Archivio mensile 10th Ottobre 2018

Kusama

Un eterno moltiplicarsi di pois di diverse dimensioni in un complesso mondo dai colori forti, frutto di allucinazioni che l’hanno tormentata fin da bambina. Così cominciò la storia artistica di Yayoi Kusama, l’88enne giapponese che da qualche anno ha deciso di vivere in un manicomio. L’artista in tutte le sue opere ha sempre riproposto gli stessi motivi, usandoli in forme e applicazioni diverse. Tra i più ricorrenti, i pois, le forme falliche, gli occhi e i volti di profilo. La sua grande produzione artistica le ha consentito di allestire in contemporanea due semi-retrospettive in due parti del mondo: Tokyo e Washington. Le mostre, iniziate a febbraio 2017, si concluderanno entro fine maggio.

La storia di Yayoi Kusama

Kusama ha cominciato a dipingere a 7 anni, da quando ha iniziato ad avere disturbi mentali ed emotivi. A 10 sono iniziate le allucinazioni e la pittura è stata il mezzo che le ha permesso, fin da bambina, di esternare il suo complesso mondo interiore. Nata nel 1929, a fine degli anni ’50 si trasferisce a New York, attirata dal potenziale sperimentale della scena artistica dell’epoca. Nel 1959 crea i suoi primi lavori della serie Infinity Net, grandi tele lunghe quasi 10 metri. Sempre negli stessi anni elabora una nuova serie di opere d’arte chiamata Accumulatium o Sex Obsession. Ritorna in Giappone, durante i primi anni ’70, dove inizia a scrivere poesie e romanzi surreali.
Le sue opere sono esposte, come mostre permanenti, al Museum of Modern Art di New York, al Walker Art Center di Minneapolis, alla Tate Modern di Londra e al National Museum of Modern Art di Tokyo. Dalla fine degli anni ’70 Yayoi vive nell’ospedale psichiatrico Seiwa, in Giappone, per scelta personale, ma continua a dipingere ogni giorno nello studio a Shinjuku.
Le ultime opere

Kusama, pur avendo 88 anni, è ancora molto attiva artisticamente e sta producendo molte nuove opere che vanno a completare la collezione “My Eternal Soul” esposta in parte in questo momento a Tokyo. Anche in questo caso ricorrono gli stessi motivi, è come se l’artista dipingesse ripensando alla giovane ragazza che era ma con una prospettiva diversa. Kusama ha già completato più di 500 opere, con un lavoro finito ogni due tre giorni. “Ciò che distingue – racconta Yusuke Minami, curatore principale del National Art Centre di Tokyo – le opere più recenti dalle precedenti è il tocco pittorico più deciso e con maggiori dettagli”. Kusama è consapevole di essere arrivata quasi alla fine della sua vita – si legge sul sito della Cnn – e la nuova collezione sembra essere un regalo dell’artista per le nuove e future generazioni.

Luisa Berti

Thandiwe

Ho 15 anni, prima di restare incinta frequentavo il settimo anno, volevo diventare uno chef.

Poi ho incontrato un ragazzo più grande di me.

Ci siamo visti cinque volte in tutto.

Quando hanno saputo che ero incinta mi hanno costretta a sposarlo.

Nel corso della gravidanza lavoravo nei campi.

Quando è iniziato il travaglio mi hanno portata in ospedale.

Il parto é durato due giorni.

Non voglio avere altri bambini.

Forse quando Anna sarà grande.

A lei dirò:” Bambina mia, finisci di studiare, non affrettarti a sposarti”
Ph Pieter ten Hoopen

Mamma bambina: Mulenga

Ho 14 anni e prima di avere una bambina mi piaceva giocare a calcio.

Non sapevo che potevo restare incinta, a scuola non ti insegnano queste cose.

L’ho detto a lui ma mi ha risposto che non c’entrava e non gli interessava.

Così mio padre mi ha portato a casa di lui :” Questa bambina é incinta me la potrete riportare solo dopo aver pagato 5mila kwacha”

Ero spaventata dal parto, quando l infermiera mi ha spiegato pensavo che sarei morta.

Ora che è nata ho paura per il suo futuro: chi comprerá cose come il sapone e i vestiti?

Filumena

Erano ‘e tre dopo mezanotte.

P’ ‘a strada cammenavo io sola. D’ ‘a casa mia già me n’ero iuta ‘a sei mise.

(Alludendo alla sua prima sensazione di maternità) Era ‘a primma vota! E che ffaccio? A chi ‘o ddico? Sentevo ncapo a me ‘e voce d’ ‘e ccumpagne meie: «A che aspetti! Ti togli il pensiero! Io cunosco a uno molto bravo..».

Senza vulé, cammenanno cammenanno, me truvaie dint’ o vico mio, nnanz’ all’altarino d’ ‘a Madonna d’ ‘e rrose. L’affruntaie accussì (Punta i pugni sui fianchi e solleva lo sguardo verso  una immaginaria effige, come per parlare alla Vergine da donna a donna): «C’aggi’ ‘a fa’? Tu saie tutto… Saie pure pecchè me trovo int’ ‘o peccato. C’aggi’ ‘a fa’? » Ma essa zitto, nun rispunneva.

(Eccitata) «E accussì ffaie, è ove’? Cchiù nun parle e cchiù  ‘a gente te crede?… Sto parlanno cu’ te! (Con arroganza vibrante) Rispunne!».

(Rifacendo macchinalmente il tono di voce di qualcuno a lei sconosciuto che, in quel momento, parlò da ignota provenienza) «’E figlie so’ ffiglie!». Me gelaie. Rummanette accussì, ferma.

(S’irrigidisce fissando l’effige immaginaria) Forse si m’avutavo avarria visto o capito ‘a do’ veneva ‘a voce: ‘a dint’ a na casa c’ ‘o balcone apierto, d’ ‘o vico appriesso, ‘a copp’ a na fenesta… Ma penzaie: «E pecchè proprio a chistu mumento? Che ne sape ‘a ggente d’ ‘e fatte mieie? E’ stata Essa, allora… È stata ‘a Madonna! S’è vista affrontata a tu per tu, e ha vuluto parlà… Ma, allora, ‘a Madonna pe’ parlà se serve ‘e nuie… E quanno m’hanno ditto: “Ti togli il pensiero!”, è stata pur’essa ca m’ ‘ha ditto, pe’ me mettere ‘a prova!… E nun saccio si fuie io o ‘a Madonna d’ ‘e rrose ca facette c’ ‘a capa accussì! (Fa un cenno col capo come dire: “Si, hai compreso”) ‘E figlie so’ ffiglie!» E giuraie.

Suor Plautilla

Rinchiusa in un convento, senza maestri e senza modelli, Plautilla Nelli, nel ‘500 dipinge, prima donna a farlo, un’Ultima cena, vero capolavoro del genio creativo.

A 14 anni l’avevano vestita di bianco è fatta sdraiare per terra a braccia larghe.

Via il suo vero nome: Polissena Nelli, per diventare sposa di Gesù.

Ma nel grigio del convento si riappropria immediatamente del colore e fa della cura dei particolari la sua invincibile forza.

In calce alla firma dell’Ultima cena Plautilla scrisse:” Orate pro pictora” quasi a chiedere un pensiero per lei e per le tante artiste rimaste nell’ombra, grandissime e umili come Lei.

La strega

Era una festa d ‘estatee dodici anni lei compì,

e fu la prima volta che

negli occhi un uomo la guardò…

Curava l’orto di suo padre

e a guardarla lui si fermò:

era uno strano uomo che

quel che sapeva le insegnò.

E l’oro ora lei nella sabbia sa trovare,

in lucido argento la cenere mutare…

un corvo nero sarà, fuoco folletto se

solo lo vorrà

e quando lei canterà farà la luna trasalire.

un corvo nero sarà, fuoco folletto se

solo lo vorrà

Quello che c’è da sapere di questo mondo ora sa:

quel che è stato già,

tutto quello che sarà.

Era una festa d’estate

il giorno che passò di là

e fu la prima volta che

negli occhi un uomo la guardò…

Era una festa d’estate,

felice lei lo seguì,

lasciò la casa di suo padre

e per amore se ne andò.

E all’alba ora lei a piedi nudi sa ballare,

e strane erbe lei in fondo ai pozzi sa trovare…

un corvo nero sarà, fuoco folletto se

solo lo vorrà

e quando lei canterà farà la luna trasalire.

un corvo nero sarà, fuoco folletto se

solo lo vorrà

Quello che c’è da sapere di questo mondo

ora sa:

quel che è stato già,

tutto quello che sarà.

 

Writer(s): ANGELO BRANDUARDI

La moda contro i pregiudizi

Halima Aden wears Melinda Looi,(b. 1973, Malaysia) for Melinda Looi (est. 2012, Malaysia). Photography by Sebastian KimEversiva, rivoluzionaria, all’avanguardia, o specchio del suo tempo, la moda offre spesso – ed è un paradosso perfettamente insito nella sua condizione effimera – chiavi di lettura inaspettate dei fenomeni culturali e sociali: in questo senso la mostra che inaugura al de Young Museum di San Francisco dedicata alla moda musulmana, più che come una sfida va letta come una inedita ricognizione.

Contemporary Muslim Fashions– al plurale, perché l’Islam è una fede multiculturale e l’abbigliamento “prescritto” dai principi religiosi, s’adatta anche ai costumi e alle tradizioni locali – indaga il mondo della moda nei paesi musulmani – dai paesi arabi, all’estremo oriente – andando a scardinare, prima di tutto, quella generica idea di “costrizione” che abbraccia, agli occhi occidentali, la pratica del vestire “pudico”.
LA MODA CONTRO I PREGIUDIZI
“C’è chi crede che non ci sia alcuna moda tra le donne musulmane, ma è vero il contrario, con comunità di moda moderne, vivaci e straordinarie, in particolare in molti Paesi a maggioranza musulmana”spiega Max Hollein, Direttore e CEO dei Musei delle Belle Arti di San Francisco: per molti, anzi, un abbigliamento tradizionale, eppure perfettamente attuale nei tagli, nei dettagli e nei tessuti, assume la valenza di uno sdoganamento dei pregiudizi anti-musulmani, mostrando un’immagine positiva – lontana dall’idea di mortificazione che accompagna, soprattutto, il vestiario femminile.

Curata da Jill D’Alessandro e Laura Camerlengo con la consulenza dell’esperta in cultural studies Reina Lewis, la mostra del de Young affonda le sue radici negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando i clienti musulmani d’élite frequentavano le maison parigine e gli stilisti adattavano i modelli alle necessità dei nuovi compratori; racconta – con un’ampia sezione fotografica – le contestazioni femminili all’imposizione del velo, in Iran nel 1979 attraverso gli scatti di Hengameh Golestan; accosta oggetti – come il primo hijab sportivo creato da Nike – e opere d’arte come il poster Greater Than Fear di Shepard Fairey, dove una donna indossa provocatoriamente un velo stelle e strisce.
UNA NICCHIA DA SCOPRIRE
Lo spaccato che emerge è quello di una nicchia inaspettatamente vivace, che se da un lato – per il potere d’acquisto della sua fascia più elitaria – ha invogliato gli stilisti occidentali a ideare collezioni ad hoc (ad esempio quella recentemente presentata da Dolce&Gabbana), dall’altro ha stimolato la formazione e il successo di una nuova generazione di stilisti attivi a livello locale o di base all’estero. In mostra sono presenti: Faiza Bouguessa, Chadore Fyunkaa rappresentare l’area del Medio Oriente,Itang Yunasz, Dian Pelangi, Bernard Chandran per l’area del sud est asiatico; Céline Semaan Vernon di Slow Factory e Saiqa Majeed di Saiqa London sono invece un esempio di fashion designer che operano negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Infine dopo l’alta moda, un’incursione nel fast fashion, come quello proposto da Sarah Elenany e Barjis Chohan.

Maria Cristina Bastante

La moda contro i pregiudizi

Halima Aden wears Melinda Looi,(b. 1973, Malaysia) for Melinda Looi (est. 2012, Malaysia).

Photography by Sebastian Kim

Eversiva, rivoluzionaria, all’avanguardia, o specchio del suo tempo, la moda offre spesso – ed è un paradosso perfettamente insito nella sua condizione effimera – chiavi di lettura inaspettate dei fenomeni culturali e sociali: in questo senso la mostra che inaugura al de Young Museum di San Francisco dedicata alla moda musulmana, più che come una sfida va letta come una inedita ricognizione.

Contemporary Muslim Fashions– al plurale, perché l’Islam è una fede multiculturale e l’abbigliamento “prescritto” dai principi religiosi, s’adatta anche ai costumi e alle tradizioni locali – indaga il mondo della moda nei paesi musulmani – dai paesi arabi, all’estremo oriente – andando a scardinare, prima di tutto, quella generica idea di “costrizione” che abbraccia, agli occhi occidentali, la pratica del vestire “pudico”.
LA MODA CONTRO I PREGIUDIZI
“C’è chi crede che non ci sia alcuna moda tra le donne musulmane, ma è vero il contrario, con comunità di moda moderne, vivaci e straordinarie, in particolare in molti Paesi a maggioranza musulmana”spiega Max Hollein, Direttore e CEO dei Musei delle Belle Arti di San Francisco: per molti, anzi, un abbigliamento tradizionale, eppure perfettamente attuale nei tagli, nei dettagli e nei tessuti, assume la valenza di uno sdoganamento dei pregiudizi anti-musulmani, mostrando un’immagine positiva – lontana dall’idea di mortificazione che accompagna, soprattutto, il vestiario femminile.

Curata da Jill D’Alessandro e Laura Camerlengo con la consulenza dell’esperta in cultural studies Reina Lewis, la mostra del de Young affonda le sue radici negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando i clienti musulmani d’élite frequentavano le maison parigine e gli stilisti adattavano i modelli alle necessità dei nuovi compratori; racconta – con un’ampia sezione fotografica – le contestazioni femminili all’imposizione del velo, in Iran nel 1979 attraverso gli scatti di Hengameh Golestan; accosta oggetti – come il primo hijab sportivo creato da Nike – e opere d’arte come il poster Greater Than Fear di Shepard Fairey, dove una donna indossa provocatoriamente un velo stelle e strisce.
UNA NICCHIA DA SCOPRIRE
Lo spaccato che emerge è quello di una nicchia inaspettatamente vivace, che se da un lato – per il potere d’acquisto della sua fascia più elitaria – ha invogliato gli stilisti occidentali a ideare collezioni ad hoc (ad esempio quella recentemente presentata da Dolce&Gabbana), dall’altro ha stimolato la formazione e il successo di una nuova generazione di stilisti attivi a livello locale o di base all’estero. In mostra sono presenti: Faiza Bouguessa, Chadore Fyunkaa rappresentare l’area del Medio Oriente,Itang Yunasz, Dian Pelangi, Bernard Chandran per l’area del sud est asiatico; Céline Semaan Vernon di Slow Factory e Saiqa Majeed di Saiqa London sono invece un esempio di fashion designer che operano negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Infine dopo l’alta moda, un’incursione nel fast fashion, come quello proposto da Sarah Elenany e Barjis Chohan.

Maria Cristina Bastante

Nobel a Nadia Murad

 La battaglia di Nadia Murad, personale e di divulgazione al mondo di quello che ha significato in termini di violenze il regime dell’Isis, vede oggi il riconoscimento del Nobel per la pace. La Murad, che ha scritto un’autobiografia, ‘L’Ultima ragazza’ (pubblicata da Mondadori quest’anno) con la prefazione del suo avvocato Amal Alamuddin Clooney, è un simbolo delle sofferenze al limite del genocidio subite della sua comunità, gli yazidi, considerati dal Califfato adoratori del diavolo.
   A vent’anni aveva il sogno di truccare e pettinare le spose, e di aprire, magari dopo gli studi, un proprio salone di bellezza. Invece nel 2014 i miliziani dell’Isis sono arrivati a Kocho, il villaggio dove abitava nell’Iraq settentrionale, hanno ucciso gli uomini, fatto scomparire le donne anziane e rapito lei con altre ragazze e bambini. Divenuta schiava sessuale e provando sulla sua pelle l’ignobile orrore dello stupro come arma di guerra, Nadia è poi miracolosamente riuscita a scappare. Nell’autobiografia ha narrato il suo calvario, senza omettere nulla di ciò che ha subito affinché il mondo sapesse. Mentre era prigioniera, la ragazza é stata continuamente umiliata, brutalizzata, stuprata anche in gruppo: un inferno che sembrava senza fine e che ha minato la sua mente e il suo corpo, ma non ha distrutto la sua dignità, né il suo istinto di sopravvivenza, anche se più di una volta ha invocato la morte come unica fonte di liberazione.
“A un certo punto non resta altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio”, scrive Nadia, e il sangue si gela leggendo il suo racconto. Le sue parole, descrivono minuziosamente tutto il suo mondo in trasformazione: quello precedente alla cattura, fatto di povertà, di giornate piene di lavoro, di vita familiare ma anche di sogni e di affetti sinceri, e quello crudele del Califfato, buio e privo di ogni umanità. Fino ad arrivare alla liberazione, dovuta a un caso fortuito: quando il suo carceriere per disattenzione non ha chiuso a chiave la porta della casa di Mosul in cui era prigioniera, Nadia ha colto l’occasione ed è fuggita, trovando in sé un insperato coraggio. Nemmeno la paura della ritorsione l’ha fermata. Un coraggio, il suo, che l’ha portata a chiedere aiuto bussando a una porta a caso mentre Mosul era piena di terroristi: Nadia quegli uomini senza onore né anima li ha di fatto sfidati e li ha vinti, ed è riuscita a salvarsi ricongiungendosi con quello che resta della sua famiglia. Diventata ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite (ha vinto anche tra gli altri il premio Sakharov 2016 e Donna dell’anno 2016) la giovane persegue con tenacia il duplice obiettivo di divulgare il più possibile lo sterminio di migliaia di yazidi e di veder processati i suoi aguzzini come Abu Omar, il famigerato Barba Bianca. Una prima vittoria l’ha già ottenuta, con il Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha istituito un team investigativo per raccogliere le prove dei crimini dell’Isis. 

ANSA 

Forza di un bacio

Quanto silenzio

che si accumula

nel breve spazio da una bocca a un’altra

fino a fondare il bacio. Quanti anni

per scoprire alla fine quanto lontano, si, quanto lontani

si ritrovano sempre due corpi che si amano.

Tutto quello che mai siamo riusciti a dirci

in quella città d’autunno,

mi parla

col tuo accento di cose per sempre perdute.

E da qualche luogo

forse del disamore, o dell’oblio

di quello che mi ha reso felice, forse, un tempo,

– le tue mani, la tua pelle – mi giunge adesso

un odore di zagare che mi avvolge e che bacia

dolcemente i miei occhi, le mie labbra, un momento,

mentre chiudo il balcone.

Inmaculada Mengibar