Archivio mensile 10th Novembre 2019

La terra santa

Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c’era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio. 
Noi tutti, branco di asceti
eravamo come gli uccelli
e ogni tanto una rete
oscura ci imprigionava
ma andavamo verso la messe,
la messe di nostro Signore
e Cristo il Salvatore. 
Fummo lavati e sepolti,
odoravamo di incenso.
E dopo, quando amavamo
ci facevano gli elettrochoc
perché, dicevano, un pazzo
non può amare nessuno. 
Ma un giorno da dentro l’avello
anch’io mi sono ridestata
e anch’io come Gesù
ho avuto la mia resurrezione,
ma non sono salita ai cieli
sono discesa all’inferno
da dove riguardo stupita
le mura di Gerico antica. 
Le dune del canto si sono chiuse,
o dannata magia dell’universo,
che tutto può sopra una molle sfera.
Non venire tu quindi al mio passato,
non aprirai dei delta vorticosi,
delle piaghe latenti, degli accessi
alle scale che mobili si dànno
sopra la balaustra del declino;
resta, potresti anche essere Orfeo
che mi viene a ritogliere dal nulla,
resta o mio ardito e sommo cavaliere,
io patisco la luce, nelle ombre
sono regina ma fuori nel mondo
potrei essere morta e tu lo sai
lo smarrimento che mi prende pieno
quando io vedo un albero sicuro.

Alda Merini

Le ragazze del muro di Berlino

La foto risale all’agosto del 1961. Rosemarie Badaczewski e Kriemhild Meyer, all’epoca entrambe quindicenni, vennero immortalate mentre si tenevano per mano, separate da un muretto di cemento alto poche decine di centrimetri.

Di lì a qualche settimana, quel muro – che per 28 anni ha mantenuto separate la Germania federale dalla DDR, la Repubblica democratica tedesca – avrebbe raggiunto quasi 4 metri di altezza e oltre 150 km di lunghezza, divenendo il simbolo della Cortina di ferro.

Per il resto del mondo, invece, Rosemarie e Kriemhild sarebbero diventate “le ragazze del muro“: quella mattina di agosto, le due amiche, che da un giorno all’altro si ritrovarono rispettivamente a est e a ovest del muro di Berlino, si erano incontrate casualmente e – grazie a uno slancio di umanità della guardia di frontiera che avrebbe dovuto bloccarle – corsero a salutarsi per un’ultima volta.

Dal web

Lo stupro: il monologo di Franca Rame

Lo stupro

Il brano che ora reciterò è stato ricavato da una testimonianza apparsa sul “Quotidiano Donna”, testimonianza che vi riporto testualmente.

C’è una radio che suona… ma solo dopo un po’ la sento. Solo dopo un po’ mi rendo conto che c’è qualcuno che canta. Sì, è una radio. Musica leggera: cielo stelle cuore amore… amore…

Ho un ginocchio, uno solo, piantato nella schiena… come se chi mi sta dietro tenesse l’altro appoggiato per terra… con le mani tiene le mie, forte, girandomele all’incontrario. La sinistra in particolare.

Non so perché, mi ritrovo a pensare che forse è mancino. Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando.

Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Prendo coscienza delle cose, con incredibile lentezza… Dio che confusione! Come sono salita su questo camioncino? Ho alzato le gambe io, una dopo l’altra dietro la loro spinta o mi hanno caricata loro, sollevandomi di peso?

Non lo so.

È il cuore, che mi sbatte così forte contro le costole, ad impedirmi di ragionare… è il male alla mano sinistra, che sta diventando davvero insopportabile. Perché me la storcono tanto? Io non tento nessun movimento. Sono come congelata.

Ora, quello che mi sta dietro non tiene più il suo ginocchio contro la mia schiena… s’è seduto comodo… e mi tiene tra le sue gambe… fortemente… dal di dietro… come si faceva anni fa, quando si toglievano le tonsille ai bambini.

L’immagine che mi viene in mente è quella. Perché mi stringono tanto? Io non mi muovo, non urlo, sono senza voce. Non capisco cosa mi stia capitando. La radio canta, neanche tanto forte. Perché la musica? Perché l’abbassano? Forse è perché non grido.

Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. Li guardo: non c’è molta luce… né gran spazio… forse è per questo che mi tengono semidistesa. Li sento calmi. Sicurissimi. Che fanno? Si stanno accendendo una sigaretta.

Fumano? Adesso? Perché mi tengono così e fumano?

Sta per succedere qualche cosa, lo sento… Respiro a fondo… due, tre volte. Non, non mi snebbio… Ho solo paura…

Ora uno mi si avvicina, un altro si accuccia alla mia destra, l’altro a sinistra. Vedo il rosso delle sigarette. Stanno aspirando profondamente.

Sono vicinissimi.

Sì, sta per succedere qualche cosa… lo sento.

Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli… li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe… in ginocchio… divaricandomele. È un movimento preciso, che pare concordato con quello che mi tiene da dietro, perché subito i suoi piedi si mettono sopra ai miei a bloccarmi.

Io ho su i pantaloni. Perché mi aprono le gambe con su i pantaloni? Mi sento peggio che se fossi nuda!

Da questa sensazione mi distrae un qualche cosa che subito non individuo… un calore, prima tenue e poi più forte, fino a diventare insopportabile, sul seno sinistro.

Una punta di bruciore. Le sigarette… sopra al golf fino ad arrivare alla pelle.

Mi scopro a pensare cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né a parlare né a piangere… Mi sento come proiettata fuori, affacciata a una finestra, costretta a guardare qualche cosa di orribile.

Quello accucciato alla mia destra accende le sigarette, fa due tiri e poi le passa a quello che mi sta tra le gambe. Si consumano presto.

Il puzzo della lana bruciata deve disturbare i quattro: con una lametta mi tagliano il golf, davanti, per il lungo… mi tagliano anche il reggiseno… mi tagliano anche la pelle in superficie. Nella perizia medica misureranno ventun centimetri. Quello che mi sta tra le gambe, in ginocchio, mi prende i seni a piene mani, le sento gelide sopra le bruciature…

Ora… mi aprono la cerniera dei pantaloni e tutti si dànno da fare per spogliarmi: una scarpa sola, una gamba sola.

Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena.

Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare.

Devo stare calma, calma.

“Muoviti, puttana. Fammi godere”. Io mi concentro sulle parole delle canzoni; il cuore mi si sta spaccando, non voglio uscire dalla confusione che ho. Non voglio capire. Non capisco nessuna parola… non conosco nessuna lingua. Altra sigaretta.

“Muoviti puttana fammi godere”.

Sono di pietra.

Ora è il turno del secondo… i suoi colpi sono ancora più decisi. Sento un gran male.

“Muoviti puttana fammi godere”.

La lametta che è servita per tagliarmi il golf mi passa più volte sulla faccia. Non sento se mi taglia o no.

“Muoviti, puttana. Fammi godere”.

Il sangue mi cola dalle guance alle orecchie.

È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro, delle bestie schifose.

“Sto morendo, – riesco a dire, – sono ammalata di cuore”.

Ci credono, non ci credono, si litigano.

“Facciamola scendere. No… sì…” Vola un ceffone tra di loro. Mi schiacciano una sigaretta sul collo, qui, tanto da spegnerla. Ecco, lì, credo di essere finalmente svenuta.

Poi sento che mi muovono. Quello che mi teneva da dietro mi riveste con movimenti precisi. Mi riveste lui, io servo a poco. Si lamenta come un bambino perché è l’unico che non abbia fatto l’amore… pardon… l’unico, che non si sia aperto i pantaloni, ma sento la sua fretta, la sua paura. Non sa come metterla col golf tagliato, mi infila i due lembi nei pantaloni. Il camioncino si ferma per il tempo di farmi scendere… e se ne va.

Tengo con la mano destra la giacca chiusa sui seni scoperti. È quasi scuro. Dove sono? Al parco. Mi sento male… nel senso che mi sento svenire… non solo per il dolore fisico in tutto il corpo, ma per lo schifo… per l’umiliazione… per le mille sputate che ho ricevuto nel cervello… per lo sperma che mi sento uscire. Appoggio la testa a un albero… mi fanno male anche i capelli… me li tiravano per tenermi ferma la testa. Mi passo la mano sulla faccia… è sporca di sangue. Alzo il collo della giacca.

Cammino… cammino non so per quanto tempo. Senza accorgermi, mi trovo davanti alla Questura.

Appoggiata al muro del palazzo di fronte, la sto a guardare per un bel pezzo. Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi ora… Sento le loro domande. Vedo le loro facce… i loro mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso… Poi mi decido…

Torno a casa… torno a casa… Li denuncerò domani

 

Amor

Amor, ch’a nullo amato amar perdona….. 
lui vendeva stoffe al mercato e aveva gli occhi di gatto, 
ma io ero sposata con Mhamed , quarant’anni più di me, 
Mhamed l’ho incontrato la prima volta il giorno del nostro matrimonio, ho pensato, almeno non ha i baffi. Mia cugina è stata più sfortunata il suo vecchio aveva pure la barba. 
Mia madre l’hanno sposata a tredici anni ha fatto tredici figli. 
Mia madre mi ha detto segui il tuo destino come una spiga al vento, e vedrai che la vita passa presto come in un soffio, ma lui aveva gli occhi di gatto e all’improvviso il vento si è fermato mentre il mio cuore si è svegliato e ha cominciato a battere forte. 
Ci siamo innamorati dell’amore. Ogni giovedi al mercato di Tabriz su un letto di damaschi e sete preziose.
Tutte mi chiedono com’è morire sotto una pioggia di pietre…? 
Il contrario esatto dell’amore, il cuore si ferma e diventa tutto buio. 
Ma… quello che mi ha fatto male veramente è stato l’applauso finale di tutti gli uomini del paese, forse volevano pure il bis, ma io ero già sepolta….. 
c’erano pure mio padre e mio fratello ad applaudire…. 
Tutte mi chiedono com’è morire sotto una pioggia di pietre…? 
……conviene, i parenti risparmiano per la tomba…..

Anche sotto tutte le pietre del deserto di Garmsar nessuno potrà mai togliermi il mio amore dagli occhi di gatto…

Da Ferite a morte di Serena Dandini

Suor Plautilla

Dopo lungo e meticoloso restauro, seguito e sostenuto da Advancing Women artist, il sodalizio che recupera opere di donne, L’ultima Cena di Plautilla Nelli ritorna nella sua sfolgorante bellezza.

Plautilla era una suora, pittrice autodidatta, che dipingeva nel chiuso del suo Convento.

Nebras

Che cosa hanno visto gli occhi di Nebras

Etiope, 18 anni, in fuga dalla fame. Venduta, stuprata e torturata per un anno in Libia. Prima dai trafficanti, poi dai soldati pagati dall’Italia.

Si chiama Nebras, ha 18 anni, ed è bella; esile, i movimenti eleganti.

Il padre possedeva delle terre, in Etiopia. La siccità e il contrasto con un gruppo rivale gliele strappano. Per un po’, Nebras lavora come domestica in alcune case vicine, ma «i pochi soldi andavano dalla mano alla bocca», quasi non ne vale la pena.

Un giorno la sua migliore amica, Chiatu, dice: «Andiamo in Europa a salvare noi e le nostre famiglie». Hanno sedici anni e nessun soldo. Ma sono insieme, e partono. Trovare i trafficanti è stato facile, tutti sanno come fare, il Viaggio è nel tuo dna se sei nato nel Corno d’Africa, è una possibilità tra le altre. Si accordano per una cifra, avrebbero pagato i trafficanti una volta giunte a Sabrata o a Tripoli. Non sapevano che stavano offrendosi come schiave. Come facevate a non saperlo?, chiedo. Scuote la testa. Nessuno parla del Viaggio. «Si parte per aiutare la famiglia. Come si potrebbe dire, una volta arrivati, che si è vivi per miracolo? Sarebbe far soffrire la famiglia, l’opposto del motivo per cui si parte».

Le caricano su una jeep, sono in cinquanta, il bagaglio rimane a terra. Viaggiano per giorni verso il Sudan e il deserto. Prima del confine si fermano. I trafficanti chiedono i soldi. Non li hanno. Nessun problema: vengono vendute. Duemila dollari l’una.

I nuovi trafficanti sono armati e indicano una direzione, in mezzo al nulla del deserto. Il gruppo comincia a camminare. Il confine si trova a dodici ore a piedi, non si può attraversare in auto, è pericoloso. Poi di nuovo su una jeep, arrivano vicino a Khartum. La prima prigione. Le rinchiudono in una stanza con altre trenta persone. I trafficanti stanno in una camera più piccola, lì di fianco. Ne sentono i rumori. Loro stanno per terra, hanno fame, e sete.

I trafficanti entrano quattro, cinque volte al giorno e chiedono soldi. Alcuni tra gli schiavi li hanno. Nebras e Chiatu no. Prendono un telefono e ordinano di chiamare a casa. Nebras ha un cugino in Arabia Saudita. Ricorda il numero a memoria.

Lui si nega. Da mangiare hanno un piatto al giorno in dieci. Da bere una bottiglia da mezzo litro d’acqua, in quindici: ognuno ha quella che sta in un tappino. A chi chiede di più viene pisciato in faccia. Riempiono bottigliette di urina e li costringono a ingoiare. Là dentro ci stanno tre mesi. Una notte i trafficanti prendono Nebras e la portano nella piccola stanza. Non sa esattamente quanti sono, non lo ricorda. La tengono chiusa tre giorni. La violentano. Nelle pause, lei batte i pugni contro le pareti, nessuno la sente. Piange. «È colpa mia», mi dice. «Ero troppo debole, non mangiavo. Fossi stata più forte, gli altri mi avrebbero sentita». Quando esce si accascia tra le braccia di Chiatu, l’amica, che piange due giorni stretta a lei. Dopo è la volta dell’amica. Quando torna, dopo tre giorni, sanguina in molti punti. Ora è Nebras a stringerla. Ma Chiatu non parla più.

Poi, una notte, di nuovo, arrivano. Le vendono ai libici. Cinquemila dollari l’una. In quei tre mesi il valore è aumentato. I trafficanti libici le caricano su un camion con altre 150 persone. Impiegano una settimana ad attraversare il Sahara. Da bere, acqua mista a olio di motore. Alcuni durante il viaggio muoiono di fame e stanchezza, vecchi e bambini. Le madri piangono.

Arrivati a Kufra rinchiudono tutti i sopravvissuti in una prigione sotterranea. Si entra da un buco di mezzo metro. Dentro non si sta in piedi. Acqua filtra dal soffitto. Non c’è bagno. Si defeca e si urina seduti, dentro le gonne e i pantaloni. Non c’è aria, si muore di puzza e di asfissia. I libici entrano e chiedono denaro. Quando aprono l’apertura è insieme sollievo e terrore. Di nuovo Nebras telefona al cugino. Niente. Da mangiare ricevono cibo avariato, i vermi sono vivi. Loro mangiano.

«Quando hai fame mangi tutto». Stanno accasciate a terra nei loro escrementi per altre quattro settimane, senza luce. Poi Chiatu smette di muoversi. Muore tra le braccia di Nebras. Nebras, di notte e di giorno la vede ancora al suo fianco, oggi che mi parla la sua amica è lì con noi. Dopo tre mesi, Nebras inizia a provare strani movimenti nell’addome. Ha il terrore di essere incinta. I trafficanti ogni giorno entrano, e torturano. Sciolgono plastica sugli arti. Arroventano tubi di metallo e li premono sulle schiene.

Un giorno prendono sette uomini e li trascinano fuori. Ne ammazzano cinque, scattano foto. Ributtano dentro gli altri due, che raccontino. Ai rimanenti mostrano le foto. Se devono violentare, violentano sottoterra, davanti a tutti. Così che si veda. E i soldi si procurino prima. Neanche pagare subito è buono. Se paghi subito ti mantengono lì. Sei animale da mungere. Poi, la vendono ancora. Ottomila dollari. Il debito cresce, l’ultimo trafficante accumulerà quello che non hanno preso gli altri.

Nebras viene trasportata a Bani Walid. Più vicina al mare, più vicina alla meta, non lontana da Misurata. Il viaggio dura giorni, sono in cinquanta. Chi guida è ubriaco, guida veloce dentro il deserto. La jeep si ribalta. Molti muoiono, tanti bambini. Nebras vede crani all’aria. Seppelliscono i morti dentro la sabbia.

Aspettano tre giorni che arrivino ad aggiustare la jeep. Lei si rifiuta, ma viene caricata sulla macchina bagnata del sangue dei sepolti. Di notte fa freddo, lei trema. I trafficanti se ne accorgono, la bagnano con acqua ghiacciata. Poi picchiano con bastoni sotto le piante dei piedi. A Bani Walid li chiudono di nuovo sotto terra. Nebras è incinta, ora lo sa. Le fanno chiamare per la terza volta il cugino. Lui accetta di pagare. Dopo due mesi la portano a Sabrata, sul mare. La fine è vicina, si dice.

In verità ciò che spera è di morire presto. Il bimbo che porta in grembo è il terrore calato nelle sue viscere. Aspetterà che maturi abbastanza da uscire da lei. Incinta di cinque mesi, viene venduta alla polizia libica. Crede di essere finalmente in mani amiche, ma i poliziotti sono peggio dei trafficanti. La rinchiudono in una stanza e la violentano. Anche se lei dice loro di essere incinta, mostra il ventre. Poi un poliziotto domanda «è un libico che ti ha fatto questo?», e indica la pancia.

Nebras fa sì con la testa e chiede «perché non avete avuto pietà?». Così il poliziotto impara che lei parla l’arabo. La usa come mediatrice con gli etiopi. Nebras sta male. Alcuni prigionieri organizzano un piano per scappare, sente che ne parlano continuamente. Dopo tre settimane scappano. La portano con loro perché è incinta. A Sabrata l’accompagnano all’ospedale.

Partorisce al settimo mese, il neonato sta male. Il giorno in cui le fanno vedere il bambino, Nebras decide di uccidersi. Si taglia le vene dei polsi, ma le infermiere la salvano. Nebras, sdraiata in una stanza di ospedale, si chiede «è reale ciò che mi è successo? Volevo solo andare via dall’Etiopia». Le infermiere le dicono che forse può tornare a casa. Ma tutto vuole, Nebras, tranne quello: se suo padre sa del bambino l’ammazza per disonore. Nebras non può parlarne con nessuno. Il personale Unhcr la trova in ospedale e la trasporta in Niger assieme al figlio. Lei gli dà il nome di Bilal.

Nella Casa de passage, quando la incontro, le sue compagne credono che il figlio sia di un uomo che Nebras ama. Un uomo che l’aspetta in Europa. Questo fa credere a tutte, Nebras. Nebras non ha mai più parlato con la sua famiglia.

Che Bilal è figlio del trafficante libico lo sappiamo io e la psicologa. Adesso lo sai anche tu che hai letto la sua storia.

Nebras, torturata per più di un anno in Libia per essere fuggita dalla fame nel suo paese.

GIUSEPPE CATOZZELLA

Su L’Espresso del 28.10.2018

The Braves one

Vorrei parlarvi delle Akashinga che in lingua bantu significa “le coraggiose”.

Chi sono? Sono una task force tutta al femminile che difende gli animali in via d’estinzione dai cacciatori di frodo. Siamo nel basso Zambesi, Zimbawe, Africa Sud-orientale.

Le Akashinga sono donne armate che si addestrano e si allenano duramente sfidando gli stereotipi maschili e la tradizione. Si prendono una rivincita sulla vita, si riprendono la vita e ciò che spetta loro di diritto: un futuro. Difendono la terra e gli animali per tutti noi, non solo per il proprio territorio.

Queste donne sono legate da difficili e dolorose storie che si portano a tracolla insieme al loro AK-47, donne relegate ai margini della vita sociale. Alcune orfane, altre vedove, ragazze madri o ripudiate dai mariti, mendicanti e prostitute costrette per sopravvivere a vendere il proprio corpo. Kelly Lyee Chigumbura aveva 17 anni quando è stata violentata vicino alla casa della sua famiglia nella valle dello Zimbabwe. Dopo aver realizzato che era incinta del figlio del suo stupratore, Chigumbura abbandonò la scuola e mise da parte il suo sogno di diventare infermiera. “I miei obiettivi erano andati in frantumi”, dice. “Era come se non potessi fare più nulla con la mia vita.” Donne ai margini. Donne forti, piene di risorse, in attesa di un’occasione di riscatto. Che è arrivata quando Marcus Mader, un ex soldato dei corpi speciali australiani impegnato da anni nella lotta al bracconaggio, ha pensato: perché non ingaggiare queste donne, fiere, capaci e motivate nella lotta contro i cacciatori di frodo? In fondo la guerra in Iraq, dove Mader ha lavorato come contractor, gli ha insegnato chiaramente e con suo grande stupore, che le donne hanno un tasso di successo molto più alto nel contrastare la resistenza.

Già in Sudafrica si era tentato un esperimento simile nel 2013 con la Black Mamba Anti-Poaching Unit, reclutando donne per difendere rinoceronti, ghepardi e licaoni.

Ma questo progetto avviato nella Phundundu Wildlife Area nell’ecosistema Zambesi inferiore, non ha solo l’obiettivo di salvaguardare gli animali. È innovativo perché pensato per dare alle donne una vita nuova, renderle meno vulnerabili e discriminate. È una vera e propria azione di empowerment femminile. E ci sta riuscendo.

Quando si sono aperte le iscrizioni la risposta è stata impressionate. Sono arrivate in tantissime. Ora il plotone è composto da 26 donne, tutte altamente addestrate all’uso delle armi, al combattimento corpo a corpo, alle esercitazioni di guerriglia. Donne che studiano l’arte dell’imboscata e al tempo stesso le abitudini della fauna e i segreti della terra. Riconoscono le impronte, leggono i segni sugli alberi e seguono le tracce di uomini e animali. Le Akashinga padroneggiano le tecniche di pattugliamento e di mimetismo. Sanno prestare pronto soccorso in caso di attacco e sanno come perquisire, arrestare e preservare la scena di un crimine.

Quando il progetto è partito la diffidenza, soprattutto maschile, è stata enorme. C’era molta resistenza, sia perché la task force era di donne ma anche perché… di quali donne stiamo parlando? Di donne sfruttate ed emarginate dalla società. Quelle rifiutate, derise e minacciate. Donne abbandonate al loro destino.

Dirigendosi verso i campi di allenamento venivano molestate dagli uomini ubriachi che urlavano: “Questo lavoro non fa per te. Non lo è mai stato. Torna a casa tua! “

Ma le donne sono coraggiose, siamo tutteAkashingaben prima di essere dei Ranger. Non avendo mai ricevuto una forma di reddito sicura, avevano ormai affrontato miriadi di avversità e vissuto in condizioni di povertà estrema all’interno delle zone rurali emarginate dello Zimbabwe. Ogni giorno della loro vita. Sfidando il ridicolo e lo stereotipo non avrebbero mai perso quest’opportunità. E non si sono arrese. Finché sono tornate tutte a casa in divisa da Ranger.

Kumire è una madre single di 32 anni il cui marito è fuggito con una donna più giovane mentre era incinta del suo secondo figlio. “Questo lavoro non è pensato solo per gli uomini”, dice, “ma per tutti quelli che sono in forma e forze”. Per questo si allenano duramente tutto il giorno, con prove massacranti, sfinenti, al limite delle loro capacità: come trasportare una tenda da 90 chili in cima a una montagna con le gambe legate. Per 36 che provano, in 3 sole ce la fanno. Oggi, dopo un duro lavoro e uno forza incredibile, Vimbai, Tracey, Primerose vestite in mimetica e col fucile d’assalto a tracolla, si aggirano per la boscaglia. La perlustrano, la custodiscono, la proteggono. Sia la terra che gli animali. Sono vere professioniste, capaci, serie, oneste. Praticano imboscate al mattino immerse nel verde sottobosco come un’ombra screziata. Al collo un AR-15 maneggevole nel combattimento ravvicinato, un’ arma è abbastanza precisa da abbattere un bersaglio nemico a 500 metri.

La prima unità africana anti-bracconaggio armata di tutte le donne sta cambiando il modo di vivere di tutto il territorio. Il parco era diventato una specie di area libera da chi voleva appendersi un trofeo sopra al caminetto. Adesso gli animali sono al sicuro e le coraggiose Akashinga arrestano i bracconieri senza sparare un singolo colpo. In un anno ne hanno arrestati 80.

Ramrod dritta e orgogliosa, sorride mostrando la vivida cicatrice che le attraversa il labbro superiore, quello che il suo ex ragazzo le ha rotto picchiandola rabbiosamente quando era ubriaco. “Posso testimoniare il potere di questo programma di cambiare la mia vita. Ora ho il rispetto della mia comunità, anche da giovane madre single” spiega. Le donne sono meno corruttibili degli uomini, è un dato di fatto ormai constatato, lavorano di più, si ubriacano meno e soprattutto sono fiere di ciò che fanno. Per loro non è solo un lavoro. Apprezzano essere Akashingaperché hanno la possibilità di una vita migliore, anzi, di una vita.

I loro compiti sono di lavorare per fermare il crimine illegale: pattugliano all’interno e attorno alla riserva, interagiscono con la comunità, si mettono in contatto con le autorità locali, conducono una formazione regolare e mantengono un’alta etica di conservazione.

Da quando le Akashinga operano sul territorio il bracconaggio è crollato e tutte queste donne hanno conquistato l’indipendenza economica.

Ma volete sapere una cosa incredibile? Da quando queste donne proteggono la terra e perlustrano guardinghe il territorio, tutti si sono accorti di una cosa straordinaria: gli animali, in particolare gli elefanti e i bufali, sono meno aggressivi e attacchi e incidenti con la popolazione sono di gran lunga diminuiti. I contingenti femminili inducono meno aggressività negli animali.

auguriamo che l’obiettivo che punta a reclutare 1000 donne, proteggendo una rete di 20 ex riserve di caccia entro il 2025 sia raggiunto.Lo Zimbabwe ospita la seconda popolazione di elefanti del mondo e la Lower Zambezi Valley è una delle quattro roccaforti del paese.

“Un crescente numero di prove suggerisce che potenziare le donne è la più grande forza per un cambiamento positivo nel mondo di oggi”

Il progetto Akashinga è un investimento per le donne e le loro famiglie, per lo sviluppo di comunità rurali, le aree limitrofe e selvagge. Dando autonomia alle donne, si porta localmente a una riduzione della povertà, si migliora l’assistenza sanitaria, si sviluppano nuove competenze, si consente ai bambini di andare a scuola, diminuisce lo stupro e la violenza sessuale e c’è un considerevole aumento dell’aspettativa di vita grazie alla riduzione delle malattie e una pianificazione familiare strutturata.

Le Akashinga potenziano e ispirano. Combattenti incaricate del loro destino fisico e finanziario, queste donne contribuiscono a cambiare e migliorare il mondo.

Una storia che dà speranza e fiducia nel futuro.

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