Archivio mensile 21st Giugno 2018

Deledda: la prima italiana a vincere il Nobel

Grazia Deledda è stata una delle più importanti e influenti scrittrici italiane del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, e nel dicembre 1927 vinse il premio Nobel per la letteratura, la prima donna italiana a farlo. Deledda fu esponente, anche se a modo suo, del verismo e del decadentismo, e scrisse sempre molte storie di contadini e paesani della sua terra, la Sardegna.
Grazia Deledda nacque a Nuoro, in Sardegna, nel settembre del 1871. Apparteneva a una famiglia benestante ed era la quinta di sette fratelli e sorelle. Ebbe un’istruzione intermittente – un po’ a scuola e un po’ con un insegnante privato – e iniziò a scrivere molto giovane, per conto suo. Le sue prime pubblicazioni arrivarono quando non aveva ancora 20 anni e il suo primo libro di qualche successo fu Anime oneste, del 1895. Pochi anni dopo, nel 1899, Deledda conobbe il mantovano Palmiro Madesani, che sposò pochi mesi più tardi trasferendosi con lui a Roma.A Roma Deledda continuò a scrivere e pubblicare romanzi. Elias Portolu, uscito nel 1903, ottenne subito un buon successo e Deledda poté dedicarsi con grande intensità alla scrittura. In pochi anni pubblicò moltissimi libri e opere teatrali, tra cui: Dopo il divorzio, Cenere, L’edera e Canne al vento. Il suo successo fu tale che il marito si licenziò dal lavoro come funzionario al ministero delle Finanze per diventarne l’agente di sua moglie. In tutto Deledda pubblicò 56 opere in circa 40 anni di carriera e fu apprezzata e tradotta anche all’estero.

Nel 1927, Deledda fu insignita del premio Nobel per la Letteratura “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Il Nobel di Deledda fu tecnicamente quello del 1926, che la commissione del premio aveva deciso di trattenere per un anno non avendo trovato un candidato adatto a riceverlo. Deledda fu la prima donna italiana a vincere un Nobel e la seconda italiana a vincerlo per la Letteratura, dopo Giosué Carducci nel 1906. Deledda morì per un tumore al seno, il 15 agosto 1936. Cosima, quasi Grazia un racconto autobiografico rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo con il titolo Cosima.

Grazia Deledda

Io non sogno la gloria per un sentimento di vanità e di egoismo, ma perché amo intensamente il mio paese, e sogno di poter un giorno irradiare con un mite raggio le fosche ombrie dei nostri boschi, di poter un giorno narrare, intesa, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza.Avrò tra poco vent’anni, a trenta voglio avere raggiunto il mio sogno radioso quale è quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda.

Sono piccina piccina, sa, sono piccola anche in confronto delle donne sarde che sono piccolissime, ma sono ardita e coraggiosa come un gigante e non temo le battaglie intellettuali.

Felicia Bartolotta

Felicia Bartolotta nasce in una famiglia di piccola borghesia con qualche appezzamento di terreno di proprietà, coltivato ad agrumi e ulivi. Il padre era impiegato al Municipio, la madre casalinga, come sarà anche Felicia.

Si sposa, nel 1947, con Luigi Impastato, di una famiglia di piccoli allevatori legati alla mafia del paese: «Io allora non ne capivo niente di mafia, altrimenti non avrei fatto questo passo» (così racconta nella sua storia di vita pubblicata nel volume La mafia in casa mia, da cui sono tratte anche le citazioni successive). In effetti Felicia sceglie di sposarsi con Luigi per amore, dopo avere preso una decisione non usuale a quei tempi nelle famiglie come la sua. Era stata fidanzata con un uomo scelto dal padre, mentre lei avrebbe voluto un giovane di un altro paese che le piaceva di più, ma non era benvoluto dalla sua famiglia. Ma poco prima del matrimonio, quando già era tutto pronto, disse al padre che non voleva più sposarsi e che non dovevano permettersi di prenderla con la forza (cioè, come si usava, non dovevano rapirla per la tradizionale fuitina).

Il 5 gennaio 1948 nasce Giuseppe; nel 1949 nasce Giovanni che morirà nel 1952; nel 1953 nasce il terzo figlio, anche lui Giovanni.

Luigi Impastato, durante il periodo fascista, aveva fatto tre anni di confino a Ustica, assieme ad altri mafiosi della zona, e durante la guerra aveva fatto il contrabbando di generi alimentari. Dopo non ebbe più problemi con la giustizia.

Uno dei suoi fratelli, soprannominato “Sputafuoco”, era impiegato come gabelloto (affittuario) in un feudo. Il cognato di Luigi, Cesare Manzella, marito della sorella, era il capomafia del paese. Manzella muore nel 1963, ucciso assieme al suo campiere (guardia campestre) dall’esplosione di un’auto imbottita di tritolo, durante la guerra di mafia che vide contrapposte la cosca dei Greco, con cui era alleato, e quella dei La Barbera. La morte dello zio colpisce profondamente Peppino, che aveva quindici anni e da tempo aveva cominciato a riflettere su quanto gli dicevano il padre e lo zio. Felicia ricorda che le diceva: «Veramente delinquenti sono allora».

L’affiatamento con il marito dura molto poco. Lei stessa afferma: «Appena mi sono sposata ci fu l’inferno. Attaccava lite per tutto e non si doveva mai sapere quello che faceva, dove andava. Io gli dicevo: ‘Stai attento, perché gente dentro [casa] non ne voglio. Se mi porti qualcuno dentro, che so, un mafioso, un latitante, io me ne vado da mia madre’». Felicia non sopporta l’amicizia del marito con Gaetano Badalamenti, diventato capomafia di Cinisi dopo la morte di Manzella, e litiga con Luigi quando vuole portarla con sé in visita in casa dell’amico. Il contrasto con il marito si acuirà quando Peppino inizierà la sua attività politica.

Per quindici anni, dall’inizio dell’attività di Peppino fino alla morte di Luigi, avvenuta otto mesi prima dell’assassinio del figlio, la vita di Felicia è una continua lotta, che però non riesce a piegarla. In quegli anni non ha più soltanto il problema delle amicizie del marito. Ora c’è da difendere il figlio che denuncia potenti locali e mafiosi e rompe con il padre, impegnandosi nell’attività politica in formazioni della sinistra assieme a un gruppo di giovani che saranno con lui fino all’ultimo giorno.

Felicia difende il figlio contro il marito che lo ha cacciato di casa, ma cerca anche di difendere Peppino da se stesso. Quando viene a sapere che Peppino ha scritto sul giornale ciclostilato «L’idea socialista» un articolo sulla mafia fa di tutto perché non venga pubblicato: «…fece un giornalino e ci mise che la mafia era merda. Quando l’ho saputo io, salgo sopra e vedo… E dissi: “E dài, Giuseppe figlio, io ti do qualunque cosa se ti mi consegni quel giornalino. Tu non lo devi pubblicare quel giornale”…Andavo da tutti… dicendo di non presentare quel giornalino». E quando l’attività politica di Peppino entra nel vivo, non ha il coraggio di andare a ascoltare i suoi comizi, ma intuendo di cosa avrebbe parlato chiede ai suoi compagni di convincerlo a non parlare di mafia. E a lui: «Lasciali andare, questi disgraziati».

Morto il marito (in un incidente che può essere stato un omicidio camuffato), la cui presenza era in qualche modo una protezione per il figlio, Felicia intuisce che per Peppino sono aumentati i pericoli: «Guardavo mio figlio e dicevo: ‘Figlio, chi sa come ti finisce’. Lo andai a trovare che era a letto, gli dissi: ‘Giuseppe, figlio, io mi spavento’. E come apro quella stanza, ché ci si corica mia sorella là, io vedo mio figlio, quella visione mi è rimasta in mente».

La mattina del 9 maggio 1978 viene trovato il corpo sbriciolato di Peppino. Felicia dopo alcuni giorni di smarrimento decide di costituirsi parte civile (allora era possibile chiederlo anche durante la fase istruttoria). Una decisione che nelle sue intenzioni doveva servire anche per proteggere Giovanni, il figlio che le era rimasto e che, al contrario, in questi anni si è impegnato assieme alla moglie (anche lei Felicia), per avere giustizia per la morte di Peppino. Felicia ricorda: «Gli dissi: ‘Tu non devi parlare. Fai parlare me, perché io sono anziana, la madre, insomma non mi possono fare come possono fare a te’». Per questa decisione ha dovuto fare ancora una volta una scelta radicale, rompere con i parenti del marito che le consigliavano di non rivolgersi alla giustizia, di non mettersi con i compagni di Peppino, con i soci del Centro siciliano di documentazione di Palermo, successivamente intitolato a Peppino, di non parlare con i giornalisti.

Al contrario, da allora Felicia ha aperto la sua casa a tutti coloro che volevano conoscere Peppino. Diceva: «Mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: ‘Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa’. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise«. Un figlio che: «… glielo diceva in faccia a suo padre: ‘Mi fanno schifo, ribrezzo, non li sopporto… Fanno abusi, si approfittano di tutti, al Municipio comandano loro’… Si fece ammazzare per non sopportare tutto questo».

Le delusioni, quando sembrava che non si potesse ottenere nulla, e gli acciacchi di un’età che andava avanzando non l’hanno mai piegata. Al processo contro Badalamenti, venuto dopo 22 anni, con l’inchiesta chiusa e riaperta più volte grazie anche all’impegno di alcuni compagni di Peppino e del Centro a lui intitolato, con il dito puntato contro l’imputato e con voce ferma lo ha accusato di essere il mandante dell’assassinio.

Badalamenti è stato condannato, come pure è stato condannato il suo vice.

Entrambi sono morti, e Felicia, che aveva sempre detto di non volere vendetta ma giustizia, a chi le chiedeva se aveva perdonato rispondeva che delitti così efferati non possono perdonarsi e che Badalamenti non doveva ritornare a Cinisi neppure da morto. E il giorno in cui i rappresentati della Commissione parlamentare antimafia le hanno consegnato la Relazione, in cui si dice a chiare lettere che carabinieri e magistrati avevano depistato le indagini, esprime la sua soddisfazione: «Avete risuscitato mio figlio».

Felicia ha accolto sempre con il suo sorriso tutti, in quella casa che soltanto negli ultimi tempi, dopo un film che ha fatto conoscere Peppino al grande pubblico, si riempiva, quasi ogni giorno, di tanti, giovani e meno giovani che desideravano incontrarla. Rendendola felice e facendole dimenticare i tanti anni in cui a trovarla andavamo in pochi e a starle vicino eravamo pochissimi. E ai giovani diceva: «Tenete alta la testa e la schiena dritta».

Anna Puglisi

Epipola

Epipola è un personaggio della mitologia greca, figlia di Trachione. Il padre ricevette l’ordine di recarsi in Aulide per partecipare alla guerra di Troia. Era però troppo anziano per combattere e non aveva figli maschi da mandare in guerra. Allora sua figlia Epipola radunò gli schieramenti del padre e al suo posto si recò al porto di Aulide, mascherata da uomo.
Palamede, che già aveva scoperto l’inganno di Ulisse, riuscì a svelare l’identità di Epipola e, nonostante le proteste di Achille, al quale la giovane aveva chiesto aiuto, la fece uccidere a sassate dall’esercito acheo.

La Leonessa di Bretagna: Jeanne 

Stava con gli inglesi ed affrontò nella Manica tante navi francesi , verso la metá del Trecento.

Ebbe sette figli e quando il secondo marito fu decapitato, come traditore, dal re di Francia, investì il suo patrimonio in navi da guerra, le dipinse di nero  e scelse il rosso per le vele, per tredici anni divenne pirata.

Si quietò solo con il terzo marito, un capitano del re inglese Edoardo Terzo.

Il suono nome era Jeanne de Clisson.

A Dragunara

A Palmi ad esempio, secoli fa, si credeva ad un’antica leggenda secondo la quale le trombe marine sono creature magiche fatte di acqua e di vento, figlie della «Dragunara», la donna drago, uno dei tanti mostri marini che popolano gli abissi del Mediterraneo. La «Dragunara» di tanto in tanto sfoga la cattiveria scagliando le sue trombe marine e non teme nulla, tranne i coltelli e certe parole che solo alcuni esseri umani sanno pronunciare per sconfiggerla: le donne di Palmi.
Le palmesi, quindi, non appena sulla linea dell’orizzonte s’intravvedeva cuda d’arrattu, coda di topo, e cioè il profilo minaccioso d’una tromba marina, guidate da una di loro dotata di poteri magici, correvano sulla spiaggia impugnando nella mano destra un coltello a punta col manico d’osso bianco e con esso sciabuliavanu ‘u celu (squarciavano a coltellate il cielo) con larghi e decisi fendenti.
La «comandante» puntava il coltello contro la tromba marina e le urlava: Luni esti santu/ marti esti santu/ merculi esti santu/ juovi esti santu/ vennari esti santu/ sabato esti santu/ duminica è di Pasca/ cuda e rattu casca; e ogni volta che diceva esti santu tracciava in direzione della tromba una croce, subito imitata dalle altre donne; poi, quando arriva a duminica è di Pasca/ cuda d’arrattu casca vibra un fendente da destra a sinistra e un altro dall’alto in basso, squarciando così la «Dragunara».

Annamaria Persico

Ph Mario Greco

Donne e alcol

Il numero delle alcoliste é in vertiginoso aumento!

Attente, il corpo femminile é più vulnerabile all’alcol e tende a sviluppare più rapidamente le complicazioni psichiatriche legate all’abuso.

Le donne, a differenza dei maschi che lo fanno spesso per ragioni sociali e di lavoro, iniziano a bere per stati d’ansia, abbandono del partner e senso di solitudine…

Mary, ascoltami non copiare dagli uomini l’ idea di uscire a bere, esci per camminare, godere di uno spettacolo, fare compere, scattare foto, chiacchierare e…sorridere alla vita.

Rosaria Presidente del Centro Di Solidarietà Don Francesco Mottola

Come nasce e come va avanti il Centro …1983 il suo giorno Natale sulle tracce del grande Padre Mottola.

Abbiamo voluto realizzare il Centro per contrastare l’idea che solo chi è “perfetto” ha diritto di vivere…l’inizio è stato complesso, i genitori non volevano la luna ma solo spezzare tanti pregiudizi…ricordo l’avv Caputo che tanto desiderò questa realtà, grazie a don Ignazio che ci sostiene in tutto grazie

Vorrei ricordare Gerardo e ‘Ntoniceu che sono prematuramente ritornati alla Casa Del Padre…

Bellissimi i nostri laboratori artigianali e musicali…oggi siamo un punto di incontro per tanti bisogni…accoglie anche giovani degli Istituti Scolastici che rafforzano la loro socialitá affiancando gli operatori… Vorremmo che il Centro continuasse…

… Grazie Maria Rosaria Cortese di tutto quello che fate con amore e della gioia che trasmettete ai nostri amati Giovani!

Vi sono grata di quello che avete donato ai miei Studenti: che Dio Vi benedica!

Salvatore Morelli che stimava le Donne

Con piacere ti rendo omaggio anche se sei maschio….

Si chiamava Salvatore Morelli ed era un democratico che stimava le donne; perseguitato e incarcerato dai Borboni, si batteva per il suffragio universale, maschile e femminile, ed era convinto che non ci sarebbe stata autentica civiltà e vero progresso se le donne non fossero state libere, emancipate e detentrici di potere.

Per questa sua lungimiranza fu sbeffeggiato e vilipeso come accade sempre ai precursori

Salvatore morì poverissimo, ma ricco della soddisfazione di essersi battuto per una causa giusta, nel 1880.

Ricordo la sua proposta di legge:”Per lo scopo di abolire la schiavitù domestica per la reintegrazione giuridica della Donna”

Grande Salvatore non ti scorderò!!!!!

Caterina La Grande

Sofia Augusta Federica Amalia, damigella della piccola nobiltà prussiana, destinata a una vita anonima in una piccola città del Baltico, attraverso un matrimonio – combinato dalla zarina russa – divenne Caterina, la Grande, Zarina di Tutte le Russie, regnando nell’Atene del Baltico che aveva voluto un altro Grande, Pietro Romanov, iniziatore dell’apertura a Occidente.Come in quello tricontinentale del sud, il mediterraneo del nord era un’area dinamica di scambii, commerci e conflitti. I commerci transbaltici erano mediati dalla fiorente e potente Lega Anseatica, consorzio di un centinaio di città, distribuite in dieci degli stati attuali, inizialmente portuali e baltiche (Lubecca ne fu la città promotrice); ne faceva parte la città natale di Sofia Augusta, Stettino (oggi Szczecin, in Polonia). 

La gestione di politiche dinastiche, viste le implicazioni patrimoniali, era complicata e passava sovente per accordi matrimoniali. La matriarca zarina Elisabetta, nel 1742 designò successore il nipote Pietro, duca di Holstein, figlio della sorella. Nel 1744 gli scelse per moglie la figlia quindicenne del principe tedesco Cristiano Augusto di Anhalt-Zerbst e di Giovanna di Holstein-Gottorp. Fu cugina dei sovrani Guglielmo III e Carlo XIII di Svezia. Accompagnata in Russia dalla madre, la giovane, convertitasi alla religione ortodossa, fu ribattezzata col nome di Caterina (Jekaterina) Alekseevna e nel 1745 andò sposa al cugino, il granduca Carlo Pietro Ulrico di Holstein-Gottorp. Il matrimonio si rivelò infelice: Pietro, uomo violento, si dimostrò ostile alla moglie, maltrattandola anche in pubblico. Nel 1762, subito dopo il trasferimento nell’appena eretto Palazzo d’inverno a Pietroburgo, salì al trono come Pietro III di Russia, ma le sue stranezze e la sua politica lo resero inviso alla Chiesa ortodossa e anche ai potenti gruppi di opinione con i quali Caterina in precedenza aveva mantenuto e sviluppato buoni rapporti… Caterina aveva imparato a destreggiarsi fra le insidie della corte; si era dedicata a letture che includevano Voltaire, Diderot e Montesquieu e si era tenuta informata sugli eventi della Russia e con la sua semplicità e spontaneità era riuscita a conquistarsi la simpatia, l’amicizia e la fedeltà di dame e servitori incaricati di spiarla. Grigorij Orlov, suo amante, guidò una cospirazione per incoronarla. Meno di sei mesi dopo essere divenuto zar (1762) Pietro venne rinchiuso in carcere, dove morì. 

Il 22 settembre del 1762 Caterina fu incoronata imperatrice: ormai era padrona del campo ma sapeva troppo bene che, se non era stato facile prendere il potere, ancor meno sarebbe stato mantenerlo. Però gli anni trascorsi a corte le avevano permesso di conoscere profondamente la realtà russa. I primi anni del suo regno furono improntati a uno spirito riformatore, che mirava a una monarchia liberale e umana, avendo a modello il suo predecessore Pietro il Grande. Per migliorare lo stato culturale del popolo, promosse molte iniziative in proposito, e istituì scuole e orfanotrofi. Nel 1764 fondò l’Istituto Smolnij per fanciulle nobili, la prima scuola femminile russa, sul modello del convento di Saint Cyr di Madame de Maintenon. Riformò la scuola dei Cadetti di fanteria, che divenne uno dei centri più attivi della capitale. Benché cresciuta luterana e divenuta ortodossa, accolse nella Russia occidentale i Gesuiti, il cui ordine era stato soppresso dal papa Clemente XIV nel 1773. Nel 1767 creò una commissione di 600 membri, rappresentanti tutte le componenti della società russa – esclusi i servi della gleba – con lo scopo di riordinare la legislazione. Benché la commissione non giungesse a formulare un nuovo codice legislativo le ‘istruzioni alla Commissione’ di Caterina introdussero in Russia una concezione del diritto di matrice occidentale. Per i più importanti affari statali creò nel 1768 un “Consiglio imperiale”. Snellì il commercio interno, abolendo le tasse per i trasporti, fondò colonie nel territorio del basso Volga, permise alle città di avere un’amministrazione autonoma, bonificò le terre paludose intorno a Pietroburgo, migliorò le strutture dei porti sul Baltico e sul Mar Nero. 

Riorganizzò l’amministrazione delle province conferendo ai governatorati un grande potere sulle zone rurali nella prevenzione delle rivolte contadine. Nel 1775 attuò la riforma della organizzazione amministrativa, parzialmente ispirata al principio della divisione dei poteri: amministrativo, giudiziario e finanziario, istituendo cinquanta governatorati (circoscrizioni territoriali suddivise a loro volta in province, in circoli e in distretti) controllati direttamente dall’imperatrice attraverso i governatorati generali. Ma non poteva muoversi solamente in direzione “progressista” e così, se nel 1785 pubblicò un editto che riconosceva alla piccola nobiltà il diritto di presentare petizioni al trono, nel contempo liberò i nobili dai servizi obbligatorii e dalle tasse, rese ereditaria la nobiltà e concesse ai nobili il pieno controllo sui servi che vivevano sulle loro terre. In aggiunta donò terre della corona site in Ucraina ai nobili più fedeli, dotandole anche di servi. La sua politica continuava a ignorare i problemi dei ceti più poveri, nonostante nei primi anni del suo governo, e anche prima, si fosse espressa a favore di essi. Con il tempo si allontanò dai suoi ideali giovanili, fino ad abbandonarli del tutto negli ultimi anni della sua vita. 

I trentaquattro anni di regno di Caterina furono fondamentali nella storia russa, sia per la politica interna, sia per l’espansione territoriale. I philosophes francesi influenzarono le sue scelte, come quelle di altri monarchi europei, di apertura verso la cultura europea e resero illuminato il suo innegabile dispotismo. Il settore nel quale l’ispirazione illuministica influì di più sull’opera di Caterina II fu quello dell’educazione e dell’assistenza sanitaria: case di educazione furono istituite a Mosca e a Pietroburgo, mentre nei capoluoghi furono aperte scuole anche per gli adulti, si costruirono nuovi ospedali e le città furono obbligate a provvedersi di medici e di farmacie.

Concluse la sua vita terrena a 67 anni, nel novembre del 1796, per apoplessia. Il suo corpo riposa nella fortezza di San Pietro e Paolo a Pietroburgo.

Scompariva dalla scena politica europea una protagonista, che lascerà dietro di sé un’ impronta indelebile. È indubbio il contributo che una donna, per di più straniera, diede alla riunificazione di tutte le terre russe adottando una politica innovatrice e illuminata. Figura controversa, tuttavia: se infatti durante il suo regno Caterina aveva suscitato ammirazione, ma anche disorientamento fra i contemporanei, dopo la morte, soprattutto fra i ceti popolari, divenne bersaglio di componimenti satirici: accusata di essere stata una donna spudorata che passava da un amante all’altro, che aveva sottomesso i cosacchi e vincolato al suolo i contadini della Piccola Russia, divenne la “zarina sgualdrina”. L’immagine di Caterina viene quindi riplasmata nella memoria secondo criterii di giudizio moralistici che, alle donne, non riconoscono alcuna legittimazione all’attività politica.