Lisetta Carmi e la sua macchina per scrutare l’anima
“Spesso mi sono chiesta ‘da dove vengo’” Lisetta sembra chiedersi, “Ma come ho fatto a guardare il mondo e gli esseri umani in modo così naturale? Quando ho iniziato a fotografare non avevo alcuna preparazione. Come possono le mie foto, scattate in Puglia nel 1960 durante un viaggio con il musicologo Leo Levi, il cui obiettivo era registrare i canti della comunità ebraica di Sannicandro Garganico guidata da Donato Manduzio, avere già un significato e una forma? Vengo da una famiglia speciale, che fotografava in tempi lontani e che mi ha trasmesso in silenzio il desiderio di capire e di fissare con le immagini il mondo in cui viviamo. Quando vedevo le foto fatte da papà e mamma mi dicevo che non ne sarei stata capace. Ora, diverse vite più tardi, posso dire che ho lavorato nella fotografia solo per 19 anni, ma in questi anni ho fatto il lavoro di 50. Sempre sola, con la mia macchina fotografica, con interesse e passione per gli esseri umani, per situazioni estreme in questo mondo così ingiusto ma anche così affascinante. Un mondo che non ho sempre capito ma che ho fotografato per capire la vita”.
Quando guarda al passato, Lisetta Carmi afferma, a quasi 93 anni, di non aver vissuto solo una vita, ma ben cinque. Il disegno fatto dalla sua guida spirituale, Babaji Herakhan Baba, che la ritrae ha in effetti predetto la verità. Ciascuna delle sue facce, circondata da fiori di loto, rappresenta una vita diversa, a partire da quella della musicista, per poi proseguire con quella della fotografa, di guida spirituale, di musicista rinata, e di osservatrice silenziosa.
Oggi, Lisetta si siede sulla sedia nel suo studio e osserva dalla finestra: lì fuori c’è Cisternino, il paese pugliese che l’ha adottata e accolta da decenni ma che l’ha anche considerata un personaggio un po’ “diverso”. Circondata dalle sue foto, dai suoi libri e scritti, Lisetta ti fissa con uno sguardo penetrante colorato di verde che è allo stesso tempo freddo ed accogliente. La sua è un’occhiata che va oltre l’ovvio ed il superficiale per vedere di più, in ricerca della profondità dietro l’apparenza, sia nella vita vissuta che in quella catturata dalla sua fotografia. “Vedo quello che c’è, non metto quello che penso io sulle persone”, confessa.
Principalmente, Lisetta Carmi è conosciuta per la sua vita di fotografa, il cui lavoro è stato paragonato, fin dai primi scatti, a quello di Henri Cartier-Bresson. Una volta scoperta l’opera di Lisetta, le immagini de La Gitana, La Novia e La Morena, i travestiti che abitavano Via del Campo a Genova negli anni 60 e 70, o quelle dei portuali della sua città natia, o della fase espulsiva di un parto, dove si scorge la delicata testa di un neonato nel momento in cui abbandona il ventre della madre o del poeta americano Ezra Pound avvolto dal silenzio, saranno impossibili da dimenticare.
“Spesso mi sono chiesta ‘da dove vengo’” Lisetta sembra chiedersi, “Ma come ho fatto a guardare il mondo e gli esseri umani in modo così naturale? Quando ho iniziato a fotografare non avevo alcuna preparazione. Come possono le mie foto, scattate in Puglia nel 1960 durante un viaggio con il musicologo Leo Levi, il cui obiettivo era registrare i canti della comunità ebraica di Sannicandro Garganico guidata da Donato Manduzio, avere già un significato e una forma? Vengo da una famiglia speciale, che fotografava in tempi lontani e che mi ha trasmesso in silenzio il desiderio di capire e di fissare con le immagini il mondo in cui viviamo. Quando vedevo le foto fatte da papà e mamma mi dicevo che non ne sarei stata capace. Ora, diverse vite più tardi, posso dire che ho lavorato nella fotografia solo per 19 anni, ma in questi anni ho fatto il lavoro di 50. Sempre sola, con la mia macchina fotografica, con interesse e passione per gli esseri umani, per situazioni estreme in questo mondo così ingiusto ma anche così affascinante. Un mondo che non ho sempre capito ma che ho fotografato per capire la vita”.
Da piccola, Lisetta era una giovane pianista la cui famiglia venne perseguitata dal regime fascista. Nel 1938, a soli 14 anni, fu espulsa dalla scuola che frequentava a causa della sua appartenenza al popolo ebraico. Cercò di colmare il vuoto della sua nuova solitudine con il pianoforte, strumento che aveva iniziato a suonare all’età di dieci anni.
Solo qualche anno dopo, nel 1943, costretta a scappare in Svizzera, a piedi, Lisetta si trovò a valicare le Alpi; “Con una mano aiutavo mia madre, Maria Carmi Pugliese, e con l’altra tenevo i due volumi del clavicembalo ben temperato di Bach”. La sua passione per la musica si tradusse in una carriera da concertista promettente nonostante la sua naturale riluttanza ad esibirsi in pubblico. Un evento specifico, portò Lisetta, ormai giovane donna con un grande interesse per l’emarginazione e l’ingiustizia sociale, entrambe sperimentate sulla propria pelle, alla sua seconda vita.
“Ero a Genova, e volevo partecipare ad una marcia in supporto dei diritti del lavoro dei portuali, ma il mio insegnante di musica me lo proibì. Mi disse che era troppo pericoloso, che avrei potuto rompermi le mani. Gli risposi ‘se le mie mani sono più importanti del resto dell’umanità io da domani non suono più’”. Proprio in quel momento ebbe inizio il suo percorso di fotografa degli emarginati, dei meno fortunati e dei perseguitati. “Dicevo spesso a mio padre quanto mi dispiacesse non essere finita nei campi di concentramento, dove sarei morta o avrei potuto aiutare gli altri. Ho sempre avuto fin da piccola questo desiderio e non mi ha mai abbandonato”. Fu proprio suo padre a darle la prima macchina fotografica e Lisetta l’ha usata “per dare voce agli ultimi, quelli che non potevano parlare o che vivevano in situazioni orrende, schiacciati dai potenti di turno. I ricchi non mi interessavano”.
Lisetta finse di essere la cugina di uno dei lavoratori del porto e riuscì così ad infilarsi in quel mondo e a catturare le condizioni di lavoro degli uomini e le loro difficoltà su pellicola. Quel reportage, commissionatole dalla CGIL, è un documento unico, in grado di offrire una testimonianza visiva della forte identità sociale e culturale della Genova di quei tempi, ma è stato anche il primo passo lungo un percorso professionale che la fotografa ha dedicato all’impegno sociale.
Fino a quando, un giorno, nel 1965, un amico invitò Lisetta a festeggiare il Capodanno nel ghetto ebraico di Genova, in Via del Campo, area abitata da omosessuali e travestiti. Poco a poco riuscì a fare amicizia con alcuni membri della comunità ed iniziò a fotografarli. Ogni ritratto era un regalo. “In quegli anni, dal 1965 al 1971, le ho osservate, protette e ammirate, ho vissuto la loro sofferenza, la violenza e la degradazione della loro vita. Volevo solo conoscerle veramente, aiutarle e amarle”. Una collezione di tutti i suoi ritratti fu pubblicata nel 1972 con il titolo I Travestiti, grazie a Sergio Donnabella perché Lisetta non aveva intenzione di mettere in vendita il suo lavoro. “Non le avevo fotografate per il successo o per guadagnarci qualcosa. La pubblicazione affrontò diversi ostacoli, era considerata sconcia, ed infatti diverse librerie si rifiutarono di esporre il volume. Persino Cesare Musatti, psicanalista di fama, si rifiutò di presentarlo perché considerava i travestiti ‘delle persone da mettere in ospedale’”. Ci fu però anche chi supportò pubblicamente il libro, come gli scrittori Dacia Maraini, Barbara Alberti e Alberto Moravia.
L’esperienza nella comunità omosessuale non ebbe solo un impatto professionale sulla vita di Lisetta, ma anche uno profondamente personale. “Grazie a loro, ho imparato ad accettarmi. Quando ero bambina, osservavo i miei fratelli maggiori, Eugenio e Marcello, e volevo essere un maschio come loro. Sapevo che non mi sarei sposata e rifiutavo il ruolo che la società aveva assegnato alle donne. La mia esperienza con i travestiti mi ha fatto riflettere sul diritto che tutti abbiamo di determinare la nostra identità, sia essa quella di donna o quella di uomo, perché siamo tutti esseri umani”.
Lisetta ha catturato l’essenza della natura umana nei suoi ritratti del poeta americano Ezra Pound, fatti durante un brevissimo incontro, un faccia a faccia di esattamente quattro minuti, tenutosi nella sua casa a Sant’Ambrogio di Rapallo. Era l’11 febbraio del 1966. Gli scatti, 12 scelti su 20, sono considerati tra i suoi lavori fotografici più apprezzati e delle importanti testimonianze in bianco e nero che dipingono, “la solitudine, la disperazione, l’aggressività, lo sguardo perso nell’infinito, tutto ciò che è difficile dire a parole e la drammatica grandezza del poeta”.
Invitata da Gaetano Fusari, al tempo direttore del’ANSA di Genova, ad accompagnarlo ad intervistare Pound, Lisetta si armò della sua Leica 35 mm. Bussarono alla porta della piccola casa, e dopo alcuni istanti di silenzio, Pound uscì, ma sembrava perso. Stava lì, in piedi, in vestaglia e ciabatte, senza dire una parola, nonostante la loro presenza. Lisetta iniziò comunque a scattare, scatto dopo scatto, fino a quando il poeta decise di rientrare in casa. Silenzio.
Pound era vecchio e malato, ed era sopravvissuto a tredici anni di internamento nel manicomio criminale St. Elisabeths Hospital di Washington. “Quando ho sviluppato il rullino e ho selezionato le dodici fotografie finali, ho visto in esse esattamente quello che avevo provato mentre stavo scattando. Non abbiamo incontrato il poeta, ma l’ombra di un poeta”. Volendo condividere la sua esperienza con la famiglia di Pound, Lisetta gli spedì le immagini che sono col tempo diventate alcune delle più conosciute del poeta, usate spesso in libri dedicati al suo lavoro. Quel piccolo/grande reportage, rimane tuttora uno dei momenti più significativi della storia della fotografia italiana. Quelle fotografie le fecero vincere l’equivalente italiano del Niepce Prize e parole di elogio del grande Umberto Eco, che disse: “le immagini di Pound scattate da Lisetta dicono più di quanto si sia mai scritto su di lui, la sua complessità e natura straordinaria”. “Sono riuscita a raccontare non solo la sua fisionomia ma sopratutto il suo male di vivere”. Pound morì qualche anno dopo, nel 1972, e prima che la sua casa fosse messa in vendita, Lisetta chiese alla famiglia il permesso di tornare e fotografare a colori “quella casetta tra gli ulivi”.
Lisetta continuò a fare la fotografa e a viaggiare per il mondo – Afghanistan, America Latina, Israele, Palestina, ma anche Sicilia e Sardegna, sono solo alcuni dei paesi visitati da lei e dalla sua macchina fotografica – mentre si divideva tra Genova e Cisternino, paese dove aveva acquistato casa anni prima perchè sentiva che la Puglia fosse terra sacra e benedetta.
Nel 1976, ci fu un’ulteriore svolta e la transizione da una vita ad un’altra avvenne spontaneamente dopo un viaggio in India. Lì incontrò Babaji Herakhan Baba, il Mahavatar dell’Himalaya, che divenne la sua guida spirituale. “Mi ha chiamata a sé e mi ha mostrato la verità più profonda della vita. Quando l’ho visto per la prima volta mi sembrava di vivere ai tempi di Gesù, dove i discepoli ascoltavano il loro maestro. Sono andata a presentarmi e gli ho detto “Babaji, sono Lisetta,’ ‘Il tuo nome è Janki Rani’ mi ha risposto, e mi sono seduta accanto a lui. Ero in estasi, l’ho guardato, ma guardato veramente, e ho visto che era la manifestazione di Dio in forma umana, che era puro amore.”
Quella prima volta Lisetta, o meglio Janki, passò 25 giorni con il maestro divino. “In quei giorni assistetti all’annuncio della profezia di Mahakranti dove Babaji disse che il mondo, come lo conosciamo, stava per finire. Il 75% dell’umanità sarebbe stata distrutta e gran parte della terra sommersa dall’acqua. Gli umani sopravvissuti avrebbero dovuto affrontare l’acqua ed il fuoco e iniziare tutto da capo. I discepoli erano spaventati, ma io no. Ho scattato 36 fotogrammi dei loro volti spaventati. Io invece ascoltavo la profezia e sentivo la parola liberazione. È in questo modo che Dio ci avrebbe dato la possibilità di cancellare tutto il negativo e di ricominciare, con il trionfo dell’amore, della fratellanza e l’armonia”.
Dopo 25 giorni Lisetta dovette tornare in Italia per prendersi cura della mamma anziana, ma negli anni successivi visitò l’India più volte. Durante una di queste visite, Babaji le chiese di aprire un ashram a Cisternino, “un posto dove la gente potesse recarsi con i suoi problemi, dubbi e malesseri alla ricerca di supporto spirituale e di una direzione. Ho chiesto direttamente a Babaji cosa volesse veramente dall’ashram e mi ha risposto che doveva essere un posto di trasformazione per le persone che ci andavano per purificare il corpo e l’anima”.
La cura del corpo e dell’anima avevano ormai da un po’ preso il sopravvento sulla fotografia, e nonostante la mancanza di esperienza, Lisetta si lanciò in questa nuova missione senza pensarci due volte. Il Centro Bhole Baba fu inaugurato nel 1986 ed è identico all’ashram di Herakhan, India. “La vita nell’ashram era ed è per tutti la stessa, perché siamo tutti uguali. Non ci sono né i primi né gli ultimi. Il leone e la capra devono bere dalla stessa fonte”.
Nel 1992, mentre era presidente del centro, Lisetta creò La Voce di Cisternino, una pubblicazione semestrale che raccoglieva saggi, notizie e gli annunci di eventi tenutisi nell’ashram. Lei stessa scriveva la rubrica Notizie da Cisternino, dove si firmava Janki Rani. Nel 1998, tredici numeri più tardi, proprio nel suo editoriale, Lisetta annunciò il suo ritiro dalla guida dell’ashram ma che comunque sarebbe stata disponibile a parlare con chiunque ne avesse avuto bisogno. “Era giunto il momento di lavorare su me stessa. Mi sono spesso chiesta come fossi riuscita a vivere in un ambiente comunitario così impegnativo per tanto tempo ed ero alla ricerca di silenzio e solitudine”. Ma prima del silenzio, torna la musica.
Diverse circostanze portarono Lisetta a collaborare con un suo ex studente di musica, Paolo Ferrari. Medico e scienziato, ma anche psicoterapeuta e musicista, Ferrari è il creatore del metodo “Asistema in-assenza”. Lisetta non aveva più suonato il pianoforte da circa 35 anni ma fu invitata a frequentare i seminari di Ferrari a Milano dove avrebbe suonato alla fine di ogni sessione. “Il concetto è un po’ difficile da afferrare, ma i margini dell’assenza aprono vasti e inaspettati orizzonti di libertà. Entrare a conoscenza delle idee di Paolo e riavvicinarmi alla musica sono stati un vero miracolo. Fino a quel momento avevo imparato dalla vita tutto quello che dovevo imparare e stavo vivendo un ribaltamento dei ruoli. La maestra era diventata lo studente”. Dopo sei anni di viaggi a Milano, dove si tenevano i seminari, Lisetta capì che anche questa vita era giunta ad una fine. “Tutto stava iniziando a ripetersi ed era giunto il momento del distacco e del silenzio”. Lo stesso silenzio della disperazione di Ezra Pound, “di un’anima alla ricerca della verità così difficile da raggiungere? O il silenzio dei lavoratori del porto di Genova anonimi ed irriconoscibili immersi in un inferno dantesco”?
Avvolta nel silenzio e in compagnia della solitudine, Lisetta sta ora vivendo una vita nuova, la quinta. Questa è proprio quella che vuole. “Mi siedo sulla mia sedia” – sì proprio la stessa menzionata all’inizio di questo racconto – “e sto qua, guardo fuori o sto a occhi chiusi. Ricevo e scrivo moltissime lettere, leggo molto, mangio poco, bevo solo acqua calda e mi prendo cura della casa. Non ascolto musica, mi piace il silenzio. E quando mi chiedono ‘chi ti ha insegnato a fotografare’? Rispondo ‘la vita’. Perché ho solo osservato la vita, soprattutto quella degli ultimi”.
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