Archivio mensile 26th Ottobre 2018

Pupella Maggio

A due anni mi portarono in scena dentro uno scatolone legata proprio come una bambola perché non scivolassi fuori. E così il mio destino fu segnato. Da “Pupatella” attraverso la poupée francese, divenni per tutti “Pupella” nel teatro e nella vita.

‘Namo donne che oggi só matta

Non ho voglia di puntellare, oggi.Ho esaurito la pietas

per fragilità immemori.
Non ho voglia di chiosare, oggi.

Ha bevuto, il plumbago,

e sa ricompensare.
Non ho voglia di pescare, oggi,

refusi propri e altrui

sul pelo dello stomaco.
Non ho voglia di ballare, oggi,

la quadriglia dei cannibali

all’idiota.
Punto i piedi, faccio la verticale,

salgo sullo sgabello

e canto.

Anna Maria Curci

3 settembre 2013

Madame Chevrot

Professione : ex stiratrice

È da molto

che non vedo Madame Chevrot,

la donna che di solito

incontravo nella strada principale.

Mi sorrideva

e il suo sorriso mi costringeva a fermarmi,

anche se avevo fretta,

per parlare del tempo,

della sua bellezza di un tempo

e degli uomini che l’hanno amata.

Madame Chevrot è piccola,

un naso grosso come una melanzana

e pochi denti

rotti e neri,

Lei giura con fierezza, che sono veri.

Elegante, per quanto l’età lo permetta.

Truccata, tanto che le cascano le palpebre …

Al nostro ultimo incontro

mi ha raccontato

di aver conosciuto un uomo

nella sala da ballo

dove stava imparando la salsa.

Lui avrebbe tanto voluto vivere con lei …

Ma lei?

Lei esitava,

divisa tra rinunciare alla sua libertà

e rinunciare al suo russare,

perché, mi diceva,

è tutto quello che lui può offrirle

la notte.

Maram al Masri

Piccole Donne: auguri!

Compie 150 anni il romanzo che dopo tanti anni é ancora una lettura attuale.

La più moderna ed emancipata é Jo, la protagonista che sceglie e decide autonomamente il suo futuro rifiutando di seguire le regole di una sicietà che alle donne chiedeva solo obbedienza.

Particolare curioso: in una stravagante critica in occasione della ricorrenza il personaggio di  Jo é stato interpretato in chiave transgender.

Marta Baiocchi

La biologa Marta Baiocchi ha scritto un libro che trasforma completamente la nostra idea di maternitá.

” Si” risponde” giá oggi madre può significare cinque cose diverse: quella tradizionale, quella adottiva, la donna che mette a disposizione l’ovulo e quella che porta avanti la gravidanza, infine  la madre che alleva il bambino”

” Le donne decideranno quando avere un bambino senza rinunciare alla carriera, da questo punto di vista é interessante la possibilità di congelare gli ovuli a 20 anni, quando la fecondità é maggiore”

” Si stanno sperimentando placente artificiali, magari rivestite di cellule endometriali umane, che permettono a un bambino nato prematuro di completare il suo sviluppo”

” Le nuove opportunità scientifiche favoriranno le donne, i cui corpi saranno sempre più sollevati dalla parte della maternitá legata a fatica, dolore e rischi di salute, con lunghi mesi a casa dal lavoro per gravidanze a rischio che penalizzano la professione” 

Si tu fusse

si tu fusse pioggia, vurria tu mi pioviss tutt’indosssi tu fusse sass, vurria tu me pigghiass in frunt

si tu fusse sputazz, nell’occhio mio, io te prenderia

si tu fusse bastuni, milla et poi milla bastunate sullo mio groppone

si tu fusse n’onda nomala, t’aspettaria sulla piaggia

firmo, fino a esse travolgiut

si tu fusse terremota, inghiuttit dalle terre io vurria esse

si tu fusse nu plutuni t’esecuziuni, firmo, sine benda

allo muro, sorridento, aspettaria di proiett esse trafitt

si tu fusse nu lione, le mie carni inte fauce tua

si tu fusse nu cancre malignissim, tutte le mie cellule sane

te daria d’ammalare

si tu fussa lu boia armat de scure, lo mio coll porgeria teco

e alla lama toia sine spaventa
tutte coteste coeuse

et altre milla ancora

faria pettè

bella bellilla dagl’occhi morbidi
Guido Catalano

Diritto di voto a Suore e Ragazze

Religiosa delle Figlie di Maria ausiliatrice, suor Alessandra Smerilli ha 43 anni ed è originaria di Vasto (Chieti). Insegna Economia politica ed elementi di statistica alla Pontificia Facoltà di Scienze dell’educazione “Auxilium” di Roma. Nel 2014 ha conseguito il dottorato in Economia presso la School of Economics della East Anglia University (Norwich, Regno Unito), mentre nel giugno 2006 il dottorato di ricerca in Economia politica presso la Facoltà di Economia della “Sapienza” di Roma. È socia fondatrice e docente della Scuola di Economia Civile e membro del comitato etico di Etica SGR. Ha scritto a quattro mani con Luigino Bruni L’altra metà dell’economia (Città Nuova, Roma 2015) ed è in corso di pubblicazione il volume Carismi, economia, profezia: la gestione delle opere e delle risorse, con l’editrice Rogate.
-Lei è l’unica donna presente nel Comitato delle Settimane sociali e l’ultima edizione (Cagliari, 26-29 ottobre 2017) ha visto un’esigua presenza femminile. Quali attese e spazi di responsabilità intravede per le donne nella Chiesa italiana, oggi? 
Sono profondamente convinta che la Chiesa è meno Chiesa e l’umano è meno umano se le donne non partecipano ai processi decisionali, se non esercitano responsabilità. Non si tratta di occupare spazi o di gestire poteri: questo è molto poco femminile. Ci sono attenzioni, sensibilità, modi di vedere la realtà, attenzione ai processi, che faticano a emergere in contesti prettamente maschili. 
Purtroppo le strutture ecclesiastiche italiane sono molto maschili, e questo genera quello che in economia viene chiamato un processo di selezione avversa: le donne si sentono poco attratte da alcuni ambienti. Ad esempio mi accorgo che le donne più in gamba che conosco, dopo aver provato a dare il proprio contributo all’interno di strutture ecclesiastiche, preferiscono spendere la propria professionalità altrove, dove c’è meno da lottare per essere riconosciute alla pari degli uomini. Nello stesso tempo gli uomini, non sentendosi sollecitati a pensare e ad agire diversamente, senza forse neanche rendersene conto, continuano a perpetuare schemi, modi di fare e di organizzarsi che lasceranno sempre le donne sull’uscio. Credo ci sia bisogno di affrontare serenamente e apertamente la questione, per intraprendere processi che ci rendano tutti più consapevoli dell’urgenza di un cambiamento. Non ritengo che la strada sia quella dell’apertura al sacerdozio per le donne, bensì, come sostiene papa Francesco, di una de-clericalizzazione delle strutture ecclesiastiche. 
-Come è possibile oggi conciliare vita personale e lavorativa? Che cosa consiglierebbe a giovani donne che si affacciano al mondo del lavoro, desiderose di realizzarsi dal punto di vista professionale, senza sacrificare il tempo per sé e per gli altri? 
Il tema dell’armonizzazione della vita lavorativa con quella familiare è oggetto di un fraintendimento: erroneamente, e soprattutto in Italia, nel passato si è considerato quello della conciliazione un problema al femminile, come se solo la donna debba prendersi cura della famiglia. Una cultura aziendale non discriminante dovrebbe invece rendere normale il fatto che sia gli uomini sia le donne possano avere aiuti nel conciliare i tempi di lavoro e quelli della vita familiare.
Fatta questa precisazione, in Italia oggi è molto difficile realizzarsi dal punto di vista professionale senza sacrificare relazioni, affetti e famiglia. E lo è soprattutto per le donne, per le quali la maternità è ancora troppo penalizzante per le prospettive di carriera. Troppe, sono ancora costrette a scegliere tra famiglia e lavoro, ma questa scelta funziona fino a quando i figli sono piccoli e richiedono accudimento a tempo pieno, poi porta a insoddisfazione di vita e penalizza l’espressione delle proprie potenzialità e dei propri talenti. 
Alle giovani donne suggerirei di condividere da subito con il compagno di vita le proprie aspettative lavorative e familiari, o almeno di non scendere a patti sulla suddivisone del lavoro in casa e fuori: «Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio» recita un proverbio africano. Un bambino che nasce è un bene per tutti, e quindi tutti devono occuparsene. Direi che dovremmo passare dall’idea che per poter lavorare le donne debbano sacrificare qualcosa, a un nuovo modo di concepire la società e la realizzazione nella vita. Oggi vediamo come pienamente realizzata una persona che lavora 15 ore al giorno, che non ha tempo per altro, che per svolgere bene il proprio lavoro deve delegare ad altri i suoi impegni e doveri, come il prendersi cura della casa, degli altri, della famiglia. Dovremmo invece tutti comprendere che una persona è meno persona se non si occupa della cura della famiglia e delle relazioni. Un bravo professionista non è una persona eccellente se non sa neanche stirarsi una camicia, se non ha tempo da passare con un anziano o un bambino. E le attività di cura sono beni d’esperienza, ovvero si percepiscono come tali solo quando le si vive. Le donne, che per storia e per sensibilità sono state sempre maestre nell’arte della cura, oggi hanno il compito di insegnarla anche agli uomini: è un compito educativo imprescindibile se vogliamo che qualcosa cambi nella nostra società.

Dal Web

I fiori del male: donne in manicomio nel regime fascista

Alla Casa della Memoria e della Storia di Roma fino al 18 novembre la mostra I fiori del male. Donne in manicomio nel regime fascista. La mostra, a cura di Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante, è nata dalla volontà di restituire voce e umanità alle donne vissute durante il Ventennio che furono estromesse e marginalizzate dalla società dell’epoca.
I volti di figlie, madri, mogli, spose, amanti finite in manicomio sono affiancati da diari, lettere, relazioni mediche che raccontano la femminilità a partire dalla descrizione di corpi inceppati e restituiscono l’insieme di pregiudizi che hanno alimentato storicamente la devianza femminile.
Durante il regime fascista si ampliarono i contorni che circoscrivevano i concetti di emarginazione e di devianza e i manicomi finirono con l’accentuare la loro dimensione di controllo e di repressione; tra le maglie delle istituzioni totali rimasero imbrigliate anche quelle donne che non seppero esprimere personalità adeguate agli stereotipi culturali del regime o non assolsero completamente ai nuovi doveri imposti dalla “Rivoluzione Fascista”.
Alle immagini, esposte nella mostra, sono state affiancate le parole: quelle dei medici, che ne rappresentarono anomalie ed esuberanze, ma anche le parole lasciate dalle stesse protagoniste dell’esperienza di internamento nelle lettere che scrissero a casa e che, censurate, sono rimaste nelle cartelle cliniche. Il manicomio, in questo senso, è stato un osservatorio privilegiato dal quale partire per analizzare i modelli culturali – di matrice positivista – che hanno storicamente contribuito a costruire la devianza femminile e che durante il Ventennio furono ideologicamente piegati alle esigenze del regime. Il lavoro di ricerca e di valorizzazione condotto su questi materiali ha permesso di recuperare una parte fondamentale della nostra memoria e di restituirla alla collettività.

Dal Web

Il coraggio delle Donne

“So di rischiare la vita ma so anche che il mio Paese ha bisogno di me”

A dichiararlo una delle tante donne impegnate in questi giorni in Afghanistan nelle elezioni legislative. 

I talebani sono particolarmente feroci nei confronti delle donne che si sono candidate ma anche verso quelle che si stanno impegnando nelle campagne elettorali ma loro non si lasciano intimorire. 

Qualcosa si muove anche a quelle latitudini e le Donne faranno la differenza, ne sono certa. 

Chiunque cagiona la morte…

Tanto, ci volle, per cancellare infamità del “delitto d’onore” ma anche del “matrimonio riparatore” in Italia: la data? 1981 .
Fu il Parlamento Italiano ad abrogare la “rilevanza penale della causa d’onore”, una disposizione tremenda, retriva e umiliante specialmente per le Donne che ne erano le prime vittime. Si trattava di un “residuo legislativo” del Codice Rocco (anni Venti), in vigore dal Fascismo, e in forte contraddizione con il Nuovo Diritto di famiglia e il divorzio, vigenti da tempo nella legislazione italiana.
Su tutto ciò ironizza, con un fondo di tragico realismo, anche il nostro Cinema migliore, pluripremiato anche all’estero, con i film: Divorzio all’italiana, di Pietro Germi, con Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli, Daniela Rocca, Lando Buzzanca e Leopoldo Trieste, tratto dal romanzo Un delitto d’onore di Giovanni Arpino; Sedotta e abbandonata pure di Germi, del 1964, con Stefania Sandrelli e Saro Urzì; La ragazza con la pistola, una coproduzione Italia-Gran Bretagna del 1968, diretto da Mario Monicelli, con protagonisti Monica Vitti, Carlo Giuffrè, Stefano Satta Flores e Stanley Baker; La moglie più bella, del 1970, di Damiano Damiani che, segnando l’esordio assoluto nel cinema italiano di Ornella Muti come protagonista, all’età di soli 14 anni, è ispirato alla storia di Franca Viola, di cui diremo; Pasqualino Settebellezze, con Giancarlo Giannini, Shirley Stoler, Fernando Rey, Elena Fiore, Roberto Herlitzka, in cui Lina Wertmuller, nel 1976, trattò il delitto d’onore in epoca fascista (poi nominato per quattro Premi Oscar nel 1977).
All’inizio del 1963, quando Pier Paolo Pasolini viaggiò con Alfredo Bini sul territorio italiano realizzando un’inchiesta sulle abitudini sessuali degli italiani, e attraverso domande quali “Secondo lei, c’è una parità sessuale tra l’uomo e la donna, o no?”, e “Cos’è l’onore di un uomo?”, ci consegnò una realtà sconfortante, nella disarmante verità e semplicità degli intervistati o nella loro capacità di analisi; per esempio:
PASOLINI: “Secondo lei, Cambria (Adele, n.d.R.), c’è una parità sessuale tra l’uomo e la donna, o no?”
ADELE CAMBRIA: “Non c’è ancora perché io direi che nemmeno la donna ha il coraggio di pretenderla. Ha paura di perdere alcuni vantaggi tipicamente borghesi, per esempio in Italia ancora il concetto della ragazza-madre è una colpa gravissima, a meno che non sia riscattata dalla popolarità.”
PASOLINI: “Ma strano però questo, perché quando una donna è libera in tutti gli altri campi, perché ancora nel campo sessuale deve essere arretrata e schiava?”
CAMILLA CEDERNA: “Sono sempre casi isolati, di una classe un po’ avanzata, insomma, sono casi di una élite a cui lei ha la fortuna di appartenere, no?”
Cercando il suo protagonista – il Cristo, poi interpretato dallo studente Enrique Irazoqui – per Il Vangelo secondo Matteo, diede alla luce quel Comizi d’amore, film-documentario del 1965 in cui emerse il blocco culturale e morale di un Paese assai indietro anche e soprattutto sulle questioni attinenti alla parità e libertà sessuale che la Chiesa cattolica inibiva e che la stessa legge italiana disattendeva da tanto.
Ricordiamo qui il dettato originario della norma del Codice Penale, art. 587:
“Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.

(…)

Non è punibile chi, nelle stesse circostanze, commette contro le dette persone il fatto preveduto dall’articolo 581”.
E’ questo l’articolo che fu finalmente soppresso il 5 agosto 1981 grazie al n. 442, che abroga la rilevanza penale della “causa d’onore” ( http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1981-08-05;442). Leggendo le date, si evidenzia come, addirittura anche dopo il referendum sul divorzio (1974) e la riforma del diritto di famiglia, il codice penale concedesse, quindi, la riduzione della pena per chi uccidesse la moglie (o il marito, nel caso che fosse la donna ad essere stata tradita: ma in questo caso – i numeri parlano chiaro – la reazione estrema e sanguinosa era assai più rara), la figlia o la sorella, in uno stato d’ira che si riteneva sempre inevitabile e presunto, al fine di difendere, appunto, “l’onor suo o della famiglia” leso a causa di una “illegittima relazione carnale”.
Nell’ordinamento penale italiano, la prima innovazione si deve alla Corte Costituzionale che aveva sancito l’incostituzionalità dell’art. 559 del codice: esso prevedeva la punizione del solo adulterio e concubinato da parte della moglie ma non considerando anche quella del marito.
Quanto all’istituto del “matrimonio riparatore”, esso annunciava l’estinzione del reato di stupro nel caso in cui il colpevole accettasse di sposare la propria vittima, come richiesto dai parenti di costei, spesso minorenne, che così era martirizzata due volte e per sempre… Tale incivile pratica presumeva di salvare “l’onore della famiglia” poiché, ancora, la violenza carnale era considerata un reato non contro la persona (abusata) ma contro la morale… Il Dispositivo dell’art. 544 Codice Penale, pure abrogato dalla l. 5-8-1981, n. 442 , nel testo originario così disponeva:
“Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
Un disegno di legge dell’on. Reale, mentre era Guardasigilli, e la revisione dell’ordinamento penale condotta da Giuliano Vassalli avevano tentato di abrogare le norme del Codice Rocco senza riuscirvi, per interruzione della legislatura, già nel 1968; e se i movimenti delle donne (non solo quelli femministi) avevano da tempo lottato perché le norme fossero abolite, rivedendo tutto l’impianto giuridico italiano relativo al matrimonio, allo stupro, alla separazione, ai figli, si deve a una giovanissima ragazza siciliana un grande atto che cambiò fortemente le cose: Franca Viola (Alcamo, 9 gennaio 1947), che fu la prima donna italiana a rifiutare la legge del “matrimonio riparatore”.
Nel 1965 Franca fu violentata ad Alcamo da un mafioso della zona e per evitargli la condanna, come previsto dal famigerato citato art. 544 del Codice Penale, avrebbe dovuto sposare il suo aguzzino ma la ragazza si ribellò respingendo quello che sarebbe stato per lei un insopportabile, avvilente destino mascherato da tutela per sé e per la sua famiglia.
“Al tuo corpo dolente, al tuo corpo violato dovrai dire niente ci fu!” [1]
La ragazza – strenuamente difesa e aiutata da quel Ludovico Corrao che fu Sindaco di Gibellina, intellettuale e mecenate, oltre che abile avvocato – divenne, per questo suo gesto di grande coraggio e dignità, un simbolo della crescita civile dell’Italia nel secondo dopoguerra e dell’emancipazione delle donne italiane. In molte imitarono la sua scelta, fino a quando, nel 1981, l’articolo del Codice penale fu abolito. Tempo dopo, Franca, che trascorse una vita lontana dai media e nell’assoluto anonimato, raccontò:
“Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi ragazza: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile. Io l’ho fatto in una Sicilia molto diversa; loro possono farlo guardando semplicemente nei loro cuori” [2]
Passò molto tempo da questa ribellione sacrosanta, e dai piccoli grandi rifiuti di donne abusate; poi, i grandi movimenti d’opinione e civili, la travolgente trasformazione dei costumi, il referendum sul divorzio del 1974 e sull’aborto del 1981, le modificate condizioni politiche nel paese e in parlamento ma anche le Arti visive e il lavoro di tante intellettuali, creative e artiste donne, portarono, finalmente, alla legge n. 442. Tanto, però, c’è ancora da fare, per dare al nostro Paese una vera equità giuridica, etica e sociale, una reale parità tra generi e il rispetto del corpo, dell’anima e della dignità di un cosiddetto Sesso debole – o Secondo sesso [3] – per i quali le prime a impegnarsi debbono essere proprio le Donne, iniziando a non permettere che continui a passare la liceità della propria mercificazione, pretendendo leggi a propria tutela, e battendosi insieme, al di là delle divisioni politiche, contro un “femminicidio” in allarmante crescita costante e che solo in una Penisola delle favole potremmo non considerare (essendo il delitto un crimine a prescindere: contro la persona, qualunque essa sia) ma che in Italia – ma solo per fermarsi qui – è, come l’omofobia, contro “una categoria” perché considerata tale.

Barbara Martusciello