Archivio mensile 21st Settembre 2018

Amalia Bruni nella Giornata dell’Alzheimer

É una cascata di eventi che determina la malattia di Alzheimer. Li abbiamo individuati quasi tutti ma ancora non riusciamo a scrivere il lieto fine – ammette la neurologa – Un misterioso interruttore biologico  innesca la malattia. Ci sono voluti oltre 30 anni per risalire alle sue origini e 11 anni di studi affannosi di biologia molecolare per isolare il gene alterato».  Il “mostro”, l’AD3, (detto in seguito PS1) è stato catturato nel maggio del ’95: aveva la stessa mutazione nelle famiglie analizzate, dunque, un’ origine comune. Gli studi condotti dalla Bruni e dal suo team furono pubblicati su Nature.

La patologia, nella sua forma più diffusa,  riguarda 600mila persone e cresce con l’invecchiamento della popolazione. Lentamente e inesorabilmente, ti spogli delle tue facoltà, ti riduce a un vegetale. E se è tristissimo, quando questo accade più frequentemente, a 70-80 anni, è tragico quando, per un errore genetico, come nei miei pazienti, tutto ciò accade a 40 anni!

Abbiamo ricostruito un albero genealogico che, a partire dal 1600, racchiude oltre 34.000 soggetti sparsi nei secoli e per il mondo che fanno parte di una unica immensa famiglia. È in questa famiglia che si trasmette, senza risparmiare alcuna generazione, l’Alzheimer a esordio precoce, quello ereditario. Sono stati identificati almeno 147 malati e 21 trasmettitori obbligati che hanno presentato e presentano una stessa forma della malattia di Alzheimer e ovviamente una stessa causa. Il modo e la sequenzialità sono sempre uguali nel tempo e nello spazio. Chi è malato la trasmette alla metà dei figli. Non ha importanza essere nati a Boston e Parigi o a Lamezia. Non ha importanza essere vissuti prima o dopo la scoperta degli antibiotici. Uno studio che è  un patrimonio mondiale al quale hanno contribuito in modo decisivo i calabresi, sia gli scienziati  sia  le famiglie colpite  dalla malattia che spontaneamente si sono sottoposte alle indagini. E la ricerca continua: attualmente sono in corso di valutazione i dati riferiti a nuovi studi sulle forme genetiche, eseguite su soggetti a rischio dalla nascita.

Il dolore cronico a Nardodipace

Il metodo di studio della Bruni  è tornato utile anche per un’indagine sulla popolazione di Nardodipace (Vibo Valentia) condotta 5 anni fa. La neurologa ha affiancato l’endocrinologo Giovanni Cizza, del National Institutes of Health,  in una ricerca sulla fatica cronica, identificando le mutazioni del gene della proteina di trasporto del cortisolo associate ad un quadro clinico di dolore cronico. I risultati sono stati pubblicati  sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism. Una precedente indagine era stata condotta da un medico australiano su una famiglia originaria del posto, emigrata in Australia.

Rita Levi Montalcini a Lamezia

Perfino Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per la medicina nel 1986, era accanto alla Bruni quando, prima della nascita del centro di neurogenetica, aprì a Lamezia Smid-Sud, Studio multicentrico italiano per la demenza organizzato dal neurologo toscano Luigi Amaducci.  Parteciparono i migliori scienziati. Avevamo finalmente un grande tavolo dove poter srotolare gli alberi genealogici. Un computer per poter calcolare direttamente i nostri dati, fino a quel momento inviati a Parigi per l’informatizzazione. Anche il sogno telematico dell’epoca, il fax, era ormai a portata di mano! Non avremmo più dovuto aspettare 15 giorni per una risposta, avremmo avuto colloquio in tempo reale con i collaboratori di svariate parti del mondo che stavano diventando numerosi». Un’esperienza durata pochi anni. La ricerca veniva messa in discussione, considerata un lusso superfluo, senza speranza. Ma era  quell’idea nuova  di coniugare la storia e la tecnologia americana, la rivisitazione scientifica dei caratteri dei calabresi,  di ricercare nella vita chiusa dei piccoli paesi,  nella prolificità, nell’ “aggregazione tribale” delle famiglie, che destava perplessità. Il progresso aveva inculcato  l’idea che per fare ricerca fossero necessari solo  attrezzature e macchinari». Da qui  è partito il  centro di Neurogenetica: un laboratorio in cui coinvolgere i calabresi, rendendoli  soggetti attivi, i promotori della ricerca.

La chiusura annunciata

La Regione Calabria, con la legge n.37 del 10.12.1996 ne ha sancito la costituzione. E  11 anni dopo, una legge regionale (n°9 dell’11.05.2007) ne determinava il finanziamento per 500mila euro annui. Ma di fatto, dal 2010 il commissariamento della Sanità regionale ha progressivamente definanziato la struttura. Il centro, conosciuto nel mondo per l’eccezionale  livello delle sue ricerche, quei soldi non li ha mai visti. Amalia Bruni amaramente ne ha annunciato la chiusura per mancanza di fondi.

Le prospettive in attesa che il centro di Neurogenetica diventi un Irccss

Ma in una recente riunione con  il delegato regionale alla Sanità Franco Pacenza  è stato stabilito che «per il 2018 saranno destinati al centro di Neurogenetica 200mila euro e assegnate alla struttura, con il coinvolgimento della Asp di Catanzaro, un neurologo e tre unità supplementari. L’obiettivo finale è trasformare  il centro regionale di Neurogenetica in una gemmazione degli Irccs, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico». La Bruni per il momento sta a guardare. Ma non per molto. La comunità scientifica mondiale segue con apprensione l’evoluzione della situazione. E io non intendo buttare all’aria il lavoro di una vita. Un impegno eccezionale che ha coinvolto anche la mia vita personale, mio marito e i miei figli.  Qui corriamo il rischio di diventare un “visitificio”.  Invece serve fare ricerca.  Del resto, nonostante tutta la mia disillusione, ho ancora nella testa quell’idea romantica della mia gioventù: fare qualcosa per la mia terra, contribuire al cambiamento

Da Calabriacult

La calabrese Rosella Postorino vince il Campiello

“Il mio corpo aveva assorbito il cibo del Führer, il cibo del Führer mi circolava nel sangue. Hitler era salvo. Io avevo di nuovo fame.” Fino a dove è lecito spingersi per sopravvivere? A cosa affidarsi, a chi, se il boccone che ti nutre potrebbe ucciderti, se colui che ha deciso di sacrificarti ti sta nello stesso tempo salvando?La prima volta che entra nella stanza in cui consumerà i prossimi pasti, Rosa Sauer è affamata. “Da anni avevamo fame e paura,” dice. Con lei ci sono altre nove donne di Gross-Partsch, un villaggio vicino alla Tana del Lupo, il quartier generale di Hitler nascosto nella foresta. È l’autunno del ’43, Rosa è appena arrivata da Berlino per sfuggire ai bombardamenti ed è ospite dei suoceri mentre Gregor, suo marito, combatte sul fronte russo. Quando le SS ordinano: “Mangiate”, davanti al piatto traboccante è la fame ad avere la meglio; subito dopo, però, prevale la paura: le assaggiatrici devono restare un’ora sotto osservazione, affinché le guardie si accertino che il cibo da servire al Führer non sia avvelenato.

Nell’ambiente chiuso della mensa forzata, fra le giovani donne s’intrecciano alleanze, amicizie e rivalità sotterranee. Per le altre Rosa è la straniera: le è difficile ottenere benevolenza, eppure si sorprende a cercarla. Specialmente con Elfriede, la ragazza che si mostra più ostile, la più carismatica. Poi, nella primavera del ’44, in caserma arriva il tenente Ziegler e instaura un clima di terrore. Mentre su tutti – come una sorta di divinità che non compare mai – incombe il Führer, fra Ziegler e Rosa si crea un legame inaudito.

Rosella Postorino non teme di addentrarsi nell’ambiguità delle pulsioni e delle relazioni umane, per chiedersi che cosa significhi essere, e rimanere, umani. Ispirandosi alla storia vera di Margot Wölk (assaggiatrice di Hitler nella caserma di Krausendorf), racconta la vicenda eccezionale di una donna in trappola, fragile di fronte alla violenza della Storia, forte dei desideri della giovinezza. Come lei, i lettori si trovano in bilico sul crinale della collusione con il Male, della colpa accidentale, protratta per l’istinto – spesso antieroico – di sopravvivere. Di sentirsi, nonostante tutto, ancora vivi.

Dal web 

Marguerite Yourcenar

Marguerite Yourcenar, pseudonimo di Marguerite Cleenewerck de Crayencour (Bruxelles, 8 giugno 1903 – Mount Desert, 17 dicembre 1987), è stata una scrittrice francese. È stata la prima donna eletta alla Académie française. Nei suoi libri sono frequenti i temi esistenziali, in particolare quello della morte.
„Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell’uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l’amore non corrisposto, l’amicizia respinta o tradita, la mediocrità d’una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni: tutte le sciagure provocate dalla natura divina delle cose“

Donna senza figli

Ancor’oggi una donna che non desidera avere figli è scandalosa.

Gli uomini non devono giustificarsi invece.

Noi dobbiamo spiegare eccome, forse perché finora abbiamo avuto solo lo spazio biologico di generatività e nessun altro.

Una affascinante ragazza di nome Maria

Mi ha incantato una dotta disquisizione di Vittorio Sgarbi sulla figura femminile più affascinante della pittura italiana che il famoso critico individua nell’Annunciata di Antonello da Messina.

Vittorio la definisce prima di tutto una donna e ritiene che neppure Leonardo sia stato in grado di rappresentare così efficacemente la femminilità, sensualitá  e turbamento, come Antonello in questa ragazza di forte carattere e infinita dolcezza.

Antonello si sbarazza dell’Angelo e la giovane viene presentata in un contesto indefinito perché lo spazio é interiore e non fisico, l’angelo si presenta anteriormente e la ragazza lo fa intendere muovendo la mano destra in avanti e facendola vibrare come a dire:” Un attimo. Ti ascolto”

Il leggio è l’unico elemento che lega l’immagine al suo tempo, 1470/1475, ma non cambia la sostanza della sospensione temporale di quel momento magico di riflessione dopo la sorpresa.

Maria si guarda dentro e con la sinistra si chiude la veste più che per pudore per proteggere ciò che sente dentro, il bene prezioso che Dio le ha donato.

Il volto perfetto della fanciulla é incorniciato da un velo che non imprigiona ma libera e custodisce il più grande segreto: la presenza di Dio.

Ave Maria Madre di Dio!

Grazie Vittorio Sgarbi.

Benedetta Barzini: Premio Victoria

«Non sopporto la superficialità», dice Benedetta Barzini. Niente è più lontano dalla modella, giornalista e insegnante che, a 75 anni (li compie il 22 settembre), è un turbine di idee, domande, opinioni che sfidano i canoni a cui la società ci ha abituato.

Anche per questo ha appena vinto il Premio Victoria, alla sua seconda edizione e lanciato da «Victoria 50», il programma creato da Procter&Gamble per le donne over 50 e consegnato nell’ambito dell’iniziativa Il Tempo delle Donne: «Lo vivo come un premio da condividere con tutte», spiega Barzini, la prima modella italiana su Vogue, dove ha lavorato dal 1963 al ’69, quando viveva a New York.

Aveva 20 anni quando fu notata mentre passeggiava per le vie di Roma e convocata dalla direttrice di Vogue Diana Vreeland per un servizio fotografico con Irving Penn. Avrebbe dovuto restare 10 giorni, vi rimase 5 anni.

Dagli anni Settanta è iniziato il suo impegno nel movimento femminista, si occupa di moda e di temi sociali su varie riviste e ha insegnato presso diversi atenei universitari.

Continua a posare per i grandi stilisti come modella «evergreen», ma sottolinea: «Invecchiare significa accettare di avere l’età che si ha, non far finta di averne 20 di meno».

«Sono orgogliosa della mia vita», spiega Barzini. «Mi piace il fatto che non assomiglio a quello che forse sarei dovuta diventare secondo alcuni e che non ho fatto soldi facendo la modella, pur lavorando con i grandi fotografi. Mi sono salvata dal guadagnare per le mie sembianze, che non è un merito. E sono autodidatta: mi sono messa a studiare Sociologia, Antropologia, Storia e ho insegnato per tanti anni».

Non insegna più?

«Purtroppo no. La mia materia non esiste nel programma ministeriale. Si chiamava “Storia dell’abito”, che non è la Storia della moda, quella te la vedi sulla Marangoni. Volevo che i miei studenti imparassero a riflettere con le loro teste. Per dire, perché esiste un corsetto? Per non respirare. E i tacchi a spillo? Per non camminare».

Ha sempre vissuto così libera dagli stereotipi?
«No, sono ancora costretta a conviverci. Non ti tiri fuori dal mondo in cui sei, ma è un mondo che ti deve far riflettere. Il segreto è non avere un atteggiamento di critica, ma di curiosità e osservazione. Quando ho fatto la fotomodella, mi è servito a capire che io ero la preda e il fotografo il cacciatore».

Mi racconta l’esperienza a Vogue?
«Ho fatto quello che mi è stato richiesto e da lì ho imparato tantissimo. È stato molto affascinante per capire: vedere la Vreeland in azione mi ha insegnato la demenzialità dell’ossessione per una bellezza formale e legata a dei canoni. Oggi non è cambiato niente».

Lei però non si è montata la testa.

«Sapevo che la bellezza non ero io, ma il lavoro della truccatrice, della redattrice, del fotografo. L’insieme di queste professioni fa di te una torta da matrimonio stupenda. Io mi pettino come mi fa comodo e mi metto da cent’anni le stesse cose. Quando ci guardiamo allo specchio, dobbiamo chiederci perché vogliamo i capelli in un modo piuttosto che nell’altro. La verità è che non sappiamo guardarci per vedere “noi”, ci guardiamo per essere più carine: siamo al servizio dell’uomo che ci guarda».

Quando ha cominciato a farsi queste domande?

«Dopo i 50. Non mi interessa la donna di 60 o 70 anni che si mantiene bene, mi interessano i problemi di fondo. La consapevolezza è fondamentale e non significa mettersi a fare battaglie rivoluzionarie. Finché le donne non si sveglieranno non cambierà nulla».

Del #Metoo che idea si è fatta?
«Non ho partecipato, anche perché ho sempre evitato di essere aggredita da qualche maschio importante. Non basta dichiarare che un maschio significativo ti ha messo le mani addosso, io voglio che un movimento di donne importanti riesca a dire qualcosa di più».

Come cosa?

«Che le donne non contano. Che in tutti i giornali di moda vedo geishe, donne con le labbra semiaperte che si fanno belle per essere “come tu mi vuoi”. E con “tu” intendo la  società e il maschio. Questo problema non viene affrontato».

Da dove possiamo partire?
«Da cose molto semplici. Per esempio, le donne non hanno un cognome, perché il cognome della madre è quello del nonno. Non c’è un lignaggio genealogico femminile. Le donne non capiscono che la nostra assenza significa la nostra insignificanza. È una metà dell’umanità che non deve avere voce, ma non se ne parla mai».

Che cosa ci frena?
«La paura e l’inesistenza di un pensiero femminile che sia complementare a quello maschile. Il nostro cervello è stato atrofizzato in milioni di anni senza studio. A scuola studiamo quello che hanno fatto i maschi. Non abbiamo delle fondamenta a cui aggrapparci».

Lei com’era da bambina?
«Ero muta e osservavo il mondo, mi affascinava la storia della Cina, disegnavo le statue di Michelangelo. Non c’era nessuno con cui parlare, ho avuto un’infanzia strampalata. È stato tutto molto difficile e ci ho messo parecchio a capire qualcosa».

Che cosa l’ha aiutata?

«L’emancipazione è arrivata col tempo. Ho imparato a riflettere invece che soffrire. La vita difficile mi è sempre servita, quella facile è inutile. La felicità non esiste, ma esistono momenti felici».

Il suo qual è?

«Non è visibile, è quello in cui ho avuto i miei bambini e li ho tirati su con grande difficoltà e grande amore. Ma le cose belle non sono pubbliche».

Di Margherita Corsi

Hermione: il mondo é tuo!

E vaiiii: benvenuta generazione Hermione fatta di Ragazze che vanno dritte verso quello che vogliono pur rimanendo se stesse, che si affermano, che accettano i propri difetti, conoscono i propri talenti e sfidano i propri limiti.

Donne che che si fanno avanti in quanto tali esprimendo appieno la propria femminilità.

Madeleine

C’é un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano le donne.

Madeleine Albright

La Pacchiana di Sambiase: Matrona di Calabria

Vi capita mai di incontrare in sogno momenti importanti della vostra vita ed esserne profondamente turbati al risveglio? A me succede e l’ultima emozione trasmigrata nella realtá ha per protagonista la Pacchiana di Sambiase. 

Mio padre aveva i suoi natali in questa città oggi confluita nel miscuglio di tradizioni che prende il nome di Lamezia Terme ma la Sambiase che porto nel cuore rifugge ogni ibridazione e si mantiene viva nel mio ricordo nella sua esclusività popolando spesso la mia esistenza fantastica. In questa dimensione onirica, che tanta parte della vita assorbe, ho rivisto la Pacchiana alimentata dai ricordi narrazioni del mio papà che portava nel suo cuore la Casa d’origine con struggente nostalgia.

 La nonna Gasperina Tropea, per il suo status, non indossava l’abito che era presente, però, in famiglia attraverso la suocera di un suo figliolo ed io, sognando, l’ammiravo soffermandomi in particolare sulla bizzarria della “coda”, così mi appariva quell’intreccio di tessuto finemente pieghettato che mi ricordava la ruota del tacchino.

 Spesso le vicissitudini notturne si dileguano al risveglio ma quella no, persisteva perché legata a un pezzetto importantissimo del mio cuore. 

Che fare per offrire tregua alle emozioni che mi agitavano la mente e il cuore? Dare loro consistenza reale attraverso un racconto che avrebbe fatto della fascinosa Pacchiana una cittadina del mio blog soskorai.it 

Scrivo a mia cugina Gasperina e su suo suggerimento chiedo notizie agli amici del Gruppo Facebook “Sei di Sambiase se …l’ami…” da lei curato, ne ricevo tante e soprattutto avverto un intenso pathos, quello che nasce dai sentimenti viscerali che s’insidiano nel cuore da quando si é custoditi nel grembo materno. La mia Pacchiana diventa la nostra ed io narrerò di lei con un scrittura a più mani, ho deciso! 

Eccola, eccola la nostra bella, la osservo camminare nell’Orto di Carrera, l’apprezzo nei suoi lavori di campagna e in quelli, non meno duri, di famiglia e mi incanto estasiata dal suo complicato abbigliamento

“Ppi si véstari ‘a pacchjàna,

prima cosa si ‘nsuttàna;

carma, carma, senza affànnu

pùa si ‘mbùalica ‘ntr’ o pannu;

illu è nìuru o culuràtu,

assicùndu di lu statu:

è russu priputènti

s’ u marìtu l’ha vivènti,

è culùri ‘i vinu ammaccàtu

s’ u marìtu ‘unn ha truvàtu

ed è nìuru villùtu

s’ u marìtu cci ha murùtu.

Pùa si minti lla gunnèlla,

nìura, vìardi, brù ‘i franèlla,

si cci fha ‘n arrucciulàta,

‘a gunnèlla è già ‘mpadàta.

‘N àutru tùaccu pùa di fhinu

si lu dà ccu llu mbustìnu,

ma cchjù bella vo’ parìri

e ssi minti llu spallìari.

‘U mantisìnu ricamàtu

mìanzu pannu cci ha ‘mbarràtu;

prima ‘i jìri a llu purtùni

pìgghja llu fhazzulittùni;

quando nesci ppi lla strata

è cchjù bella di ‘na fhata!

‘A salùtanu d’ ‘i casi

‘a pacchiana ‘i Sambiàsi”

Grazie ai versi di Francesco Davoli scopro il suo costume nella complessità dei suoi componenti: la sottana di lino candido con maniche semplici o ricamate, il panno sottogonna di colore adeguato alla posizione civile, la gonna lunga a ruota di colore verde o blu o anche nera, quindici metri circa di stoffa riccamente plissettata a nido d’ape, raccolta alla vita e legata posteriormente a formare un’ incredibile coda leggiadramente discendente fino alle caviglie, il bustino allacciato sul petto , “u spalliari” specie di gilet nero con mezzi manicotti stretti sulle maniche della sottana a creare graziosi sbuffi, il grembiule con due tasche e il fazzolettone, grande scialle nero da avvolgere alla bisogna intorno alle spalle. Nei giorni di festa l’abito, già maestoso, si arricchiva dei gioielli: Berlocchi, Iannacche e Boccole.

Chi era realmente questa creatura, nata nel Seicento, che aveva ammaliato i viaggiatori del Grand Tour? 

Un laborioso e infaticabile Essere, Fiore Profumato della Civiltà Contadina, Incarnazione dei valori di quel mondo: l’attaccamento alla famiglia e alla terra, la capacità di sacrificio e di rinuncia, la giocosità delle tradizioni e delle feste, l’intraprendenza e il coraggio, la fierezza e la determinazione.

Il costume era segno di maturità e indossarlo per la prima volta un rito d’iniziazione che segnava il passaggio dall’infanzia all’età matura. Si aspettava il menarca per calarsi in quella veste carica di storia, spesso tessuta e cucita dalla ragazza che l’avrebbe indossata e poi portata in dote e un giorno speciale, quale il Natale, la Pasqua o la Festa Patronale, per consumare la cerimonia che trasformava in donna la giovinetta, una donna che sul proprio corpo avrebbe sostenuto, assieme alla straordinaria foggia, una parte consistente del carico familiare.

 Ecco perchè il complesso e impegnativo abito era soggetto a mutamenti che lo rendevano atto ad affrontare le vicissitudini variegate dell’esistenza come mirabilmente descritto da Francesco La Scala :”Del costume della pacchiana vorrei far riaffiorare alcuni aspetti poco osservati perché considerati di scarsa rilevanza e ordinari. Il costume da parata, a tutti noto, nei giorni di ordinario lavoro, veniva sostituito da sue parti essenziali ed estremamente pratiche che erano l’abito della quotidianità . Le nostre nonne quando non era festa non mettevano i Jeans ma indossavano il costume tradizionale in assetto ‘casual’ adatto per lavorare. 

Sulla testa indossavano ‘u rindiallu’ , una larga striscia di stoffa rettangolare nera, che si adagiava sulla testa e si avvolgeva con un rapido gesto sotto alla fronte rivoltandolo all’indietro. Su questo copricapo si disponeva poi ‘a curuna’ ( uno straccio ritorto a ciambella) sulla quale si poggiavano i carichi di ceste, barili, o altro, trasportati dalle nostre donne con tanta eleganza da fare invidia a qualsiasi moderna indossatrice. ‘U mbustinu'( bustino rigido) non si indossava per praticità durante il lavoro, così come maniche di sottane a sbuffo, spallieri eleganti etc. 

Era invece importantissimo ‘u mantisinu’, parannanza dalla vita in giù con tasche, che serviva

 per mille usi , non ultimo quello di nascondiglio per i nipotini timidi o impauriti. ‘A gunnella’, che avvolta caratteristicamente dietro alla schiena costituiva un impaccio notevole a qualsiasi lavoro, non veniva indossata in casa o in campagna, ma non si usciva di casa e non si tornava da campagna senza una ‘gunnella n’fhadata’ , magari vecchia, stinta, ma sempre al suo posto. ‘A gunnella sciadata’ (senza avvolgimento ) veniva portata esclusivamente nei lutti e nella processione del Venerdì Santo. ‘U fharsalittuni’ era un ampio scialle di lana con frange, che, d’inverno, copriva testa e spalle e che riassumeva tutti gli odori dei fragranti fumi dei nostri ‘tavulati’. ‘U pannu’ di colore rosso, nero o viola, veniva sempre indossato, anche in casa o in campagna.

Anche ‘ u spalliari’ era indossato sempre quando si usciva insieme ‘allu mbustinu’ e alla ‘gunnella’.

Sono questi ‘dressing’ diversi, usati nelle varie occasioni di vita corrente, dalle nostre donne di un tempo, che fanno pensare ad un codice di formule di abbigliamento minuzioso come quello usato a Buckingham Palace e, nello stesso tempo, richiamano i momenti più intimi della loro esistenza.”

Tale codice era estremamente funzionale ed efficace tanto che rispetto ad altri abiti del tempo quello di Pacchiana lasciava la libertá di movimento necessaria a quelle creature laboriose e infaticabili che, nonostante i pregiudizi e gli stereotipi di ruolo maschilisti, propri del tempo, si muovevano sempre a capo nudo ricoprendolo solo in caso di lutto stretto, in chiesa per riguardo al sacro o d’inverno per ripararsi dal freddo ma mai in segno di subalternitá o di sottomissione.

Una scelta trasgressiva, abitualmente considerata segno di sfrontatezza o addirittura di delitto peccaminoso ma le Pacchiane erano forti, coraggiose, indipendenti, libere. La bella Gunnella di Sambiase non temeva giudizi e pettegolezzi diffamanti, si era guadagnata il rispetto col lavoro, una fatica dura, assidua, importante e dignitosa. Aveva scelto di lavorare la terra, lavare i panni alla sorgente, impastare il pane, allevare i figli, confortare e assistere nelle malattie, gioire e ridere nelle festività, sostenere e guidare la famiglia senza sciocchi e inutili impedimenti esteriori e con la grazia, la maestosità e l’eleganza del portamento era una sfolgorante Matrona di Calabria.

Le Pacchiane di Sambiase hanno resistito con la forza della loro tempra, forgiata dall’impegno e dal sacrificio, agli assalti della modernità dissacrante fino a poco tempo fa, l’ultima Gunnella, “Catarnuzza” ha lasciato Sambiase lo scorso luglio, con Lei, estrema sacerdotessa di un mondo intenso di principi, scompare una magica presenza che per secoli ha sparso i suoi generosi doni su una terra complicata, affascinante e legatissima alle tradizioni ma il seme della Pacchiana rimane integro e continua a fruttificare nella fierezza, determinazione, intraprendenza e dignità delle Donne di Sambiase.
Di Beatrice Lento

P.S. Ringrazio mia cugina Gasperina Lento e tutti gli Amici del Gruppo Facebook “Sei di Sambiase se…l’ami” che, attraverso i loro significativi contributi, hanno scritto assieme a me questo racconto dell’anima, in particolare Francesco Davoli e Francesco La Scala e chiedo a tutti scusa per le inevitabili imprecisioni di un narrare del cuore che non ha pretese di scientificità.

La foto della bella Pacchiana ritrae Ivana Mercuri, figlia di mia cugina Ada Lento, anche a lei la mia gratitudine.

Hystera: Utero!

Isteria è un termine che è stato utilizzato nella psichiatria ottocentesca per indicare una tipologia di attacchi nevrotici molto intensi, di cui erano generalmente vittime soggetti femminili. Il termine viene dal greco Hystera, utero: infatti nell’antica Grecia si considerava che la causa di sintomi di questo tipo nelle donne fosse uno spostamento dell’utero.
Spesso dietro diagnosi e terapie relative si nascondeva una misoginia profonda e una grande violenza contro la donna ed ancor oggi per neutralizzare la forza di carattere e la determinazione di donne di potere si tenta di definirle isteriche.
I soggetti tipicamente colpiti da attacchi di questo tipo erano donne di buona società. Sigmund Freud fondò buona parte delle sue teorie sullo studio di questo tipo di situazioni patologiche. Il metodo psicoanalitico si formò nel tentativo di capirne il meccanismo scatenante e cercare una terapia.
Freud individuò le cause in un trauma infantile rimosso dalla persona, che grazie alla tecnica delle sedute di psicoanalisi poteva essere riportato alla coscienza e neutralizzato. 

Sigmun divenne famoso e cominciò ad avere prestigio e notorietà presso la classe dei neurologi proprio dopo aver curato e pubblicato un suo caso clinico di una donna isterica portata a guarigione.