Archivio mensile 26th Giugno 2018

Medichesse

Le Donne sono state sempre brave e inclini a curare gli ammalati e nelle societá arcaiche la salute della famiglia era affidata a loro.

Le conoscenze mediche passavano da madri in figlie ed erano legate alla terra, alla luna, al mare, agli animali, alle erbe.

A differenza dei medici maschi si rifacevano a consuetudini empiriche e davano enorme peso all’empatia: la comprensione intima e spirituale del malato.

Tantissime le ricette di pozioni o unguenti a base di erbe considerate, per le loro proprietà officinali, magiche e miracolose: mandragora, canapa, stramonio, oppio, papavero, aconito, verbena…

Il mio cognome é il mio cognome per sempre!

Molte donne, anche di successo, scelgono di farsi chiamare col cognome del marito oppure lo aggiungono al proprio. A volte sono gli altri a farlo e la Donna coinvolta non obietta ma si porta allegramente dietro i due cognomi tranquilla e soddisfatta.

Pur amando tantissimo la famiglia di mio marito, fin dagli inizi del mio matrimonio ho tenuto al mio cognome ed anche quando firmo congiuntamente a Lui, di comune accordo, scegliamo o la formula del solo nome oppure inseriamo entrambi i cognomi…ognuno tiene al proprio!

Ho riflettuto molto su questa mia ferrea difesa dell’ identitá primigenia e penso che la motivazione sia evidente: la mia idiosincrasia,  fin da giovanissima,  di ogni riferimento al maschilismo che impera in forme eclatanti ma anche subdole e larvate come questa.

Tempo fa questo mio atteggiamento suscitò una discussione tra amici ed alcuni mi fecero notare che in fondo il cognome, nella nostra cultura, é figlio del maschilismo o patriarcato che dir si voglia: il cognome che io porto é quello di mio padre.

L’osservazione é appropriata e calzante e la replica può essere solo una: verissimo ma è questo il cognome che mi ha identificato fin dal mio primo essere civile e non lo cambio: il mio cognome é il mio cognome per sempre!

God is powerful!

Quattro storie di donne

Daisy, Nigeriana, 21 anni, stringe al petto Junior, il suo bimbo nato il 25 Maggio…”Appena arrivata in Libia volevano che mi prostituissi ma mi sono rifiutata…sul barcone stavamo affondando …ho tanta paura”

Dana,Eritrea,quando é arrivata in Siculia era paralizzata…..per mesi l’hanno tenuta incatenata, immobile e stuprata.

Gala, Eritrea, é ricoverata in psichiatria, la sua mente é devastata dalle violenze.

Mary arriva dalla Nigeria col suo piccolo che ha chiamato Destiny

Tutte ammettono gli stupri, la paura delle milizie islamiche ma se devono parlare del viaggio nella stiva di un barcone non trovano le parole …eppure …sì lo rifarebbero…God is powerful!

La Foto è della mia amica, l’artista Ewa Gluszak

Karoline Klüppel

La società matrilineare degli indigeni Khasi nelle fotografie di Karolin Klüppel

Cosa distingue i Khasi dal resto dell’India?

La gioia nel reparto ostetrico quando nasce una femmina!

Ragazze Khasi: matrilinearitá!

Immaginate una società in cui le donne, e non gli uomini, detengono la maggior parte del potere all’interno delle famiglie: la proprietà passa dalla madre alla figlia minore, e i mariti vanno ad abitare nella casa della suocera dopo il matrimonio. Ora immaginate che questo luogo esista in India, un paese che é spesso criticato per la violenza e la discriminazione nei confronti delle donne. Nella giungla dello stato indiano di Meghalaya, il villaggio di Mawlynnong é immerso in un lussureggiante paesaggio boscoso, che il popolo degli indigeni Khasi chiamano casa. Soprannominato “God’s Own Garden” (il giardino di Dio) per la sua impressionante pulizia e bellezza, ha un’impostazione sociale sorprendentemente diversa dal solito, dove le tradizioni matrilineari ancora resistono. Le ragazze Khasi indossano collane di scheletri di pesce essiccati e giocano con zoccoli di animali al posto delle Barbie. Nel bene e nel male, la modernità occidentale non ha raggiunto MAWLYNNONG.

 La fotografa di origine tedesca Karolin Klüppel ha trascorso quasi un anno a Mawlynnong, per la sua serie “Mädchenland,” che significa “Regno di ragazze“. Nota per il suo interesse di genere e per la rappresentazione che ne dà, la Klüppel fa un lavoro perfetto di giustapposizione tra la delicata giovinezza delle ragazze, e la loro forte personalità. Anche se queste ragazze sono “più vecchie dei loro anni”, la fotografa osserva che sembrano però essere alcune tra le più felici e sicure di sé nella regione.

 

Nelle tribù Khasi, le ragazze devono assolvere a molti compiti fin dai primi anni della loro vita: le faccende domestiche e la cura dei fratelli più piccoli; tra gli 8 e i 12 anni studiano presso la scuola del villaggio, poi continuano i loro studi a Shillong, la capitale dello stato. Da lì possono decidere se andare all’università o tornare a casa. A differenza di altre parti dell’India, queste ragazze possono scegliere quando, e se sposarsi, senza il timore di un matrimonio combinato.

 

 

Mentre le donne detengono la quasi totalità del potere all’interno della famiglia, esse sono sotto-rappresentate nelle posizioni di potere politico, e quindi la regione non deve essere scambiata per una società matriarcale. In realtà, tutti i ministri del governo, come la maggior parte dei membri del consiglio del villaggio, sono uomini. Tuttavia, gli uomini non possono possedere la terra, e spesso richiedono l’approvazione di una parente donna, quando devono prendere decisioni importanti. Questa non é una società equa, né é il corollario delle società patriarcali diffuse in tutto il mondo. Come le fotografie della Klüppel aiutano a comprendere, é piuttosto un esempio che ci ricorda che più mondi e realtà possono esistere simultaneamente, all’interno di un unico spazio fisico definito.

L’erba di San Giovanni

Nella notte di San Giovanni, secondo tante antiche leggende, le streghe si impossessano dell’aria intorno ai villaggi e si possono allontanare solo con riti propiziatori come gli strepiti dei tamburelli e di altri strumenti improvvisati, con gli scongiuri oppure accendendo dei falò. Discende direttamente dalla spina solstitialis dei Romani, fiori spinosi ed erbe raccolte con cui si chiedeva il favore degli Dei, la tradizione calabrese dell’erba di San Giovanni, alla quale i calabresi affidavano il potere di fugare i demoni.
Si tratta di un semplice mazzetto di erbe officinali raccolte nella notte magica, usata anche da altri popoli d’Europa per questo scopo e che appariva nelle formule magiche dei druidi e delle streghe, composto in genere da artemisia, ruta, aglio selvatico, iperico, menta e altre, a seconda dei luoghi.
Inviare dei mazzi d’erba di San Giovanni era segno di buon augurio e voleva essere un gesto di pace e di fratellanza, i legami che si stringevano con l’invio di questa erba fiorita potevano durare tutta la vita e unire le famiglie con un vincolo più forte di quello che esisteva fra parenti. Da qui infatti nasce il termine Sangiuanni per indicare il comparaggio tra famiglie per battesimi e cresime.
Un altro uso dell’erba di San Giovanni era quella di metterne un pizzico, insieme ad un grano di sale e alla «figurella» del Santo Patrono, nell’abitino (un sacchettino di stoffa) che fin da neonati si portava cucito addosso per allontanare i pericoli.
In tutti i paesi le «magare» conoscevano i segreti dell’erba di San Giovanni che si credeva avesse il potere di allontanare i demoni, ma anche di evocarli, potevano insidiare i bambini nelle culle, eccitare l’odio o l’amore, produrre malattie, gettare il malocchio su uomini e animali.
Proprio la notte di San Giovanni la magara poteva insegnare ad altre donne gli scongiuri e le formule magiche per essere preservati dalle influenze negative. Nelle abitazioni delle nostre nonne fino a non molti anni fa si potevano ammirare i mazzetti di erba di San Giovanni, in genere posti dietro le porte d’ingresso delle grandi cucine di un tempo, a proteggere la casa e i suoi abitanti.

 Di Annamaria Persico

Tina Modotti

Tina Modotti, sorella, tu non dormi, no, non dormi:forse il tuo cuore sente crescere la rosa

di ieri, l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa.

Riposa dolcemente, sorella.

La nuova rosa è tua, la nuova terra è tua:

ti sei messa una nuova veste di semente profonda

e il tuo soave silenzio si colma di radici

Non dormirai invano, sorella.

Puro è il tuo dolce nome, pura la tua fragile vita:

di ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma,

d’acciaio, linea, polline, si è fatta la tua ferrea,

la tua delicata struttura.

Lo sciacallo sul gioiello del tuo corpo addormentato

ancora protende la penna e l’anima insanguinata

come se tu potessi, sorella, risollevarti

e sorridere sopra il fango.

Nella mia patria ti porto perché non ti tocchino,

nella mia patria di neve perché alla tua purezza

non arrivi l’assassino, né lo sciacallo, né il venduto:

laggiù starai tranquilla.

Non odi un passo, un passo pieno di passi, qualcosa

di grande dalla steppa, dal Don, dalle terre del freddo?

Non odi un passo fermo di soldato nella neve?

Sorella, sono i tuoi passi.

Verranno un giorno sulla tua piccola tomba

prima che le rose di ieri si disperdano,

verranno a vedere quelli d’una volta, domani,

là dove sta bruciando il tuo silenzio.

Un mondo marcia verso il luogo dove tu andavi, sorella.

Avanzano ogni giorni i canti della tua bocca

nella bocca del popolo glorioso che tu amavi.

Valoroso era il tuo cuore.

Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade

polverose, qualcosa si mormora e passa,

qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo,

qualcosa si desta e canta.

Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome,

quelli che da tutte le parti, dall’acqua, dalla terra,

col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo.

Perché non muore il fuoco.

(Pablo Neruda , 5 gennaio 1942)

 

La sera del 5 gennaio 1942 Tina Modotti muore d’infarto, in un taxi, dopo una cena trascorsa in compagnia del suo compagno Vidali e degli amici più cari a casa dell’architetto Hannes Meyer. Le circostanze della morte sembrano subito poco chiare, e di fatto ancora oggi, a distanza di oltre sessant’anni, le perplessità restano. La notizia si scaglia contro l’opinione pubblica Messicana, e mondiale, scuotendo le acque torbide delle maldicenze che attribuiscono la scomparsa ad un delitto politico, messo in atto da Vittorio Vidali. All’epoca della scomparsa, gli amici della coppia e tutti coloro che si identificano negli ideali comunisti ricusano l’ipotesi di un possibile coinvolgimento di Vittorio Vidali, e il più indignato è il poeta Pablo Neruda che, con una splendida poesia dedicata a Tina, vuole allontanare le voci, le strumentalizzazioni, gli scandali, per celebrare soltanto l’esempio di una vita dedicata all’impegno politico, la passione rivoluzionaria, l’arte e l’amore. Neruda era arrivato in Messico nel 1940 e al momento della morte di Tina era console generale a Città del Messico per conto del governo cileno, con il quale collaborava da molto tempo. Oggi possiamo vedere che le loro vite avevano molti punti in comune, primi fra tutti l’esigenza di aiutare i perseguitati politici, di sentirsi “impegnati” nella società di cui facevano parte, di vivere appassionatamente l’arte -per lui la scrittura, per lei la fotografia- e l’amore. E i versi di Neruda sintetizzano perfettamente le qualità della Modotti e lo sguardo ammirato e complice del poeta che, nella donna celebrata, riconosce la condivisione di un mondo esistenziale, sociale e artistico. I primi versi della poesia sono l’epitaffio scolpito sulla tomba di Tina al Pantheon de Dolores a Città del Messico, mentre gli ultimi versi sono riportati su una stele commemorativa ad Udine, voluta dal Comitato Tina Modotti. (info dalla pagina FB: L’ultimo saluto di Pablo Neruda a Tina Modotti)

Franchetta Borelli: strega di Triora

Era inverno, il 2 gennaio, di molti secoli fa… in una casa di pietra e antiche travi, adagiata nel suo letto di anziana signora, si spegneva un’anima intensa… si spegneva una donna che molto aveva visto e vissuto, che molto aveva sofferto e patito… una donna che sussurrò dal nero pozzo di dolore della tortura “io stringo li denti, e loro diranno che rido”… si spegneva una delle Streghe di Triora: Franchetta Borelli.In occasione di questo anniversario appena trascorso, ripercorriamo ciò che travolse la vita di quel piccolo paese dell’entroterra ligure.

Triora era, ed è, un piccolo paese arroccato nelle montagne della Liguria, a picco sul vuoto, a picco su boschi incantevoli, ricchi e selvaggi e sterminati, aggrappato alla roccia, roccia di cui son fatte tutte le case e i vicoli ancora oggi. Passeggiare nei nebbiosi mattini d’inverno per Triora consente di ascoltare antichi ricordi che aleggiano nell’aria da secoli… L’atmosfera si fa rada, ci si siede sugli scalini della Ca’botina, e si ascolta… se farete attenzione vedrete un alito di vento smuovere qualche vecchio e secco ramo, ed un sussurro giungere al vostro orecchio… è la voce di Franchetta, che narra, a modo suo, ciò che vide, ciò che visse, ciò che la rese forte e saggia, ciò che non la uccise e la rese immortale….
“Ricordo che era il 1587 ed era estate. Non l’estate allegra del raccolto, ma l’ennesima di povertà e carestia. Non avevamo nulla con cui nutrire le bestie e nulla da riporre nelle dispense per l’inverno… da due anni vivevamo di stenti, da due anni la disperazione si leggeva nei nostri poveri occhi, da due anni gli animali eran pelle e ossa e per ‘ste strade ci si arrampicava a fatica e curvi. Era colpa delle streghe, sicuramente colpa delle streghe… il Parlamento triorese si era riunito sapete? e così aveva deciso: sono le streghe sono le streghe sono le streghe! Avevan pagato cinquecento scudi per avere i loro processi! Morivamo di fame, ma i soldi li avevamo per trovare le streghe!

Quanta pura e quanto odio…

Rammento che in ottobre giunsero i vicari dell’inquisizione di Genova, nelle persone sciagurate e malvagie di Girolamo del Pozzo e di un altro suo compare di cui non conosco il nome. Rammento le sue parole aspre e dure, i suoi discorsi perversi ed osceni, e ancora oggi, che sono solo un povero alito di nebbia, ricordo bene la paura che riuscì a scatenare, ad alimentare, ad insinuare nell’animo di tutti i miei compaesani, ricordo i nomi che vennero crudelmente elencati: ecco le streghe! Ecco chi ha affamato bestie e bambini! E ricordo i volti stravolti, lo stupore e l’angoscia di chi venne strappato dalle braccia delle proprie famiglie e trascinato nelle prigioni.

Noi nemmeno le avevamo le prigioni… presero due case, le resero sicure e ci stiparono le streghe. Ci chiamavano baggiue, streghe, e ci sputavano addosso. Ma noi non avevamo fatto nulla…

All’inizio presero venti povere anime, poi un’altra dozzina, e poi anche i bambini. Venimmo tutti torturati. La mia amica Isotta ne morì. Era vecchia, aveva più di sessant’anni, ma non le risparmiarono nulla, come a me del resto. Morì e non poté nemmeno avere i Sacramenti povera anima… Confessarono tutti: venivano appesi e lasciati cadere, le braccia assumevano pose così orrende ed innaturali… e chi non avrebbe confessato?

Che inverno di dolore e di orrore… con i boschi che si riempivano di lamenti… con le fonti che cantavano il nostro patimento.

A gennaio il Consiglio degli Anziani pensò che forse era troppo, che forse l’Inquisizione stava esagerando… ormai avevano coinvolto anche altre amiche mie.

Sapete io non ero una povera stolta, ma una signora per bene, e le signore per bene, da che mondo è mondo, non si toccano.

Ah che sospiro di sollievo quando il vicario Del Pozzo disse che noi non centravamo nulla, che tutte le accuse erano assurde… aveva ricevuto una bella strigliata dal suo vescovo! I ricchi non si toccano.

Il Consiglio non ne voleva sapere più nulla. Una pover’anima si era buttata dalla finestra per sfuggire alle torture ed era morta. Era troppo… ormai accusavano tutto e tutti… non controllavano nulla, si passava alla tortura e via!

Era troppo… e il consiglio, in quel gennaio, ricordo che voleva che il paese tornasse tranquillo! Oh il Podestà, quello Stefano Carrega, si difese strenuamente! Disse che loro il loro sporco lavoro lo avevan fatto con coscienza, scrisse al vescovo, ricordo ancora le parole, che “la volontà di questo populo è sempre stata et è (che) cotali malefiche totalmente si estirpino et si erdadichino da questi paesi e tutti ad alta voce in parlamento congregati hanno acceso animo e gridato e di continuo gridano che si estirpino”. (ndr: lettera data 20 gennaio 1588)
Quel mese di gennaio mi fu caro, sperai che tutto finisse. Loro se ne andarono, ma nulla finì. Le streghe vennero lasciate alla Ca’botina e alla Ca degli Spiriti, le “nostre prigioni”. Le lasciarono lì a marcire fino a maggio. Nessuno venne ad ascoltarle, nessuno si preoccupò di loro, nessuno pensò alla lunghezza delle albe in prigionia… nessuno.

Quando a maggio arrivò il nuovo Podestà, quel Gian Battista Lerice, le mie amiche negarono tutto ciò che la corda delle tortura aveva strappato alle loro lingue. Voi pensate che vennero credute? No, nessuno ascoltò le loro verità. Ancora Nessuno. Arrivò di nuovo l’estate e ricordo che a giugno, l’8 giugno, il commissario straordinario che il buon governo di Genova ci aveva mandato, un tale Giulio Scribani, iniziò a lavorare per chiudere la sporca e triste faccenda.

Volesse il cielo che mai lo avesse fatto…

Volesse il cielo che mai quel demonio avesse calcato il povero suolo del mio paese..

Volesse il cielo che lo Scribani fosse rimasto all’Inferno.

Ma il cielo non volle, e l’inferno sbocciò di nuovo tra i vicoli della povera Triora.

Quel folle disse che ci accoppiavamo col Diavolo, che uccidevamo donne, bambini e animali, e che rinnegavamo la Buona Vergine! Quel folle disse che le streghe erano in tutta la valle, e portò l’odore dello zolfo anche nei paesotti vicini! Che demonio, che oscenità, arrivò a chiedere che quattro poveracce di Andagna venissero bruciate vive. Vi rendete conto? Vive, tra le fiamme, senza aver mai nuociuto ad anima alcuna!

Alla fine, quando ottobre era ormai giunto, diciotto di noi vennero portate a Genova ed incarcerate. Volevano ucciderle. Non ce ne fu mica bisogno… morivamo come mosche lo stesso. Da troppo tempo non ci scompigliavamo i capelli al sole. Cinque di noi se ne andarono così, senza aver più visto i boschi e le fonti, senza aver più abbracciato i figli e i mariti… 
E dalla disperazione, le altre gridarono il mio nome. 
Io, Franchetta Borelli, venni arrestata quell’estate. Venni incarcerata e torturata. Dissero che io ero la più potente di tutte! Dissero che da fanciulla ero bella come il peccato e che mi davo a tutti. Io non confessai nulla, gli risi in faccia a quegli stolti. Ero ricca e vecchia, e forte. Io risi, e non gli dissi nulla. Mio fratello pagò mille scudi e me ne tornai a casa. Non avevo più carne sui piedi, me l’avevano bruciata… eppure io mi rifugiai lo stesso nei boschi. Quando tornai lo feci solo perché avevano arrestato il mio povero fratello. E loro ricominciarono a torturarmi, lo fecero per 23 ore di fila… Una volta sola avevo parlato, la prima notte di tortura, mesi prima, e da allora più nulla avevo detto. Rimasi zitta, o parlai delle mie amate castagne. Ormai era autunno e maturavano ed il loro profumo era caro al mio vecchio cuore… Non dissi nulla. Distrussero il mio povero corpo, ma io rimasi placida. Non piansi, risi…
Ci volle quasi un anno perché ci lasciassero tornare a casa.

Tornammo a casa al tempo del raccolto, proprio come quando tutto era iniziato. Era l’agosto del 1589.
Io, in tutta la mia lunga vita, non avevo mai sofferto così tanto, non avevo mai visto e udito tanto dolore…. e mai più ne avrei voluto vedere. Quando resi l’anima a Dio, il 2 gennaio del 1595, non pensai a coloro che avevano bruciato i miei piedi, distrutto le mie ossa e flagellato la mia pelle..

ma pensai al profumo delle castagne, al vento nei capelli quand’ero giovane e bella.

Pensai ai boschi e al vento, e in vento tra i rami dei castagni mi tramutai…”
Ho voluto narrarvi la storia di Franchetta in prima persona, come se la raccontasse lei, perché amo immaginarla come una vecchia saggia donna capace ancora oggi, dopo secoli, di narrare con semplicità l’orrore di cui l’uomo sa macchiarsi. Si dice che il sonno della ragione genera mostri. Così fu, a Triora, come a Salem, come in tutta Europa, per secoli e secoli. 

In questa giornata di neve riguardo le immagini della bella Triora e narro con voce sottile la storia di questa donna forte e coraggiosa. In vita amò così tanto questi boschi che pare ovvio pensare che, da spirito, lei ancora vi abiti, ancora rida leggera e guardi con benevolenza chi passeggia con rispetto tra i castagni….

“…io stringo li denti, e poi diranno che rido”

Franchetta Borelli
“I grit my teeth, and they say I laugh”

Franchetta Borelli
Note: Articolo scritto da Argante
Per una lettura storica precisa e ben datata e documentata vi rimando all’articolo di Andrea Gandolfo presente nel sito del comune di Triora:

http://www.comune.triora.im.it/Guidaalpaese/tabid/10686/Default.aspx?IDDettaglio=3930
Le tre bocche di cerbero di Stefano Moriggi
Bagiue – Le streghe di Triora – Fantasia e realtà di Sandro Oddo
I Segreti di Triora 
Il potere del luogo, le streghe e l’ombra del boia.

A cura di Maria Antonietta Breda, Ippolito Edmondo Ferrario, Gianluca Padovan

Premier e Mamma: benissimo!!!

La prima ministra neozelandese Jacinda Ardern ha dato alla luca la sua prima figlia, partorendo all’Auckland City Hospital e diventando la seconda leader eletta del mondo nella storia moderna a partorire durante il suo mandato.
È stata la stessa Ardern a darne notizia pubblicamente, con una foto e un post pubblicato su Instagram.

La prima fu la premier del Pakistan Bhutto.

Segni fausti di un mondo migliore in cui la Genitorialitá si coniuga con gioia, libertá e cittadinanza!

Shobha

Gli scatti, fatti nel Bangladesh nel 2010 dalla fotografa palermitana, raccontano la tragica usanza punitiva di sfigurare il volto delle giovani donne