sos KORAI e AssCom col Comune di Tropea a sostegno della campagna di sensibilizzazione sull’ENDOMETRIOSI

sos KORAI e AssCom col Comune di Tropea a sostegno della campagna di sensibilizzazione sull’ENDOMETRIOSI

«Cosa piangi? Non ti ho detto che stai morendo di cancro, solo che non puoi avere figli».
Quando Annalisa si è svegliata dall’operazione, questo è stato il saluto del chirurgo: le aveva appena tolto un ovaio. Racconta che in quel momento le è crollato il mondo addosso: da sei mesi aveva un compagno e temeva che la lasciasse, come succede a tante donne che soffrono di endometriosi. Però quel compagno, che poi l’ha sposata, l’ha rassicurata dicendole che mica stava con la sua malattia o con il suo utero: lui stava con lei.null

Annalisa pensa di essere fortunata ad averlo vicino, e intanto che lo dice la voce le si incrina, appena un po’, e mi commuovo anche io: sì, molto fortunata.

Annalisa Frassineti è la presidentessa di Ape onlus, che dal 2005 fa informazione sull’endometriosi e offre sostegno alle donne colpite. Lei è stata operata due volte in due anni, dopo una diagnosi errata di appendicite, ma fin da ragazzina ha sofferto di dolori spaccapancia: «A casa mia è sempre stato così, abbiamo una componente genetica molto forte: due anni fa l’hanno diagnosticata anche a mia mamma. Ci ripetono sempre che la donna deve soffrire, che è normale che le mestruazioni facciano male: non è così»

L’endometriosi colpisce in Italia tre milioni di donne, 150 nel mondo; i numeri reali, però, potrebbero essere maggiori, visto che non esistono registri della malattia e il ritardo nella diagnosi è in media di dieci anni.

È una malattia cronica, poco nota, dalle cause ancora sconosciute: l’endometrio, che riveste l’utero e si sfalda a ogni mestruazione, si diffonde anche a muscolatura, peritoneo, ovaie, tube, fino all’intestino, alla vescica, ai nervi. Le cellule al di fuori dell’utero rispondono agli stessi stimoli ormonali di quelle interne, e i loro micro-sanguinamenti provocano dolore, infiammazione cronica, aderenze, riducono la fertilità. Non esiste cura.

«La terapia, purtroppo, può agire solo sui sintomi. Non abbiamo farmaci che eliminino la malattia, possiamo solo controllarne la progressione», spiega Stefano Cosma, uno dei responsabili dell’Ambulatorio endometriosi e dolore pelvico cronico dell’Ospedale Sant’Anna di Torino. Per far capire come funziona, dice di immaginare le isole di endometriosi sparse per il corpo «come tante lampadine accese, che dipendono da un unico interruttore, gli estrogeni, attivi solo quando la donna è fertile. La cosa più semplice sarebbe spegnere queste luci, simulando la menopausa. Ma si parla di donne giovani, è irreale pensare di farlo a lungo. Allora possiamo pensare di abbassarne l’intensità, con la terapia ormonale». La diagnosi precoce è fondamentale. Per questo le volontarie dell’Ape vanno nei licei a spiegare alle ragazze quali sono i sintomi, quando è il caso di rivolgersi al ginecologo.

Il 13 gennaio l’endometriosi è stata inserita come patologia cronica nei nuovi Livelli essenziali di assistenza(quelli che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini), ma le prestazioni gratuite riguardano solo il terzo e quarto stadio della patologia, mancano l’invalidità per gli stadi più avanzati, le tutele per le donne che, raccontano dall’Ape, «sono costrette ad andare a lavorare strisciando, dopo aver fatto colazione con gli antidolorifici».
Dice Annalisa che la cosa che più la ferisce è il fatto che la sua malattia non venga considerata una malattia. «È un po’ come diceva la Fallaci per il tumore, no? Se ti rompi un braccio, tutti gridano aiuto. Con il fatto che l’endometriosi non si vede da fuori, ed è poco conosciuta, tanti non la capiscono, pensano che sei fissata o debole o inventi scuse».

Prima della diagnosi, Annalisa si ricorda come «una che viaggiava sempre a mille»; poi, il periodo scuro. «Soprattutto non accettavo il fatto di non potere avere figli. Passavo davanti ai negozi per bambini e voltavo la faccia dall’altra parte».
Più tardi, mi dirà che le difficoltà, di ogni tipo, servono a fare una selezione naturale delle persone, lasciando solo quelle che davvero contano. Per lei, Alex, che le ha fatto accettare la malattia, che le ha detto: «Se non potremo avere figli, saremo una famiglia noi due».
E poi le altre volontarie. «Quando sono entrata nell’Ape ero molto arrabbiata, con la malattia e con il mondo. La presidentessa dell’epoca mi disse: guarda che così non va bene. Io rispondevo che volevo lottare, basta, dobbiamo fare la guerra. E lei: non siamo mica in Afghanistan. Poi ho trovato la pace, quando mi sono resa conto che non ero sola. Con l’endometriosi ti senti un alieno, soprattutto all’epoca non se ne parlava, molte si vergognavano. Scoprire che la mia storia era quella di tante altre mi ha fatto capire che non andava tutto così male: sì, ho dolore, sì, ogni tanto mi devo fermare, ma per fortuna posso vivere. E avere aiutato me stessa ha fatto sì che potessi aiutare altre ragazze nello stesso percorso. È un po’ una catena, no?».

A quella catena si è aggrappata Alessandra. «È bastato guardare negli occhi le altre per capire che abbiamo subìto le stesse cose. Tra noi non servono tante parole; quando invece proviamo a spiegarlo a chi ci sta vicino, spesso ci stanchiamo. Non sempre riescono a dare il giusto peso a quello che abbiamo patito». Lei con l’endometriosi combatte dal 1997. All’epoca, nessuno le aveva spiegato di cosa soffrisse: «Mi hanno dato un fascicoletto e mi hanno detto: la tua è solo sfortuna». Da allora, ha subìto sei interventi. Il dolore continuava, e solo dopo dieci anni si è capito che la malattia si era arrampicata per i nervi delle gambe, fino al coccige, all’intestino, ai reni: «Cominciavo a pensare di essere pazza». Anche se il dolore è ancora estenuante e vive con lei ogni giorno, con il tempo ha compreso che l’endometriosi «fa più male dentro, che non al corpo. E nessuno riesce davvero a capirlo. Fai esami invasivi che ti tolgono la dignità, prendi medicine che ti rubano la femminilità, punture che ti fanno andare in menopausa per sei mesi e non sei neanche più tu, ti cambia il carattere. Dopo il terzo intervento, ho cominciato ad avere attacchi di panico: sono fuggita due volte dalla sala operatoria. Non riesco più nemmeno a entrare in un ospedale, mi fanno soffocare. Mio fratello mi dice: è passato. È vero, ma quelle cose ti restano dentro, e ogni tanto riaffiorano».

Mi racconta con voce sottile di una visita dal ginecologo a vent’anni, dell’umiliazione quando lui le ha chiesto se provasse dolore durante i rapporti e poi si è messo a ridere nel sentire che era ancora vergine. «Io non cercavo il sollievo, cercavo un medico umano: ecco perché ho cambiato tanti ospedali. Ogni volta entravo e mi sentivo come i vestiti che le commesse piegano e mettono via. Vorrei che quello che è successo a me non succedesse ad altre».

Per questo ha cominciato a fare la volontaria, e intanto ha cambiato la traiettoria dei suoi sogni. «Ho dovuto lasciare l’università perché non riuscivo a studiare con la terapia del dolore, e so che non potrò diventare madre. Ma cerco il bello in altre cose. Ho dei nipoti che amo come figli miei, mi basta stare con loro perché tutto diventi luce. Ora posso stare seduta più a lungo, e ho ritrovato il piacere della lettura, che avevo abbandonato. Ho adottato un gatto, mi fa ridere. L’endometriosi ci porta via tante cose. Per non vivere con il rancore, non mi sono mai chiesta: perché a me? In fin dei conti, siamo tre milioni di donne: perché non a me? Non mi sento più meritevole delle altre».

Un discorso simile se lo ripete Elisa. Mentre parla ha la felicità che si infila tra una parola e l’altra: è incinta di quattro mesi, aspetta due gemelli. «A volte ti senti in colpa. Io posso e un’altra no, chissà perché me lo sono meritato». Un po’ crede alla fortuna, un po’ al destino. Quello che un giorno, mentre si faceva visitare per quei dolori «che pensi di essere matta», le ha messo davanti un dottore bravo ma con una giornata no, e allora lei non si è sentita capita, ha cambiato centro, persino città, e da lì si è aperto quello che chiama «il mio calvario». «Mi hanno detto che ero da operare d’urgenza, sono entrata in ospedale a maggio e sono uscita a settembre, dopo quattro interventi. Ovaie, appendice e poi il retto: ma sono andati troppo a fondo, sono finita in peritonite». Ricorda ancora il terrore del risveglio dall’anestesia nella notte, con il sacchetto della colostomia sulla pancia, senza sapere cosa fosse. Due anni fa, l’ultima operazione: «Ero come incollata dal diaframma all’utero, hanno dovuto staccarmi il fegato. Ma io sono una di quelle più fortunate. Mi hanno tolto le tube, dicevano che non avrei mai potuto avere figli, né fare inseminazioni. Poi il mio ginecologo mi ha convinta a fare comunque un tentativo. Mi avevano dato una probabilità del 5% di restare incinta: a volte l’impossibile, non si sa come, diventa possibile». Ricorda il periodo in cui non credeva sarebbe successo, i pianti di un mese intero. «Vedevo solo pancioni e passeggini. Avevo amiche che intanto avevano partorito e facevo parte, giustamente, delle loro vite. Forse è quello che mi ha aiutato: piangere quando era ora di piangere, parlarne quando era ora di parlarne, ma non tirarmi indietro».

Dopo la diagnosi, racconta, la prima reazione era stata pensare che per colpa sua il suo compagno non sarebbe diventato padre. «Gli ho detto subito che dovevamo lasciarci. Ho iniziato a tenerlo lontano: stufati, almeno ti trovi una ragazza normale, migliore. Per fortuna, lui non è stato un codardo come tanti altri, ed è rimasto. Stiamo insieme da dieci anni, anche se abbiamo avuto momenti non facili, con in più quello che la vita comporta. È mancato suo padre, poi il mio, tutto insieme». Che era forte, Elisa, dice di averlo capito dopo, quando si è rialzata. Anche troppo: era quella-che-non-bisogna-chiedere-mai, quella-che-bisogna-fare-tutto-da-sola. Continuava ad andare in palestra fino a un mese dall’operazione, continuava a ballare. Solo adesso che è incinta, per la prima volta, si è fermata.

«A volte spero che siano due maschi, così non avranno i miei problemi. Sono felice, ma ho anche paura di non riuscire a fare tutto come un’altra mamma. Perché nel frattempo la malattia è tornata, lo so che c’è, dentro. Tutti festeggiano quando vanno in pensione; io farò una gran festa quando andrò in menopausa, perché vorrà dire che finalmente è finita». Si ferma, poi ride. «Sai qual è la verità? L’endometriosi è proprio stronza».

Francesca Bussi

Beatrice Lento

Laureata in Psicologia Clinica, Tropeana per nascita e vissuti, Milaniana convinta, ha diretto con passione, fino all'Agosto 2017, l’Istituto Superiore di Tropea. I suoi interessi prevalenti riguardano: psicodinamica, dimensione donna, giornalismo, intercultura, pari opportunità, disagio giovanile, cultura della legalità, bisogni educativi speciali.

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