era una di quelle case di campagna con il pianerottolo e la scala davanti. Era buio. Ho riflettuto qualche minuto e poi ho bussato. Mio padre ha aperto la porta e io gli ho detto: «Ma io mica sono la figlia della lupa, sono figlia vostra». Lui ha sorriso e ha risposto: «Allora vieni qui a mangiare con noi».
Il giorno famoso, a presentarci a scuola senza divisa siamo stati solo in tre: io, mia sorella che faceva la prima e mio cugino che stava in seconda come me. La maestra venne però proprio da me per chiedere spiegazioni di quel comportamento. «Perché non sei in divisa?», mi chiese. «Ma perché io non sono la figlia della lupa, sono figlia di Costa Matteo e Zeppa Tullia», le risposi. Non potete immaginare le angherie che da quel momento ci ha fatto subire quella maestra. La mattina dava a tutti noi bambini un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo, perché, diceva, dovevamo farci i muscoli. Poi, per pulirci la bocca, avevamo diritto a uno spicchio d’arancio. Quella mattina, però, tutti ebbero il loro arancio, tranne noi tre. Il giorno successivo, dopo che le avevo raccontato l’accaduto, mia madre, che per procurarsele avrà fatto qualche debito, comprò delle arance e ne diede una ciascuno a me e a mia sorella; quando la maestra passò con l’olio di merluzzo, noi tirammo fuori le nostre arance: non ci aveva piegato! È cominciato tutto così, ma era solo l’inizio.
In seguito, mi sarebbe capitato tante volte di ascoltare quello che dicevano i miei con i loro amici quando si riunivano di nascosto nelle stalle, in mezzo agli animali, per non essere visti e sentiti: io ero curiosa e andavo ad ascoltare i loro discorsi, anche se magari non ne capivo granché. Avrò avuto sì e no dieci anni, ma qualcosa stava già maturando, dentro di me cominciava a cresceva la ribellione. 
Ai tempi della guerra d’Etiopia, i comunisti aiutavano i giovani che non volevano andare a combattere e perciò anche mia madre si era attivata. All’epoca noi bambini fungevamo da messaggeri: ci davano dei bigliettini da portare a questo o a quel tale, per avvertirlo dove poteva nascondersi per evitare di essere mandato in Africa; potrebbe sembrare una cosa semplice, ma noi la prendevamo molto seriamente. Una mattina ero partita presto per andare a consegnare uno di questi messaggi alla famiglia di un giovane che viveva in un casolare in mezzo alla campagna e che aspettava di sapere dove si sarebbe dovuto nascondere per sfuggire alla coscrizione obbligatoria. Solo che mentre stavo arrivando, mi venne incontro suo padre che mi disse: «Docl’è il bigliett? (Dov’è il biglietto?)». Era un contadino che io ero abituata a vedere con i pantaloni rattoppati e la camicia da lavoro e invece quel giorno era tutto elegante, in giacca e cravatta. Perciò non mi fidai e gli risposi: «Me, a go nessun bigliett (Io non ho nessun biglietto)». Naturalmente il giorno dopo dovetti tornare lì a consegnare il messaggio. Decenni più tardi, mio figlio avrebbe riso ancora di tutta questa storia, chiedendo a mia madre: «Ma quanti bigliettini le hai fatto mangiare?»; perché ci dicevano che una volta che il destinatario l’aveva letto, dovevamo ingoiarlo per non lasciare tracce. In seguito, però, le cose si sarebbero fatte più serie.
Dopo l’8 settembre, Gemmano si trovò proprio lungo la Linea Gotica che avevano costituito i tedeschi e così l’intera zona si riempì di soldati. Allo stesso modo, però, l’area diventò anche uno snodo importante delle attività della Resistenza. Uno dei fratelli di mia madre, Germano Zeppa, era comandante partigiano in quella zona e tramite mamma anch’io fui coinvolta fin dall’inizio. All’epoca non avevo ancora diciott’anni e diventai una staffetta partigiana quasi senza accorgermene: ero molto orgogliosa degli incarichi che mi venivano affidati. Con la mia bicicletta dovevo attraversare la Linea Gotica e consegnare delle borse ai partigiani che si trovavano nel territorio occupato dai nazisti. Fu tutto così naturale, senza grandi discorsi. I partigiani erano spesso persone che avevo già visto a casa mia, amici dei miei genitori o dei miei zii, per lo più volti familiari.
Ricordo ancora la prima volta che mi chiamarono, mi spiegarono cosa dovevo fare e mi diedero la bicicletta e due borse, o canestri, non sono sicura, che dovevo trasportare oltre le linee tedesche. Ero emozionata ma anche felice, perché sentivo che stavo dando il mio contributo a qualcosa di importante. Cosa c’era dentro quelle borse? Contenevano viveri, medicinali, vestiti, insomma cose che servivano a chi viveva nascosto sulle colline, spesso all’addiaccio. Ma a volte erano molto più pesanti: dentro le borse c’era anche qualcos’altro… L’itinerario cambiava sempre, come anche la parola d’ordine e la consegna era che se avessi visto in giro qualche pattuglia di tedeschi o fascisti sarei dovuta tornare immediatamente indietro, anche se non ce l’avevano con me. In quel caso, non dovevo però tornare a casa mia, perché c’era il rischio che qualcuno mi seguisse, ma in un’altra, di amici o conoscenti. E i tedeschi nella zona erano dappertutto; addirittura c’era un soldato molto giovane che mi faceva il filo quando mi incontrava. In ogni caso, eravamo sempre all’erta, anche quando non eravamo impegnati in un’azione. Ricordo che i compagni più grandi ci dicevano di guardarci le spalle, anche quando camminavamo per strada, per timore che qualcuno ci stesse seguendo. Perciò, mi ero abituata a guardarmi attorno, per cercare di capire dalla faccia o dal comportamento di chi incontravo se potevo fidarmi o meno. Ci si affidava all’intuito, ma non era facile, anche perché a volte, perfino di persone che conoscevi da tempo, addirittura di molti amici, non potevi fidarti fino in fondo. 
La paura mi accompagnava sempre – e devo dire che anche in seguito ho sempre avuto paura a ogni manifestazione a cui ho partecipato, e sono state davvero moltissime, fino a oggi. All’epoca, per vincere la paura, pensavo ai compagni che si battevano insieme a me, pensavo al fatto che più eravamo e più avevamo la possibilità di vincere, anche se, certo, le occasioni per essere spaventati c’erano eccome. Mi rincuorava il pensiero che quell’incarico me l’aveva dato mia madre o qualcuno che mi voleva bene e si fidava di me: questo mi dava forza e coraggio. Anche se erano ovviamente momenti molto difficili. Molti anni dopo me la sarei presa con Luciano Violante che quand’era presidente della Camera, nel 1996, affermò, a proposito dei partigiani e dei repubblichini che «i morti sono tutti uguali». «Giusto», gli dissi personalmente, dato che lo conosco bene, «ma io voglio sapere che cosa hanno fatto da vivi. Perché è vero che i morti sono tutti uguali, ma quando loro hanno scelto la Repubblica di Salò, io e tanti altri a Rimini abbiamo scelto un’altra cosa». E non era facile, da nessun punto di vista. Non c’erano solo i rischi legati all’attività partigiana. Facevamo la fame, ma la fame nera. Ricordo che andavo davanti a una caserma a raccogliere le bucce delle fave, dei piselli e delle patate che buttavano via quando preparavano il rancio e noi invece ci facevamo la minestra: e devo confessare che soprattutto quelle dei piselli erano davvero difficili da mandare giù. Ma a casa era comunque festa, perché c’era qualcosa da mangiare. È quello era niente rispetto ai rischi che correvamo ogni giorno.
Il 14 agosto 1944 dovevo raggiungere dei compagni che si trovavano in un comando nel centro di Rimini, la zona era quella che all’epoca era nota coma Barafonda, per consegnare loro alcune cose. I compagni erano quelli che sarebbero poi passati tragicamente alla storia come i tre martiri: Mario Capelli, Luigi Nicolò e Adelio Pagliarani – i primi due avevano poco più di vent’anni, Pagliarani solo 19 – che furono catturati, torturati e impiccati due giorni più tardi nella piazza principale della città. Mentre passavo con la mia bicicletta per via Cavalieri, lo stradone principale che mi avrebbe condotto all’edificio dove si trovavano i compagni, le donne che stavano sedute davanti alla porta di casa a fare l’uncinetto – era estate e avevano messo le sedie per strada per sfuggire alla calura delle case – saltarono in piedi e mi corsero incontro facendomi segno di andare via subito: «Torna indietro, torna indietro». Nessuno doveva sapere ciò che facevamo, ma quello era un quartiere popolare e la gente stava dalla nostra parte e, appena poteva, dava il suo contributo, così, spontaneamente. Appena tornata indietro ho saputo dal nostro comandante che avevano appena preso i nostri compagni: se quelle donne non mi avessero avvertito e un altro della mia squadra, che doveva essere lì anche lui, non fosse andato in missione, probabilmente quel giorno gli uccisi sarebbero stati cinque e non tre. Quelle donne mi avevano salvato, avevano partecipato all’azione anche solo avvertendomi che dovevo tornare indietro. Altre volte erano stati i frati di San Bernardino che ci avevano aperto le porte del loro convento quando stavamo scappando dai fascisti e dai tedeschi. In quegli anni io non ho trovato mai ostilità nelle persone, intorno alla Resistenza c’era la solidarietà e la compartecipazione di tante gente.
Certo, non tutti erano così. C’era anche chi se la faceva con i fascisti e i tedeschi. Come la persona che denunciò me e mia madre alla Gestapo; ed era qualcuno che conoscevamo bene. Una mattina nazisti e repubblichini arrivarono a casa – eravamo sfollati da Gemmano a Rimini – e arrestarono me, mio fratello, che aveva solo 14 anni e per altro non era stato coinvolto in nessuna azione partigiana, e mia madre. Ci dissero che alla stazione erano già pronti i vagoni piombati con cui ci avrebbero portato al campo di Fossoli di Carpi, e da lì in qualche lager tedesco. Ma, arrivati al ponte della ferrovia che separava la strada dai binari, cominciarono a cadere le bombe dal cielo; Rimini subì centinaia di bombardamenti sul finire della guerra. Nel fuggi fuggi che seguì scappammo tutti per cercare di metterci al riparo: i fascisti, i tedeschi e anche noi, insieme ad altre persone che erano state rastrellate quel giorno. Solo così, nel parapiglia generale, riuscimmo a metterci in salvo e a raggiungere un luogo sicuro. Ci rifugiammo sulle colline, a Onferno, una frazione di Gemmano, per nasconderci in quelle grotte che ora sono diventate patrimonio dell’umanità, ma che all’epoca per noi erano soltanto le cave da cui si estraeva il gesso con cui lavorava papà. E lì siamo rimasti per qualche tempo, protetti da altri partigiani, finché i nazisti non si sono ritirati verso nord e, qualche giorno dopo, sono arrivati gli alleati. Era il 21 settembre del 1944: il nostro 25 aprile.
Quando siamo usciti di nuovo alla luce del sole, in giro non c’era neppure un solo tedesco, e anche i fascisti sembravano spariti, anche se in realtà si erano solo rintanati in casa o nascosti da qualche parte. In quei giorni, girare per le strade di Rimini dava una sensazione entusiasmante. Eravamo liberi, per la prima volta da così tanti anni. A casa mia non avevamo creduto fino in fondo che tutto fosse finito già il 25 luglio, con la caduta di Mussolini: e infatti, avevamo avuto ragione. È invece ora era finita davvero. Stentavamo a crederci, ma eravamo felici. Ricordo come fosse oggi che la mia prima reazione fu un pianto di gioia. Era la prima volta che mi sentivo libera davvero. Ero nata che il fascismo c’era già. Ero abituata a vedere sul volto di mio padre i segni delle botte dei fascisti: noi liberi non eravamo mai stati. Sentivamo che potevamo finalmente fare qualunque cosa. A piazza Cavour, nel cuore di Rimini, abbiamo fatto una festa enorme, abbiamo ballato tutti insieme. Lì c’era il mercato e i banchi del pesce, e anche chi ci lavorava ha lasciato tutto per venire a ballare. Era pieno di gente, c’erano i partigiani ma anche tante persone comuni che finalmente ritrovavano il sorriso e la speranza. 
Eravamo tutti felici, ma devo dire che a casa mia all’epoca non demmo troppa importanza a quanto avevamo fatto, alla nostra esperienza nella Resistenza. Non andammo nemmeno a iscriverci all’Anpi e a raccontare cosa avevamo vissuto, che infatti non compare in nessun libro di storia. Ci sembrava che non fosse accaduto niente di straordinario. Mia madre ci pensò su e poi disse: «Abbiamo fatto solo quello che era giusto fare, tutto qui». E non se ne parlò più. E anche in seguito, anche negli ambienti del Pci locale non si tornò più sugli avvenimenti di cui eravamo stati protagonisti tra Gemmano e Rimini. Forse perché per molti di noi, la Liberazione avrebbe rappresentato soltanto l’inizio di un percorso: io mi ero iscritta al Partito comunista il 4 maggio del 1944, quando era ancora clandestino, e quella scelta avrebbe accompagnato il resto della mia vita. Dopo la Liberazione fui eletta segretaria della sezione del Pci del centro di Rimini che si chiamava «Tre martiri» e che all’epoca contava più di 2 mila iscritti. Poi mi trasferii a Roma, ma la lotta non era finita. Ricordo ancora le mie mani ferite nello sforzo di staccare dalla strada i sampietrini a Porta San Paolo, per poterli usare per difenderci dalle cariche dei carabinieri a cavallo guidati da Raimondo D’Inzeo: era il 6 luglio del 1960 e manifestavamo contro il governo Tambroni e contro i neofascisti dell’Msi. In quell’occasione non fui arrestata perché, grazie al mio accento romagnolo, mi finsi una turista: eppure, se solo mi avessero guardato le mani avrebbero capito tutto. E questo è soltanto uno dei tanti episodi delle lotte di tutti questi anni che per me hanno rappresentato una prosecuzione di ciò che avevo fatto da ragazza con la mia bicicletta, lungo la Linea Gotica.
In ogni caso, oggi, quando si parla della lotta partigiana, spesso si pensa soltanto a chi combatté, e giustamente, con le armi in pugno contro fascisti e nazisti. Ma la Resistenza è stata qualcosa di molto più grande: ha coinvolto i cittadini, i lavoratori, gli operai e moltissime donne. Talvolta, quando si racconta di quelle vicende, sembra quasi che le donne abbiano dato un contributo minore, pressoché inesistente, ma non è affatto così. Se non ci fossero state le donne, temo che avremmo ancora i tedeschi in casa settant’anni dopo la guerra. Non è solo per il fatto di aver combattuto, perché molte donne hanno anche imbracciato i fucili – a me, che sono profondamente pacifista e sulla porta di casa tengo ancora oggi la bandiera della pace, all’epoca non capitò di farlo, ma non sono così sicura che non avrei usato un’arma, se me ne fosse capitata l’occasione. Comunque, in quei momenti, le donne hanno fatto di tutto: hanno nascosto i partigiani, li hanno vestiti, curati, protetti. Quando c’è stato lo sbandamento del 1943, hanno accolto tanti soldati che altrimenti sarebbero stati arrestati o uccisi dai tedeschi. Hanno fatto le staffette, organizzato la Resistenza nei quartieri, nelle città, casa per casa. E molto altro ancora; come le donne di Rimini che mi avvertirono che dovevo tornare indietro e con questo gesto mi salvarono la vita: chissà con quante altre persone l’hanno fatto, chissà quanta altra gente hanno salvato in questo modo. Perciò, in quel momento, ciascuno ha fatto la propria parte, chi in montagna, chi restando a casa, ma dando il proprio contribuito quando ce ne fu bisogno. Per quello che ho vissuto io, posso dire che la Resistenza è stata una guerra di popolo. Ed è ancora questa l’eredità più importante di ciò che accadde allora.

All’epoca si ragionava in termini di «noi», mentre oggi, e da diversi decenni ormai, sembra ci si sia rassegnati a pensare solo come un «io», ciascuno per proprio conto, chiuso nella sua dimensione individuale, come se insieme non si potesse più fare niente. Eppure, se in quegli anni avessimo ragionato così, non avremmo potuto fare nulla, non avremmo potuto cambiare in alcun modo il corso delle cose. «Io», da sola, non potevo fare niente, ma «noi», insieme, abbiamo fatto tanto e non credo sia superfluo ricordarlo a settant’anni dal 25 aprile. Personalmente credo di aver fatto anche tanti errori durante la mia vita, ma rifarei tutto quello che ho fatto, passo dopo passo. Forse, anzi, senza forse, compresi gli errori.

Tina Costa

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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