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Ciao Catherine!

Se n’è andata la femminista garbata, paladina della parità di genere che aveva perso la patria potestà di sua figlia perché “ attrice di dubbia moralità “, lei che, molto tempo fa, aveva denunciato le molestie subite sul set facendo nomi e cognomi.

Ciao Catherine Spaak, non ti dimenticheremo!

Rupi Kaur


Tra le donne poetesse e scrittrici più influenti della nostra epoca c’è Rupi Kaur, autrice di due best seller di poesia da 2 milioni e mezzo di copie vendute. Indiana naturalizzata canadese, fu incoraggiata dalla madre a cominciare a dipingere e a scrivere da piccola, per superare le difficoltà linguistiche dovute al trasferimento in un continente diverso. 

La sua prima antologia è “Milk and Honey”, che in una serie di poemi illustrati descrive il cambiamento delle donne che affrontano periodi difficili.

Il suo secondo capolavoro è “The Sun and Her Flowers”, che affronta temi relativi alla perdita, al trauma, alla femminilità, alla migrazione e alla rivoluzione.

Uno degli atti che l’hanno resa la più celebre “instapoet” contemporanea è quello legato alla pubblicazione sulla piattaforma Instagram di una serie di fotografie raffiguranti il ciclo mestruale di una donna. 

Rupi voleva così evidenziare il modo in cui, in molte culture, le donne vengono evitate durante le mestruazioni. In alcune comunità la donna non può uscire di casa o frequentare i luoghi di culto, perché considerata “sporca” nel periodo del ciclo. 

Questo lavoro rivoluzionario aveva l’obiettivo di mettere gli spettatori di fronte alla naturalezza del ciclo mestruale femminile, costringendoli ad affrontare le loro paure, ad accettare e riconoscere la grandezza e la potenza del corpo femminile.

Di Matilda Abate

Prova immagine

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Omaggio a Rosa Orfanó

Rosa
Mi chiamo Rosa Orfanò e sono nata a Tropea da una famiglia del popolo. Mio padre vendeva pesci e mia madre lavava panni alla fiumara.
Ero l’unica figlia e l’amore dei miei genitori
non mi é mai mancato.
Non ho fatto grandi studi perché nella mia casa non si concepiva l’idea di una donna letterata, ho sempre amato leggere, però, e ancora di più cucire e ricamare ma… ma al primo posto per me era la preghiera.
Appena avevo un pò di tempo, dopo aver aiutato mamma nei lavori domestici, mi mettevo in un angolino dell’unica stanza, che chiamavamo casa, e pregavo, pregavo tanto al punto da non accorgermi del tempo che passava.
Quando seppi di Loro e da chi? Non saprei dirlo di preciso perché in quegli anni a Tropea tutti ne parlavano. Tutti raccontavano del Sacerdote Francesco Mottola che con una figlia dei conti Scrugli, la più bella, Irma, giravano tra i bassi lerci e bui per dare conforto a tanti poveri, soprattutto ai vecchi ammalati e abbandonati.
Moltissimi ne parlavano e a tanti sembrava strano e sconveniente che una signorina nobile girasse per le vinee con un prete.
Eppure, a poco a poco, quella strana vicenda mi entrò dentro e mi prese il cuore e assieme a me tante altre giovani donne, tropeane ma anche dei paesi vicini, decisero di andare col prete e la signorina.
Diventammo le Carmelitane che non stanno chiuse a pregare nel convento ma scendono sulle strade per andare a cercare Gesù nei posti più sudici e scuri
. Assieme a me c’erano, come prime compagne, Gertrude, Micuccia, Maria, Angelina, Ninetta…. e tante altre, tutte nella grande Casa della Caritá di Via Abate Sergio dove nel frattempo avevamo accolto tante vecchie sofferenti, povere, abbandonate.
Le nostre giornate volavano senza accorgercene tanto eravamo prese dalla cura delle anziane che affollavano la Casa, col cuore sempre pieno di Caritá, era questa la parola che continuamente risuonava tra le pareti di quella dimora meravigliosa, affacciata sull’azzurro del cielo e del mare e sullo straordinario Scoglio dell’ Isola, era questo il messaggio che Padre Mottola e la nostra Sorella e Madre Irma ci offrivano senza sosta.
La mia mamma se ne andò presto nel cielo perché il suo cuore stanco si era consumato e a me rimase papá o, come usavo chiamarlo, “ u tata”.
Non l’ho mai trascurato, mai, neanche quando un’infezione alla mano, mal curata, mi paralizzò tutto il braccio destro. Addio ricamo e cucito, a me tanto cari, ma niente e
nessuno potevano impedirmi di lavare le nostre vecchiette, di pettinarle, di imboccarle, di carezzarle così come vedevo fare alla nostra amata Irma.
Anche le mie compagne si prodigavano fino allo stremo ed ognuna di noi aveva alcuni compiti particolari, Maria, per esempio, girava tutte le campagne in cerca di doni per la Casa e tornava sempre con le ceste piene, portate, a volte, anche da alcune donne che da noi avevano trovato rifugio.
Io amavo andare a trovare tante Signore, divenute amiche, e a loro e ai loro figli parlavo sempre dei nostri Irma e Francesco, riuscivo a incantarli tanto che alcuni, spesso, mi chiedevano di visitare la Casa della Carità e di incontrare il nostro Padre e la nostra Sorella Madre.
Sono felice di aver speso la mia vita in questo servizio e sono grata al Signore che mi ha fatto giovane donna al tempo di Francesco e Irma. Che gioia averli seguiti nel loro cammino di fede e di offerta totale di sè al Signore attraverso il conforto ai poveri.
Con Francesco e Irma ho imparato tantissimo, mi sono rinnovata profondamente. Pensavo di essere una buona cristiana perché pregavo tanto e ho capito che invece non bisogna mai essere soddisfatti di se stessi ma bisogna piuttosto ricercare sempre e senza freni la Santità, perché, come diceva Irma, tutto il resto é paglia.
Ho amato tanto il Signore e Lui mi ha amato facendomi diventare un’Oblata del Sacro Cuore. Gesù mi ha voluto bene donandomi tanta sofferenza, un male incurabile ha messo fine alla mia fragile esistenza terrena e sul mio lettino d’ospedale ho avuto il conforto degli amici più cari e della mia Irma.
La nostra Sorella Madre soleva dirci spesso:“ Se vedete un’ammalata a cui potete dare qualche sollievo, non deve importarvi niente di perdere una devozione per patire con lei; e se fosse necessario digiunare perché possa mangiare, dovete farlo…” e Lei, due mesi prima della mia morte, lo fece con me, lasciò tutto e, seduta sul mio lettuccio d’ospedale, dimentica del pranzo di Natale, mi imboccò e si cibò anche lei del mio pasto.
Sono partita per l’ultimo viaggio nel giorno di San Giuseppe e sono felice di aver visto attorno al mio corpo senza vita tutte, proprio tutte, le persone che ho amato, e ancora di più gioisco oggi vedendo che i piccoli semi che ho deposto nel cuore di tanti giovani, figli delle mie Signore amiche, si sono schiusi e donano ancora frutti che hanno il profumo inebriante del valore che ha dato senso alla mia vita: la Carità.

Quaderno dell’8 Marzo 2019 #2
Beatrice Lento

Tropea Cittá dell’emancipazione femminile di Dario Godano

La città di Tropea vanta una millenaria vocazione per l’emancipazione femminile, declinata nelle dimensioni sociali, religiose, politiche e culturali.

Già la prima menzione del suo nome è legata ad un’epigrafe paleocristiana risalente alla metà del V secolo. In questa iscrizione funeraria viene menzionata una tale Hirene, che visse sessantacinque anni e che fu Conductrix Massae Trapeianae, ossia colei che amministrò nel ruolo di dirigente (conductrix) un insieme di fondi rustici di proprietà della Chiesa di Roma (masse) disseminati nell’antico territorio di Tropea (Trapeia). Sempre nello stesso sito archeologico è stata rinvenuta un’altra epigrafe paleocristiana dedicata a Leta Presbitera, una donna sposata che svolse funzioni sacerdotali in un’epoca in cui il cristianesimo era ormai divenuto unica religione di stato. 

Le radici cristiane di Tropea si articolano nella devozione popolare verso le sue patrone: Santa Domenica e la Madonna di Romania. Questa duplice dedizione riflette il legame ancestrale del culto mediterraneo verso la figura sacrale femminile foriera di forze benefiche e salvifiche. Santa Domenica, giovane martire nata a Tropea nel 260 o nel 287, decapitata durante le persecuzioni di Diocleziano nel 303, è venerata come santa dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa ortodossa col nome di Ciriaca. La prima patrona di Tropea rappresenta col suo martirio la vergine coraggiosa che sfida e trionfa sulla forza bruta dell’oppressore. La Madonna di Romania, la Madre di Dio giunta dal mare e accolta dalla comunità dei fedeli, è la proiezione della figura religiosa presente in tutte le antiche culture, non solo mediterranea, della “Grande Madre” dispensatrice di prosperità e protezione verso la quale il popolo si affida nelle avversità (guerre, pestilenze, carestie e calamità naturali). 

Il simbolo religioso e turistico di Tropea nel mondo, il Santuario di Santa Maria dell’Isola, è storicamente unito ad un’importante figura femminile che seppe delineare i destini non solo della città tirrenica ma dell’intero Meridione: Sichelgaita(Salerno, 1036 – Cetraro, 16 aprile 1090). Figlia di Guaimario IV, principe di Salerno, sposò il Duca di Calabria, Roberto il Guiscardo nel 1059. Nello stesso anno Sichelgaita organizzò il Concordato di Melfi dove fu sancita l’alleanza tra la Chiesa di Roma ed i Normanni, intessuta tramite l’abate di Montecassino, Desiderio, futuro papa Vittore III, e dal vescovo di Acerenza Godano. Papa Niccolò II tolse la scomunica allo stesso Guiscardo, lo ricevette come suo fidelis e lo benedisse insieme alla consorte Sichelgaita per la futura conquista della Sicilia.

Donna energica, colta e carismatica, impose la sua autorità a corte ed esercitò una forte influenza sul marito, non solo in ambito diplomatico ma anche sul campo di battaglia, affiancandolo in tutte le campagne militari. La cronista bizantina Anna Comnena, descrisse Sichelgaita “come un’altra Pallade, se non una seconda Atena”. Nel 1062 fu accolta a Tropea dal vescovo greco Calochiro, poiché, a quanto riferisce Goffredo Malaterra, si era rifugiata in seguito alla notizia (falsa) dell’uccisione del marito a Mileto. Il vescovo di Tropea seppe così accattivarsi la riconoscenza di Sichelgaita e del Guiscardo, che con diploma del 1066, confermò ed accrebbe i domini che il Vescovado di Tropea possedeva ed elargì ampie autonomie amministrative e fiscali, delineando quello status di città libera e demaniale che nei secoli futuri favorirà il progresso economico e culturale della città tirrenica. L’antico eremo bizantino di Santa Maria dell’Isola con tutte le sue pertinenze fu donato all’abazia benedettina di Montecassino, in un preciso disegno di riconversione dal culto greco-ortodosso a quello latino-cattolico.

A due nobildonne tropeane si deve il merito della fondazione di due rispettivi complessi monumentali. Il Convento delle Clarisse, fondato nel 1261 su donazione di Marianna Mumoli per espiare ad una faida cruenta che vide l’estinzione delle famiglie Mumoli e Ruggeri. La stessa Marianna Mumoli andò a vivere il resto dei suoi giorni come monaca di clausura nel primo Convento dell’Ordine di Santa Chiara in Calabria È bene notare che la regola dell’Ordine di Santa Chiara venne approvata da Innocenzo IV il 9 agosto 1253 e che appena otto anni dopo, la prima città della Calabria dove si affermò il nuovo ordine monastico fu Tropea.

Il Monastero della Pietà, fondato nel 1639, fu voluto dalla nobildonna Porzia Carbonara, anch’essa desiderosa di espiare le colpe del figlio Geronimo Adisi, ucciso in circostanze rocambolesche dal governatore del castello di Tropea. Nel nuovo monastero di clarisse, sotto il titolo della Madonna della Pietà e dei Sette Dolori, la fondatrice ottenne che vi entrassero ogni anno dodici giovani provenienti dalle famiglie nobili.

Fra queste giovani novizie ci fu SuorDiana Caputo, protagonista di un “caso” che richiama celebri episodi manzoniani. Nel marzo del 1661, ci fu un vero e proprio processo per accertare la validità della vocazione di Diana Caputo presso il Palazzo Episcopale al cospetto del vescovo Carlo Maranta. Grazie alle deposizioni favorevoli della badessa e di altre suore, fu accertata la buona condotta della Caputo e la sua sincera intenzione di spogliarsi del velo monacale. La Caputo lasciò il Monastero per seguire una vita diversa che l’avrebbe resa moglie devota e madre amorevole. 

Verso la seconda metà del XVI secolo, i fratelli medici e chirurghi Pietro e Paolo Boiano, detti Vianeo, pionieri della rinoplastica, operarono a Tropea riscuotendo fama e prestigio nel panorama scientifico nazionale ed europeo. La tecnica di ricucire i nasi mutilati, la Magia Tropiensiumdescritta da Tommaso Campanella, fu portata avanti anche dopo la morte dei fratelli chirurghi. Laura Guarna, moglie di Pietro, fu anch’essa operante a Tropea verso la fine del XVI secolo, una donna medico che seppe continuare la conoscenza chirurgica della sua famiglia, contribuendo a consolidare Tropea fra gli epicentri del progresso della medicina moderna.

In un episodio emblematico per la storia della città, risplende il ruolo determinante delle donne tropeane, allorquando nel 1612, per scongiurare la vendita illegittima di Tropea, dalle matrone più facoltose alle popolane più umili scaturì una raccolta di ori, gioielli e monili per riscattate la libertà minacciata. Le tropeane stesse, quando giunse la notizia dell’annullamento della vendita di Tropea, il 23 agosto 1615, furono protagoniste dei festeggiamenti durati tre giorni e tre notti: dai palazzi patrizi le matrone fecero esporre drappi, damaschi, coperte colorate e arazzi, mentre le popolane al suono di cembali e sonagli improvvisarono balli e canti di giubilo per tutte le vie.

Due donne tropeane del Novecento spiccano per qualità eccelse con gli appellativi di Sindachessa e Signorina. Esse con il loro operato hanno scritto pagine straordinarie di storia tropeana, proiettando la città dalle macerie morali e materiali del ventennio fascista al progresso condiviso della Repubblica democratica.

Lydia Toraldo Serra (Cosenza 1 agosto 1906 – Tropea 13 luglio 1980) a 23 anni fu la prima calabrese laureata in Legge (tesi sul diritto di voto alle donne). Nel 1933 sposò Pasquale Toraldo e si trasferì a Tropea. Dopo la sua prima elezione nell’aprile del 1946 (una delle prime dodici sindache elette in Italia) manterrà la carica per 15 anni. Ciò fu possibile grazie al legame creatosi con la cittadinanza più umile, che nutriva nei suoi confronti gratitudine e devozione, definendola “la sindachessa” e  “la mamma nostra”. La vittoria della Toraldo Serra divenne l’emblema del passaggio da un’epoca in cui la donna era relegata a ruolo secondario e subalterno a quella che, di lì a poco, avrebbe visto tante altre donne diventare protagoniste nella storia della Repubblica. Grazie alla rete di conoscenze familiari ottenne la prima Scuola media (1948) e il Liceo classico (1952). Avviò l’edilizia pubblica e intuì l’opportunità rappresentata dal turismo con costruzione di un primo stabilimento balneare. Tra il 1952 e il 1956 fece dragare il porto, nel 1955 istituì l’ufficio postale, potenziò l’ospedale civile, dotandolo di una nuova sala operatoria, creò la sede locale dell’Organizzazione per la protezione della maternità e l’infanzia (Omni) con lo scopo di aiutare le madri bisognose. Chiusa la parentesi politica, la “sindachessa” si ritirò a vita privata. Nel 1972 fu nominata Cavaliere della Repubblica. 

Altra personalità femminile che si contraddistinse nella seconda metà del Novecento sotto l’aspetto sociale e caritatevole fu Irma Scrugli (Tropea 4 settembre 1907 – Tropea 22 settembre 1994). Proveniente dal ceto nobiliare, sin dall’infanzia maturò sentimenti morali e altruisti che la porteranno ad abbandonare gli agi familiari per abbracciare la povertà. Fu cofondatrice con don Francesco Mottola della “Famiglia degli Oblati e delle Oblate del Sacro Cuore”, istituto secolare, eretto poi a livello diocesano, dal vescovo Vincenzo De Chiara il 25 dicembre 1968. L’istituto oblato ancora oggi si occupa di assistenza agli anziani, ai disagiati, oltre che dell’animazione nelle parrocchie. Irma fu presidente parrocchiale e diocesana della Gioventù Femminile di Azione Cattolica, il suo impegno si caratterizzò per l’attenzione ai poveri e per la profonda spiritualità. Il suo ideale fu quello di vivere una vita morigerata, casta ed umile aiutando con ogni mezzo la gente più bisognosa e portando avanti il messaggio spirituale del Beato Francesco Mottola.

Pur nella diversità di storie, Lydia e Irma evidenziano dei tratti comuni di grande pregio sociale: l’emancipazione dai pregiudizi e dagli stereotipi che all’epoca soffocavano l’essere donna, la forza e la determinazione di un temperamento battagliero, lo spirito di servizio, l’amore per la comunità e la sensibilità sociale.

Endometriosi? … parliamone!

“Hai una soglia del dolore troppo bassa”. “È tutto nella tua testa”. “Sono dolori del ciclo, prendi la pillola e passano”. “Sarà una colica o una cistite”. “Le mestruazioni ce l’hanno tutte, non è possibile che tu soffra più delle altre”. “Sei una donna, considera questa sofferenza come una cosa normale, fa parte della femminilità”. No. Di normale non c’è proprio niente.
In Italia il 10-15% delle donne in età riproduttiva sono affette da endometriosi(tra il 30-50% delle donne infertili o che hanno difficoltà a concepire). Almeno 3 milioni nel nostro Paese, hanno una patologia conclamata e sono più di 175 milioni nel mondo. Numeri. Ma dietro ci sono persone, persone in carne e ossa. E storie dolorose.
Una malattia cronica invalidante, di cui non si conosce la cura e nemmeno le cause, caratterizzata dalla presenza anomala di endometrio, una mucosa che normalmente riveste esclusivamente la cavità uterina, all’esterno dell’utero. Una patologia progressiva che non interessa solo l’apparato riproduttivo ma si sviluppa su varie strutture e organi, e può colpire le ragazze già alla prima mestruazione e accompagnarle fino alla menopausa. Un periodo lunghissimo e dispendioso, fatto di sofferenza fisica ma il più delle volte vissuto anche con gravi ripercussioni psicologiche. L’endometriosi è una malattia subdola, difficile da diagnosticare. Chi ne è affetta, per anni, deve fare i conti con i giudizi di chi non comprende il suo dolore: amici, familiari, compagni e persino medici. E no, non è normale.

Per la Giornata Internazionale della Donna torna il Quaderno dell’8 Marzo

Un 8 Marzo speciale con  “CATERINA” terzo Quaderno dell’ 8 Marzo dell’Associazione sos KORAI Onlus in partenariato con la Distilleria Caffo 

I Quaderni dell’8 Marzo sono una delle iniziative promosse, per la Giornata Internazionale Della Donna, da sos KORAI Onlus, Associazione di Volontariato, presieduta da Beatrice Lento, nata per contrastare la subcultura maschilista attraverso i processi educativi. 

Partner del progetto la Distilleria Caffo, che molto più di uno sponsor, é il perfetto compagno di viaggio che condivide appieno gli obiettivi di promozione della donna e di benessere civile e morale del nostro territorio.

Scopo del Quaderno  é quello di divulgare la conoscenza di figure di donne che si sono espresse nella città di Tropea, nel suo comprensorio e in tutta la Calabria, con qualche possibile eccezione riservata a figure femminili di particolare fascino. 

Quest’anno il tema entro cui collocare le storie è “Donne che intrecciano fili”, creature femminili che, per scelta più o meno consapevole, o perché sospinte da accadimenti più grandi di loro, si sono dovute mettere in gioco, senza timore di aggiungere alle normali difficoltà dell’esistenza quelle derivanti dal contrapporsi alle convenzioni sociali e alla sfiducia verso le loro capacità, riuscendo a tessere straordinarie trame fatte di pragmatismo, accoglienza, ascolto, dialogo e cura.  

Il terzo Quaderno dell’8 Marzo rimarrà per sempre straordinario per le vicende eccezionali che l’umanità intera ha dovuto vivere a causa della pandemia da covid 19 che ha travolto tutti, sconvolgendo ritmi e abitudini di vita col timore di una malattia che per mesi non ha avuto il contrasto di medicinali veramente efficaci. 

Per due anni,  il Quaderno, datato 2020, é rimasto nel cassetto attendendo tempi migliori. Oggi che, sia pure con cautela, riprendiamo a incontraci è giunta l’ora di presentarlo e farne dono a tanti. Ecco perché l’evento che lo vedrà protagonista al Santa Chiara di Tropea sarà la più bella giornata dell’8 Marzo che si possa immaginare.

A celebrare  la ricorrenza, che ha il  Patrocinio del Comune di Tropea, oltre agli organizzatori e alle autorità le musiciste Lucia Quattrocchi e Caterina Timpano, l’attrice Noemi Di Costa con LaboArt, e l’antropologo Vito Teti nelle vesti di Ospite d’Onore.

Le 28, magnifiche Donne, che popolano il terzo Quaderno, edito da Romano Editore, dal nome “Caterina”, straordinaria Madre a cui la pubblicazione é dedicata, hanno mille sfaccettature abilmente composte in unità dalla loro tenacia e dalla loro voglia di essere comunque protagoniste, quasi sempre  senza clamori  e con la forza dirompente della resilienza che le vede vincitrici nonostante i pregiudizi che le vorrebbero tenere ai margini. 

Esprimo riconoscenza a tutte, e attraverso loro, a cui idealmente mi rivolgo, perché nella maggior parte dei casi non ci sono più, ringrazio i parenti e gli amici che mi hanno donato le loro emozionanti storie.

Grazie a Marianne, Caterina Iozzo, Isabella Figliano, Rosa Simonelli, Orsolina Mamone, Paola Caterina Misefari, Giuseppina Pugliese, Luisa, Nuzza, Franca, Petrizia, Maria, Gina Capua , Sahar, Giovanna Fratantonio, Itala Clotilde Del Vecchio, Giovanna Spanto, Anna Costanza Baldry, Tiziana Lombardo, Maria Teresa Grimaldi, Anna Maria Piccioni, Ciccina e Franca Purificato, Rosaria, Anna Cuturello, Costanza, Maria Giovanna Di Bella, Cecilia Faragò.

Un grazie affettuoso a Tanina Muscia per i suoi quattro splendidi ritratti, a Rosetta Bova, Antonio Libertino, Pasquale e Lucia Lorenzo che, con le loro illustrazioni, hanno dato intensità alla scrittura e a Monica e  Marta La Torre che hanno permesso di aggiungere alle immagini anche due acquarelli  della loro meravigliosa mamma, Anna  Maria Piccioni, pure Lei cittadina del meraviglioso  mondo del Quaderno.

Un grazie altrettanto emozionato alla Madrina della pubblicazione, Delfina Barbieri Caffo che, assieme a noi di sos KORAI, vuole impegnarsi per garantire all’essere femminile un futuro migliore, alla Socia d’Onore, Luigia Lupidi Panarello, per avere poeticamente espresso in apertura “la consegna della tessitura” che le donne ricevono dall’origine e ad Anna Maria Miceli, insostituibile consigliera, che, assieme a me, é curatrice artistica dell’opera che sará ufficialmente presentata l’8 Marzo prossimo.

La differenza donna che diventa ricchezza rimane l’obiettivo primario della nostra Associazione, il suo perseguimento  continua attraverso le varie attività associative che esprimono il nostro essere sempre e comunque con le donne per la libertà e i diritti.

Anche se sembrerebbe superfluo parlare ancora di Parità di Genere, in realtà non lo é per niente, proprio quando pensiamo di aver raggiunto la meta gli eventi ci chiedono di non distrarci e di continuare a protestare e a lottare e noi rispondiamo protestando e lottando.  

Tropea 23 Febbraio 2022

La Presidente di sos KORAI 

Curatrice del Quaderno dell’8 Marzo 

Dottoressa Beatrice Lento

CATERINA: il terzo Quaderno dell’8 Marzo di sos KORAI

DISTILLANDO ESSENZE DI UMANITÀ

Dopo due anni di pausa forzata ritorna il Quaderno dell’8 Marzo dell’Associazione sos KORAI in partenariato con la Distilleria Caffo Nuccio Caffo… che gioia!

“ Le tessitrici che popolano il Quaderno sono diversissime tra di loro ma un filo le unisce: il privilegio, tutto femminile, di poter custodire in grembo la vita che le rende protagoniste
nonostante le avversità che vorrebbero soffocarle, relegarle, zittirle, marginalizzarle. La loro saggezza incide le pagine rilasciando energia che rinfranca, incoraggia e sostiene. Non é un caso che il Quaderno si presenti l’8 Marzo, il mese della primavera che vede la natura restituire vitalità alle piante e agli animali. i primi segni del ritorno della luce si intrecciano all’incanto magico della donna…”

Gigliola Curiel

Gigliola Curiel nasce e cresce a Trieste, in una famiglia di origini ebraica. Negli anni Trenta si trasferisce, insieme alla famiglia, a Milano dove conosce Carlo Bettinelli, rampollo di un’antica famiglia milanese che commercia nel ramo delle pelli. Si sposano nel 1938. Carlo muore giovane lasciando sola la moglie negli anni duri del fascismo e della guerra; nonostante tutto Gigliola riesce, grazie al suo carattere coraggioso, se non spregiudicato, a salvare la propria vita e quella della figlia che porta in grembo e a sfuggire alle persecuzioni antiebraiche.

Al termine della guerra Gigliola è costretta a rimboccarsi le maniche e decide di cimentarsi con la sartoria, attività che apprezzava fin da piccola quando a Trieste seguiva con passione l’attività della zia Ortensia che vestiva, nel suo atelier in centro, l’élite della società mitteleuropea di inizio secolo. Gigliola, decisa a mantenere alto il prestigio del cognome Curiel “quando può metter mano su vere stoffe, tagliarle e cucirle, apre una sartoria in via Durini a Milano, dove resterà fino al ’50. Comincia con dieci lavoranti, un tagliatore, una premier, ha clienti occasionali che non sono ancora le vere milanesi, perché queste non si sono ancora accorte di lei”1.

Negli anni a seguire l’atelier di Gigliola Curiel diventa una tappa fissa per le signore della Milano bene, che trovano nel negozio di via Borgogna (lì si era trasferita la sartoria negli anni Cinquanta) sia abiti d’alta moda per brillare nelle serate di gala, sia abiti da giorno raffinati per essere eleganti in ogni momento della vita quotidiana; tra le clienti più affezionate ricordiamo: la contessa Anna Cicogna, la contessa Mina Borromeo Pesenti Pigna, Ute Von Aichbichler, (in arte Ute De Vargas cantante lirica), Enrica Pessina Invernizzi, la contessa Maria Teresa Crespi, e poi Elisa Riva, Antonia Levi Broglio, la contessa Vassallo, Giuliana Brenner. Le avventrici sono tutte attratte “dall’inconfondibile linea curriellana”2 che valorizza il corpo femminile, inoltre indossare “un abito firmato Curiel è un traguardo che tante donne sognano quale indice di classe e di eleganza inconfondibili”3.

La poliedricità delle creazioni Curiel richiama anche l’attenzione dei buyers dei grandi magazzini, tra cui quelli di Bergdorf Goodman, istituzione nel mondo della moda newyorchese. A partire dal ’53 Gigliola, prima couturier italiana a sfondare oltreoceano, firma un contratto con l’azienda americana per la produzione stagionale di una linea in esclusiva. Dice la stilista di questa esperienza:

“Conoscono il mio gusto che coincide perfettamente con quello delle loro ricche clienti di Bergdorf Goodman, perché sono vestiti che si vendono cari in America […]. I nostri abiti hanno il vantaggio di essere eleganti e ricercati nei tessuti e nella lavorazione, ma nello stesso tempo sono abiti facili, femminili, piacevoli da indossare”.4

A partire dagli anni Cinquanta la moda vive un periodo di rivoluzione artistica capitanata dai giovani stilisti. Gigliola osserva con attenzione le nuove tendenze e decide con coraggio di ignorarle, forte del suo ideale classico di bellezza ed eleganza, basato sulle linee e le proporzioni; tutto ciò viene riconosciuto dalle giornaliste di moda, che lo descrivono in maniera esauriente:

“Le sorprese non mancano mai. Ci sentiamo ormai un po’ malconce, dopo l’incontro con le ragazze aggressive uscite dalle sartorie, tutte in quella consumata divisa op, diventata un’ossessione, non più una novità, quando abbiamo avuto, che strano, un incontro con la vecchia moda di sempre, quella che ormai si dice buona solo per i crisantemi. Eppure che gioia guardare un vestito con gli occhi di prima, è come ritrovare la mamma dopo un avvenimento malvagio. Questa dolcissima sensazione l’abbiamo provata al dèfilè di Gigliola Curiel che a quanto pare, anche se non lo dice apertamente lo esprime solo con i fatti, ha eretto una muraglia cinese contro la scalmanata tribù di giovanissime donne a buchi e dalle ginocchia all’aria, che non intendono retrocedere davanti a quello che loro chiamano progresso. Eppure Gigliola Curiel con un self control quasi da inglese, ha mantenuto le distanze tra le due generazioni e ha imposto una splendida lunghissima collezione di abiti per donne ricche, affascinanti, non giovanissime […]. Le adulte, chiamiamole così, si vestiranno dunque dalla Curiel, e sceglieranno a piene mani fra i suoi duecentocinquanta modelli, una valanga di vestiti per tutte le ore, moderni anche se tradizionali, con quel tanto di nuovo nel colore, nell’impiego dei tessuti”.5

Purtroppo la malattia nel 1970 si porta via la “scultrice della moda”6, come l’ha definita il «New York Times». Il secondo marito di Gigliola decide di vendere il marchio Curiel. La parabola della casa di moda, però non è destinata a volgere al termine: l’intraprendente figlia Raffaella nello stesso anno, ovvero il 1970 riacquista il marchio e lo iscrive definitivamente nella storia della moda italiana.

Ala Gartner

Ala Gartner venne imprigionata ad Auschwitz, dove fece parte del movimento di resistenza del campo e dove venne impiccata per la parte avuta nel procurare la polvere da sparo con cui fu distrutto il Crematorio 4. Bedzin, Polonia, anni ’30.