Archivio annuale 6th Agosto 2021

Da IL POCO DEL MONDO di Kiki Dimoula

Parla.
Dì qualcosa, qualsiasi cosa.
Soltanto non stare come un’assenza d’acciaio.
Scegli una parola almeno,
che possa legarti più forte
con l’indefinito.
Dì:
“ingiustamente”
“albero”
“nudo”
Dì:
“vedremo”
“imponderabile”,
“peso”.
Esistono così tante parole che sognano
una veloce, libera, vita con la tua voce.

Parla.
Abbiamo così tanto mare davanti a noi.
Lì dove noi finiamo
inizia il mare
Dì qualcosa.
Dì “onda”, che non arretra
Dì “barca”, che affonda
se troppo la riempi con periodi.

Dì “attimo”,
che urla aiuto affogo,
non lo salvare,

“non ho sentito”.

Parla
Le parole hanno inimicizie,
hanno antagonismi
se una ti imprigiona,
l’altra ti libera.
Tira a sorte una parola dalla notte.
La notte intera a sorte.
Non dire “intera”,
Dì “minima”,
che ti permette di fuggire.
Minima
sensazione,
tristezza
intera
di mia proprietà
Notte intera.

Parla.
Dì “astro”, che si spegne.
Non diminuisce il silenzio con una parola.
Dì “pietra”,
che è parola irriducibile.
Così, almeno,
che io possa mettere un titolo
a questa passeggiata lungomare.

[da «Il poco del mondo», traduzione di Clelia Albano]

Marija Judina

Nata nel 1899 a Nevel’, in una regione bellissima di boschi e laghi («Sono cresciuta veramente in un paradiso terrestre») più o meno a metà strada tra Mosca e Riga, Marija Judina apparteneva a una famiglia ebraica come 12 mila dei 18 mila abitanti destinati nel 1941 a essere spazzati via dai nazisti. Figlia di un medico, Veniamin Judin, laico e positivista, rivelò subito d’essere, al pianoforte, una enfant prodige. Accettata a 12 anni al Conservatorio di Pietroburgo («suonavo con il colletto “alla marinara” e la treccia»), diplomata a 22 con la medaglia d’oro (vincendo anche un pianoforte a coda bianco mai consegnato), a 24 era già in cattedra. 

Una carriera fulminante. Nonostante, appunto, quella rivoluzione che sulle prime l’aveva travolta. Un giorno, come racconta Giovanna Parravicini, ricercatrice di Russia Cristiana che da trent’anni vive a Mosca, nel libro Marija Judina. Più della musica, edito da La Casa di Matriona, uscì di casa e si trovò travolta da un fiume di gente: «Per le strade si sparava, non si aveva paura di niente e noi ci davamo da fare per fasciare le ferite e rifocillare gli affamati». Finché incontrò uno dei suoi professori: «“Cos’è questa roba?” mi chiese sfiorando la mia fascia da miliziana… Io mi smarrii, dentro di me esplosero a tutta forza le ouverture di von Weber, le sinfonie di Schubert, Mozart, la mia esecuzione nell’orchestra studentesca sui timpani e non riuscii a spiegare niente… In quell’istante “l’istinto rivoluzionario” lasciò il posto in me al “senso sinfonico”». 

Il resto lo fecero le delusioni. Le contraddizioni tra i proclami («Esponete liberamente le idee più sublimi. In nessun altro luogo, in nessun altro Paese verranno accolte calorosamente quanto nella Repubblica degli operai e contadini») e gli arresti di amici e compagni che «erano davvero il “fiore dell’umanità”. Disinteressati, laboriosi, tutti responsabilità, bontà fattiva, forza di pensiero… Oro puro…», ma pensavano fuori dal coro e per questo finirono in galera o «morti da martiri». Come Vsevolod Bachtin, un «astro della medievistica» e sua moglie Evgenija, che «per oltre 30 anni hanno peregrinato tra lager e luoghi di deportazione», o Sergej Usakov, scomparso «ancora ragazzino» quando sapeva «praticamente a memoria tutto Dante in italiano». 

«La nostra giovinezza, la giovinezza di tanti uomini d’arte, di scienza, di vita pratica, aveva le ali ai piedi», ricorderà Judina. «E ciascuno a modo suo poteva ripetere quelle stupende parole di Blok: “Sento il fruscio delle pagine di storia che si voltano”… Ci alzavamo e ci coricavamo con la poesia». Finché tutti i sogni finirono: «L’università si spopolava. I nostri docenti insegnavano fino all’ultimo, fino all’ultima ora e istante in cui venivano soppressi la loro materia o loro stessi».

La salvò, via via che le illusioni erano inghiottite dallo sconforto, la fede: «Ieri per la prima volta sono stata alla liturgia. È proprio vero, dunque, sto approdando al cristianesimo, definitivamente; lo voglio. È la prima volta che entro in chiesa, attendo la grazia di Dio, credo e spero! Signore abbi pietà! Amen». Battezzata nel maggio del 1919 a Pietrogrado, resterà fedele a quella scelta fino in fondo. Usando per decenni i suoi soldi (pochi) e la sua fama (leggendaria tra i russi a dispetto delle cacciate prima dal conservatorio di Stalingrado e poi da quello moscovita, dell’esilio a Tbilisi, dei concerti negati…) per cercare di aiutare i dissidenti a rischio di deportazione, per pagare la retta a studenti poveri, per spendere l’intero stipendio per una mucca da latte da dare a una madre affamata conosciuta in treno, per sfidare la collera del Potere ospitando Boris Pasternak che proprio a casa sua lesse per la prima volta nel febbraio 1947 parti del proibitissimo Dottor Živago e poi ancora prendendo tra i primi le difese di Aleksandr Solženitsyn all’uscita di Una giornata di Ivan Denisovic: «Un libro epocale».

Per non dire della sfida più temeraria, raccontata dal pianista e compositore Dmitrij Šostakovic e ripresa da Giovanna Parravicini. Una sera, nella sua dacia, Iosif Stalin ascolta alla radio Marija Judina: è il Concerto numero 23 K 488 di Wolfgang Amadeus Mozart. Sa bene chi è, quell’inflessibile avversaria. Sa anche però, statene certi, che nel 1942 s’era offerta volontaria per andare nell’amatissima Leningrado come infermiera e che dopo esser stata rifiutata («Non sapevo far niente: durante il tirocinio in ospedale inondavo di lacrime i feriti gravi») aveva insistito per andare nella città assediata dai nazisti per suonare in diretta alla radio e tirar su il morale dei soldati. Nonostante tutto, il despota è un suo ammiratore. Ascolta il concerto e ordina: vorrei il disco. 

Ma non c’è, il disco: era tutto in diretta. Panico: come dire di no a Stalin? Occorre farlo, il disco. Nella notte (notte alla quale Ermanno Olmi sognava di dedicare l’ultimo film della sua vita prima di morire) vengono febbrilmente rintracciati la pianista, i musicisti, il direttore d’orchestra. Ore di fatica, di tensione, di arte. La mattina il disco è pronto. Stalin ringrazia inviando a Marija Judina 20 mila rubli, «una cifra strepitosa per l’epoca». Tanto più per una donna così incurante di ogni cosa superflua da venire invitata dallo stesso partito a farsi «un guardaroba decente».

La risposta è straordinaria: «La ringrazio per il Suo aiuto, Iosif Vissarionovic. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della mia parrocchia». Quando il despota se ne andò, si dice, sul grammofono della dacia trovarono quel disco. 

Dal corriere.it

Non sono molte le pittrici che hanno lasciato un segno nella storia dell’arte ma tra Cinque e Seicento alcune raggiunsero fama e successo. Accanto a Sofonisba Anguissola e Artemisia Gentileschi spicca anche Fede Galizia, pittrice di origine trentina.
Documentata a Milano a partire almeno dal 1587, vive prevalentemente nella città lombarda fino alla morte, avvenuta dopo il 1630. Il trasferimento – da Trento a Milano – della famiglia Galizia, di origini cremonesi, deve essere avvenuto sulla scorta del poliedrico padre, Nunzio, artista pure lui, impegnato nel mondo della miniatura, dei costumi, degli accessori, ma anche in quello della cartografia. Fede – un nome programmatico per l’Europa della Controriforma – ottiene un successo straordinario tra i committenti dell’epoca, tanto che opere sue raggiungono, prima del 1593, tramite la mediazione di Giuseppe Arcimboldi, la corte imperiale di Rodolfo II d’Asburgo.
Gli studi novecenteschi, soprattutto italiani ma non solo, hanno dato particolare risalto all’attività di Fede come autrice di nature morte.

Dal Web

Liz Chicaje

Tra i vincitori dell’edizione 2021 del premio Goldman, considerato il ‘Nobel dell’ambiente‘, c’è anche Liz Chicaje Churay. L’attivista, leader degli indigeni Boras, negli ultimi anni è infatti riuscita a salvare oltre 800mila ettari di foresta amazzonica nel suo Paese, il Perù. Grazie agli sforzi di Liz Chicaje nel 2018 fu istituito il Parco nazionale di Yaguas, nel Nord-Est del Perù, consentendo la tutela sia della biodiversità che delle tribù indigene che popolano da sempre quei territori.

Anna Atkins

Anna Atkins, nata Anna Children, è stata una botanica e fotografa inglese. È spesso considerata la prima persona ad aver pubblicato un libro illustrato con immagini fotografiche, mentre alcune fonti affermano che è stata la prima donna a creare una fotografia.

La Corte di Strasburgo condanna i giudici italiani e hanno detto basta al:” Se l’è andata a cercare!”

L’avevano definita «un soggetto femminile disinibito, creativo, in grado di gestire la propria (bi)sessualità e di avere rapporti occasionali di cui nel contempo non era convinta». Avevano messo l’accento sul fatto che avesse “mostrato gli slip rossi mentre cavalcava un toro meccanico”. E con queste motivazioni, nel 2015, i giudici della Corte d’Appello di Firenze avevano assolto sette giovani accusati di aver violentato una ragazza di 22 anni, ribaltando così la sentenza di primo grado. Ora però è arrivata la condanna: non per il gruppo di giovani, ma per i giudici che quella sentenza l’hanno scritta. È firmata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dice così: «Il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’Appello trasmettono pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società italiana e che possono costituire un ostacolo alla tutela effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere”.

In pratica la Corte di Firenze non solo “non ha protetto i diritti e gli interessi” della ragazza dalla cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, ma con le motivazioni della sentenza ha di fatto avallato la ricorrente tesi del “se l’è andata a cercare”. Un atteggiamento che secondo Strasburgo viola l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quello che tutela “il diritto al rispetto della vita privata e dell’integrità personale”.

La Corte non ha il potere di ribaltare la sentenza, che resta di assoluzione piena “perché il fatto non sussiste”. Ma ha condannato l’Italia a risarcire 12 mila euro alla ragazza per danni morali, oltre a 1.600 euro per le spese. “Una sentenza che rende giustizia a tutte le donne – dice Titti Carrano, l’avvocato che ha difeso la giovane protagonista suo malgrado della vicenda –. La vita e la dignità di questa donna sono state calpestate così come sono state calpestate la riservatezza e l’immagine”. Nel collegio giudicante è mancata l’unanimità: sei giudici hanno votato a favore (tra cui l’italiano Raffaele Sabato) e uno contro. Si tratta del polacco Krzysztof Wojtyczek.La vicenda risale al luglio del 2008, quando una ragazza all’epoca 22enne aveva denunciato uno stupro di gruppo avvenuto quattro giorni prima. Secondo il suo racconto, sette coetanei l’avevano violentata all’interno di un’auto nei pressi della Fortezza da Basso, dove erano in corso eventi estivi. Nel 2013 i giudici di primo grado avevano condannato sei di loro a quattro anni e sei mesi di reclusione per violenza sessuale di gruppo aggravata “dalle condizioni di inferiorità fisiche e psichiche” della vittima, che era sotto effetto di alcol.

Due anni dopo, però, la Corte di Appello di Firenze aveva ribaltato il verdetto, assolvendo tutti perché “il fatto non sussiste”, mettendo in dubbio la credibilità della ragazza per i motivi di cui sopra. La sentenza è diventata definitiva in quanto la procura generale di Firenze aveva rinunciato al ricorso in Cassazione. Le motivazioni dei giudici avevano subito sollevato manifestazioni di protesta e polemiche, che ora trovano sostegno nel verdetto di Strasburgo. «È essenziale – scrivono i giudici della Corte europea – che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle loro decisioni, di minimizzare le violenze basate sul genere e di esporre le donne a una vittimizzazione secondaria con parole colpevolizzanti e moralizzatrici».

Di Marco Bresolin

Natalia Ginzburg

La sua vita ha attraversato eventi storici difficili, pesantissime tragedie personali. Cresce a Torino in un ambiente intellettuale e antifascista: continui controlli della polizia, la prigione che tocca diversi membri della sua famiglia, tra cui il padre e alcuni dei fratelli. Sono anni che sintetizzerà bene, in seguito, nel suo Lessico famigliare (1963). Nel 1938 si sposa con Leone Ginzburg, che nel 1940 viene mandato al confino in un piccolo paese dell’Abruzzo, e con lui vivranno Natalia e i tre figli (Carlo, Andrea, Alessandra) fino al 1943. Ricorderà quel momento in un testo delle Piccole virtù (1962), un tempo vissuto come un passaggio scomodo e che si rivelerà essere invece il più felice.
Tra il 1943 e il 1944, i Ginzburg presero parte a diverse attività di editoria clandestina. Al loro ritorno a Roma, Leone fu arrestato e condotto in prigione, dove morì per tortura, senza poter rivedere la moglie ed i tre figli.
La scrittrice torna a Torino e, al termine della guerra, inizia a collaborare alla casa editrice Einaudi. Traduzioni, romanzi, saggi, opere di teatro: la sua attività di scrittrice riempie i decenni successivi. Si sposerà di nuovo, nel 1950, con Gabriele Baldini, che morirà nel 1969. E sarà anche parlamentare (1983 e 1987), eletta nella Sinistra Indipendente, attiva in iniziative per la difesa dei diritti e contro il razzismo.
È lì che io l’ho conosciuta.
Scrivere queste righe ha significato per me rendermi conto di qualcosa di inaspettato: come una persona che da tanti anni non è più con noi possa, a un tratto, essermi di nuovo vicina. Un’emozione profonda, che non conoscevo.
Natalia, nel ricordo, è proprio lei: affettuosa con le persone che le sono attorno, molto consapevole dei problemi umani e politici del mondo di cui siamo parte. Schiva e discreta. Silenziosa, in molte occasioni. Sempre attenta. La sua presenza non si deforma, non si appanna.
È la persona grazie alla quale ho capito come incontrare generazioni, esperienze, e pezzi di storia differenti da quelli che viviamo, possa costituire un “ponte” molto importante – se lo sappiamo utilizzare – per imparare, in qualche modo, a vivere: consapevoli, anche fiduciosi. Ci sono momenti e aspetti difficili, della vita e della storia; ma magari, andando avanti, di tutto questo capiremo il senso. Quel che succede attorno a noi, cercare di capirlo; e riuscire a fare la nostra parte. Non starne fuori, o ai margini. Un disorientamento estremamente attento, che sta tutto nella misura dell’umano. Questo c’è nei suoi scritti.
Il suo linguaggio è “umile”; lo sono i titoli dei romanzi, Le voci della sera (1961); Lessico famigliare (1963), Ti ho sposato per allegria (1966); La città e la casa (1984). Ci sono le “piccole cose”, la “vita quotidiana” (termini usati in alcuni filoni della sociologia: dunque, anche in questo c’è tra noi un legame).
I personaggi che nella sua scrittura arriviamo a conoscere come se davvero li avessimo incontrati, per quanto ci sono messi vicino, nei gesti semplici, nelle parole e anche in quello che non dicono, vivono negli anni del fascismo, delle leggi contro gli ebrei, di Mussolini e dell’Asse Roma-Berlino, della guerra. Ho chiara in mente (Tutti i nostri ieri, 1952) la descrizione del momento in cui si sparge la notizia della caduta del fascismo, e si parla dell’armistizio, e si spera che sia tutto finito. Ma poi arrivano i tedeschi, e invece «gli inglesi non arrivano mai».
Molti dei suoi libri sono costruiti attraverso lo sguardo di donne. C’è la vita di bambine (Natalia, in Lessico Famigliare), di giovani ragazze incinte, di vecchie (la «signora Maria»), di donne adulte con i loro figli (Lucrezia, La città e la casa) le contadine, le borghesi.
E gli uomini: quelli in guerra, lontani per mesi e per anni; quelli di cui si sapeva solo che erano “in Russia”. Cenzo Rena e Franz che si consegnano ai tedeschi per salvare la vita di dieci ostaggi innocenti, e vengono fucilati: sono le ultime pagine dei “nostri ieri”.
Ho amato moltissimo l’invenzione (appunto nell’ultimo testo che ho citato) di mettere insieme le lettere di persone, familiari, amici, che si tengono in contatto o si ritrovano (e cambiamenti, sofferenze, il passare del tempo). Il tono, le parole sono quelle della vita di ogni giorno e delle “piccole cose”, che però sono parte di vicende storiche complesse, pesanti. Complesse e pesanti anche le sue esperienze, a partire dalla morte terribile di Leone Ginzburg, il marito torturato e ucciso in carcere nel ‘44. Di questo lei non parlava mai.
Ci siamo “viste” per la prima volta (entrambe come neodeputate elette nella Sinistra Indipendente, ed entrambe “nuove” dell’ambiente) nel corso di una affollata riunione, in una stanza di Montecitorio. Mi ero seduta vicino ad alcune altre persone del nostro “gruppo” quando è entrata, un po’ incerta tra tanta gente in quel contesto inconsueto. Sono andata verso di lei e le ho suggerito di venire dove già alcuni di noi erano seduti. Da allora, mi ha definito il suo “angelo custode” nelle prime esperienze parlamentari, quelle burocratiche in particolare: fare il tesserino di deputato, identificare la propria cassetta postale tra le molte centinaia disponibili, trovare l’ascensore giusto per salire ai piani superiori. Allora c’erano queste cose, poi certo molto sarà cambiato nel palazzo.
Abbiamo passato insieme molto tempo: le sedute durante i lunghi dibattiti parlamentari, riunioni di ogni tipo, convegni. Nel 1989 abbiamo costituito, insieme ad altri, l’associazione Italia/Razzismo. E momenti liberi: a casa sua a Roma; una volta a Sperlonga durante le vacanze e anche un’estate, chissà come, in Val d’Aosta, con Vittorio Foa. Voglio ricordare anche lui, che mi è altrettanto caro.
I figli, i nipoti. In un paio di occasioni anche Giulio Einaudi: lui mi sembrava poco contento che io fossi tra i piedi, proprio non c’entravo con il loro mondo. In effetti non ricordo che si sia mai parlato dei suoi romanzi o di letteratura in generale: forse avrei dovuto farlo.
Certe sue brevi frasi comunque mi sono rimaste in mente. Alcune dei suoi libri; altre, di momenti vissuti insieme: quelle dell’ultima volta che ci siamo viste. Abbiamo parlato di cose quotidiane, come sempre. Il giorno dopo mi hanno chiamato, e ho saputo che non c’era più.
Le tengo dentro di me: con gratitudine e un senso di profonda tenerezza.

Di Laura Balbo dall’Enciclopedia delle donne

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The Mighty Ducks 1992

A self-centered Minnesota lawyer is understood to be a youth hockey coach for community service.
Director:
Stephen Herek Author:
Steven Brill Stars:
Emilio Estevez, Joss Ackland, Lane Smith | Lawyer Gordon Bombay is haunted by memories of his childhood when he lost the shooting goal as the star player of his championship hockey team, losing the game and the coach’s approval. After he was charged with drunk driving, the court ordered a small hockey team to be instructed, which is too worst. Gordon is very hesitant at first. Eventually, however, he earns the respect of the children and teaches them to win, gets a sponsor and appoints the team The Ducks. In the final round, they take on Gordon’s old team, led by Gordon’s old coach, giving Gordon a chance to defy old thoughts.

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